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sabato 30 novembre 2019


UN ANNO FA

Esattamente un anno fa, il 30.11.2018, Massimo Iezzi mi salutò uscendo, tornava a casa sua in bicicletta. Era l’ultima volta che lo vedevo ma nessuno dei due se lo immaginava.
Avevamo passato una bella giornata insieme e quel venerdì si era aggregato pure Davide Corradi. Noi tre, vecchi amici di Pecorini 4, avevamo parlato dei vecchi tempi, sparando due scemenze, quattro cazzate, le solite cose.

Davide se ne andò verso le 16 come al solito (andava a prendere la moglie), Massimo restò a cena ma poi se ne andò anche lui.
“Non vuoi che resti a dormire qui?”
“Ma no Max, vai pure a casa tua, sai che dopo arriva la mia morosa, vai vai.”
“Vabbè allora, ci vediamo domenica sera” e uscì salutando gioviale.

Dio, come mi son pentito di non averti detto sì.

Le sue ore successive poi le abbiamo ricostruite in questo modo: si recò al Patrick’s bar di via Zante (il vecchio Toledo), prese una birra e mangiò qualcosa. Incontrò Andrea di Vita, che quindi fu l’ultimo a vederlo vivo.

Verso mezzanotte arrivò pedalando a casa sua, arredata poveramente. Si avvolse nelle coperte ascoltando la radio con le cuffiette, come suo solito, e si addormentò.
I pompieri lo trovarono così, doveva essere morto tra le 2 e le 4, gli era venuto un infarto nel sonno.

Era un amico, il grande amico ritrovato della mia giovinezza, tante cose ci legavano. E ora te ne sei andato, mi hai lasciato alla mia brutta vita e non passa giorno che non pensi a te.



venerdì 29 novembre 2019



L’INIZIO DEL MIO DISTACCO DAL QUARTIERE
“Signor Tartaro, la prego, mandi suo figlio a scuola con noi.”
“No, ve l’ho già spiegato! Luca deve fare le scuole medie dai preti!”
“Ma noi siamo i suoi amici e andiamo tutti lì….”
“Lo so, ma per lui voglio una cosa speciale. Io da bambino ero andato a scuola dai Salesiani e mi è stato utilissima. E per Luca voglio la stessa cosa.”
“Ma i preti son lontani, la Ferrarin è qui vicina.”
“Ci sono gli autobus, si abituerà.”
E fu così che, per volontà di mio padre e contro il parere dei miei amici, alla età di 10 anni ho iniziato a frequentare le scuole medie dai Salesiani vicino alla Stazione Centrale.
Ogni mattina alzavo la tapparella della mia camera e vedevo una Media che non era la mia. Mi preparavo e andavo a prendere con la mia cartella la 45.
Che freddo certe mattine, che nebbia. Ero il più giovane alla fermata dell’autobus. Mentre aspettavo prendevo la mia macchinina e facevo vrum vrum sui cofani delle macchine in sosta.
Intanto guardavo la gente che aspettava l’autobus. Già allora notavo che c’erano due tipi di persone, quelli che rimanevano immobili e quelli che andavano su e giù.
Ma alla fine, oggi che sono più adulto mi chiedo, ma è servito andare a studiare dai preti? Siamo sinceri, che effetti ha avuto?
Oh, di sicuro un effetto c’è stato, staccarmi dal quartiere. E in parte ammetto che ci è riuscito: piano piano gli altri accumulano esperienze, conoscono amici e amiche, nascono le prime bande, si formano i gruppetti, ci si scambia le confidenze e tu sei lì, alla fermata della 45 mentre gli altri ancora dormono.
Però...però il fatto che io sto scrivendo qui tra voi e che mi fa piacere farlo, vuol dire che in effetti un distacco c’è stato ma solo in superficie. Il Quartiere mi è rimasto addosso, un segno indelebile.
Come tanti altri, immagino, che presto o tardi volenti o nolenti se ne sono andati via dai luoghi della prima giovinezza.
E, anche se so il latino, ti devi rassegnare papà: resto sempre un ragazzo di periferia. Tiè!

