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giovedì 20 agosto 2020

 “VENEZIA!”

Il recente post sul calcio d’infanzia ha stimolato, come sempre in Italia quando si parla di calcio, accesi dibattiti. Anche quelli scelti per ultimi quando si faceva la formazione e sempre assegnati all’isolato ruolo di portiere (eheheh io ero uno di loro :) ), in tanti hanno voluto dire la loro.

E’ vero che le femmine non erano ammesse?
Qual è la differenza tra porte e porticine?
Come si stabiliva un fallo?
Perché uno che non passava mai la palla era detto “Venezia”?

Oggi parleremo dell’ultima questione. Studi comparati di filologia all’Università di Gottinga hanno appurato che veniva chiamato Venezia un giocatore che, in possesso di palla, preferiva avventurarsi in dribbling e falcate senza passarla mai a compagni meglio appostati che facevano inutili cennazzi con le braccia.

Quando poi inevitabilmente la perdeva, i compagni inviperiti cominciavano a chiamarlo “Venezia!” e altri aggettivi che le cronache non riportano. Qualcuno veniva anche menato nello spogliatoio, prima manifestazione di giustizia proletaria.

Il perché del nome era dovuto alla nota conformazione della città lagunare, in cui se sbagliavi passaggio la palla finiva nei canali, dove doveva essere recuperata a nuoto. Meglio allora avventurarsi in solitaria, con tutti i rischi del caso.

Curiosamente, il termine è passato anche al calcio professionistico e viene così chiamato un giocatore con spiccata propensione all’individualismo, che non fa gioco di squadra (Recoba o il Ronaldinho dei tempi migliori). Magari bravo, ma che genera mugugni nei compagni di squadra.

Il Venezia è visto come la peste dagli allenatori, visto che non ubbidisce e spesso gli altri corrono per lui, non ha vita facile. Viene elogiato se ce la fa (una volta su venti) ma più spesso insultato e vituperato. Dura la vita del solitario, insomma.


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