(nella foto il campo che c'era PRIMA di costruire la scuola media)


Che brutto vedere un genitore che, tra la cocaina e il figlioletto di un anno, sceglie la cocaina. Non mi abituerò mai


giovedì 28 novembre 2019

IL BUONO CHE FA BENE
Riporto una mia sensazione personale.
Quando attraverso un qualsiasi sobborgo di periferia e, oltre ai soliti casermoni alveari, noto anche tanti bar, sale di scommesse e locali notturni, una vocina dentro di me dice “ahia”.
Mi capita invece di passare per le strade di un altro quartiere e, oltre ai soliti casermoni e macchine, vedo anche che sono state progettate scuole, centri sportivi, un oratorio (non si ha idea di quanti ragazzi salvi un oratorio), palestre… e allora mi dico interiormente “siamo salvi”.
Purtroppo ho visto con gli anni che mi sono sbagliato, non è che nascere in un posto o in un altro garantisca salvezza o dannazione, però qualcosa di valido in quel pensiero sento che c’era.
Lo sport nei giovani (maschi o femmine che siano) ha per esempio un potere enorme, riesce a darti un motivo di gioia, una speranza, fa stare bene. Bisogna incoraggiare i giovani a fare sport, non può che migliorare spirito e corpo.
E che bella sensazione sapere di essere cresciuto nel Quartiere Forlanini, dove i ragazzi e ragazze utilizzavano ogni minimo spazio per schettinare, iniziare gare o interminabili partite di pallone.
(nella foto di inizi anni ‘60, il Quartiere in costruzione!)


LE VOCI DEL QUARTIERE
Oggi una cosa diversa dal solito. Grazie alla sempre-sia-lodata Paola Boltin ho recuperato una registrazione di me al pianoforte che suono Bach al Teatro Delfino durante il saggio annuale.
Era il 21.5.1977 e avevo appena compiuto 16 anni.
Dio, come ero legnoso. Volenteroso ma totalmente privo di "colore" (come si dice in gergo), cioé sfumature, delicatezza, personalità... proprio un ragazzo. Certi aspetti sono venuti (se sono venuti) con gli anni. Vabbè, applaudite la gioventù 
Ed ecco la cosa interessante. Ascoltate i primi 30 secondi e poi dal minuto 5.40. Si sentono le voci originali dei presenti di più di 40 anni fa. 
Qualcuno si riconosce?


mercoledì 27 novembre 2019


UN LOCALE SEMPRE APERTO

“Uèla Luca, ma che faccia hai?”
“Mi annoio. Ho già finito i compiti per domani e non so cosa fare.”
“Dai vieni con me allora, ti porto al Drago Verde che è bello.”
“Che roba è?”
“E’ un locale sempre aperto dove si può bere gratis. Sta qui in via Cossia.”
“Veramente? Gratis? Anche per noi di Quinta Elementare?”
“E certo! Ed è tutta roba fresca.”
“Wow! Andiamo!”
“Tranqui, seguimi. Guarda chi c’è all’angolo, ci sono Pino e il Corra.”
“Sconvolti, cosa fate lì?”
“Stiamo andando al Drago Verde, venite anche voi?”
“Eccoci.”

E dopo dieci minuti di cammino, il baldanzoso gruppetto arrivò vicino ad una fontanella di bronzo. Profilo inequivocabile e un stemma bianco e rosso con la scritta “Comune di Milano”. Io ero sbalordito ma non volevo fare la figura dell’ignorante, da poco ero in quartiere.

“Ma...ma è la fontanella dell’acqua….”
“Bella fresca. Noi del Quartiere ci troviamo qui davanti ogni giorno. Oh Pino, mostra il trucco che ti ha insegnato tuo fratello!” Pino tappò il buco da cui scendeva l’acqua e miracolo! Un getto zampillò per aria dalla fronte del draghetto.
“Così puoi bere senza attaccare la bocca al metallo, che poi ti becchi le malattie e ti cade la bocca.”
“Figata!”


martedì 26 novembre 2019

RADICI E CICATRICI DI QUARTIERE
Quando nasciamo siamo tutti belli e senza un graffio. Lisci e nuovi come dovrebbe essere.
Ma dopo più di 20 anni passati nel quartiere posso dire che mi è rimasto addosso qualcosa di particolare? Da quale segno si nota che vengo dalla periferia del Forlanini?
Mi accorgo che agli estranei presento tatuaggi invisibili ma inequivocabili.
1.LA PARLATA di questa ci si accorge subito e l’hanno notato in tanti. Basta che apro bocca e subito si capisce da dove vengo. “Ah da Milano. Ma sei proprio di Milano Milano?” I dubbi nascevano dal fatto che ogni tanto infilavo dentro parole non proprio lombarde. Vale anche al contrario: si può dire che i dialetti d’Italia li conosca e li capisca in gran parte. Eh sì, il mio quartiere era molto variegato .
2.VIVERE IN PERIFERIA. Io non sono nato in centro e non mi sembrerebbe una vergogna. Ho sempre detestato, anche da ragazzino, chi si faceva vanto della sua “milanesità” ribadendo nobili origini: “mi sun de Porta Cecca”, “io vengo dai Bastioni”, “Ho una zia che abita in Piazza San Babila”, “Sabato siamo andati alla Rinascente, e tu?” Io no, sono andato al super di Piazza Ovidio, ma anche se ci metto un’ora per andare in Piazza Duomo e abito vicino alla Tangenziale Est sono milanese come voi.
3.LA MALAVITA: chi abita in periferia sa fin da bambino che c’è una cosa che si chiama Malavita. Non lo scopre, fa parte del quartiere e di conseguenza della vita. Si gira sempre con l’occhio vigile. Di quanto mi fosse utile me ne sono accorto dopo lavorando in Tribunale, non facevo alcuno sforzo per immedesimarmi in certi tipi, sapevo come la pensavano e da cosa difendermi. Non ero certo il ragazzo ricco che scopre con stupore che c’è il male nel mondo o quello che viene dal paese e ha timore del forestiero.
4.LA PICCOLA BELLEZZA. La mia idea di felicità noto che è proprio da periferia, molto lontana da certe visioni hollywoodiane. Non mi piacciono le grandi feste, i ricevimenti mi annoiano, la campagna è monotona, il mare e la montagna anche se belli poi non vedo l’ora di tornare… Però mi piace la nebbia, la mostarda con il lesso, il vino buono, il rumore dei bambini nei campi gioco, il fiume di macchine, gli aerei che decollano, vedere le montagne, il sapore del minestrone freddo, la concretezza, le piccole chiese. Queste cose mi riempiono il cuore, mi fanno più felice di tanti onori e fanno parte delle mie radici.
Ecco aspetti di me da cui capisci subito le mie origini. E’ evidente per esempio agli occhi altrui che non facevo certo parte di una elite ricca e nobile ma nemmeno provenivo da una fascia poverissima e arretrata.
Sono un esponente della middle class meneghina degli anni 60/70 insomma, ma quella medio bassa non certo la borghesia raffinata. Non c’è proprio da vergognarsi, non ci provare, sono le mie radici.
Specchio specchio delle mie brame, da dove viene questo ragazzo del reame?


lunedì 25 novembre 2019


PRIMO AMORE

A 10 anni mi innamorai perdutamente di una bambina che abitava in via Pecorini. Mi veniva il batticuore quando la incontravo. Aveva i capelli lisci e gli occhi...anzi no, non vi dico nulla perché voi siete cattivi e con i sentimenti ci vuole prudenza.

Timido e occhialuto com’ero non le rivolsi mai la parola. E poi capivo che anche lei era timida, forse per questo mi piaceva. Ogni giorno passavo davanti a casa sua con la speranza di vederla e se ero fortunato usciva con mamma che teneva per la manina.

Poi tornavo a casa, sospiravo e scrivevo con grafia infantile le mie prime poesie (spero si siano perse tutte, sai che imbarazzo). Sospiravo, facevo lunghi giri, il classico amore plutonico.

Non sapevo cosa bisognava fare, ho imparato dopo a mie spese, e mi vergognavo di dirlo agli amici. Temevo di essere preso in giro e a quella età ti rovinano.

E’ stata solo una roba interiore quindi ma mi ha segnato, deve essere la prima volta che ne parlo. Chissà se sull’autobus qualcuna si è mai innamorata di me.
Dopo mi passò, la vita si diede da fare per passare alla pratica. Che roba brutta. Ma quella fu la prima volta che provai qualcosa, che aprii timidamente una porta poi rimasta aperta tutta la vita.



domenica 24 novembre 2019

SE TU FOSSI IMPRIGIONATO E CONDANNATO ALL'ERGASTOLO PER UNA COLPA CHE NON HAI COMMESSO, COSA FARESTI? COSA TI SPINGEREBBE AVANTI? COME REAGIRESTI?
Posso rispondere, ma forse non come intendi.
A 36 anni ho scoperto di avere una grave malattia neurologica, la Sclerosi Multipla, e in una forma pure aggressiva. E' una malattia di cui non si conosce la causa (esistono, esistono…) e allo stato attuale non c'è cura.
La faccio breve, altrimenti sai che sugo. Oggi dopo 20 anni sono in sedia a rotelle, il lavoro è andato a ramengo, i rapporti amorosi anche. Esco pochissimo e sono confinato in casa, dove vivo da solo con grandi difficoltà.
Sono stato condannato alla Detenzione Domiciliare perpetua e senza che ne avessi alcuna colpa (a meno che in una vita passata fosse Hitler, ma non credo a queste cose).
Mi suicido allora? No. Giornate tristi ci sono ma tiro avanti. La realtà è che MI SONO ADATTATO. Ho i miei piccoli progetti, le mie gioie, la vita ha lo stesso un senso.
Paradossalmente per esempio ho tantissimo tempo libero e sta a me sfruttarlo al meglio. Mi piace scrivere e ho pubblicato un paio di libri. Nel mio piccolo sono stimato e sento tanto affetto. E recentemente è tornato anche l'amore.
Ti adatteresti anche tu, ti assicuro. Non so come (ognuno è un caso a sè) ma ti adatteresti. L'essere umano è per definizione un animale adattabile e vuole sopravvivere. Non è certo la vita che volevo ma è pur sempre la mia unica vita e dipende da me se viverla o meno.


sabato 23 novembre 2019


PERCHE’ NON ME L’HAI DETTO?

Perché non mi hai detto che a casa tua non avevi il riscaldamento?
Perché non mi hai mai detto che te la passavi così male?
Qualcosa avevo intuito, ma pensavo che almeno avessi il minimo.
Cazzo, quanto mi sono sentito in colpa per averti mandato a casa tua quel weekend di novembre, al freddo e al gelo.

Ti vergognavi di esserti ridotto così all’osso, eri povero e orgoglioso, combinazione letale.
Ero io che dovevo morire, cazzo, non tu, ero io che ero stato male in ospedale.
Ti sei lasciato andare. No, non è così che si fa.
Dopo la tua scomparsa sono andato a controllare le medicine. Erano intatte, non le prendevi neanche. E non me ne ero accorto, idiota che sono.

Ecco perché eri contento di stare da me, non solo mi aiutavi e guadagnavi qualcosina, ma potevi anche trovare una casa calda, pulita, in frigo qualcosa da mangiare.
Sei stato abile a nascondere a tutti quanto eri disperato. Qualcosa avevo capito, lo ridico, ma non immaginavo una voragine così profonda. Da quanto tempo andava avanti questa storia?
Neanche i soldi per riparare la adorata Vespa avevi, te li ho offerti ma con una scusa hai rifiutato. E adesso ho un modellino di Vespa sulla scrivania e ogni volta che lo guardo mi vieni in mente.
E in frigo tengo sempre la spuma Bracco, che era buona ci piaceva e costava poco.

Non va bene essere così orgogliosi, non ci si può lasciare andare. Anch’io a volte sono tentato di farlo, poi ti ricordo e vedo che mi fai segno di no, “non fare come me”.
Una amica per consolarmi della tua perdita mi disse: “consolati, gli ultimi tre mesi della sua vita li ha trascorsi bene, non era più in ristrettezze. Non era più solo. Era al caldo e in compagnia. Gli hai dato quelle cose che non ha mai avuto.”
Ma avrei voluto fare di più, avrei voluto salvarlo. E adesso non c’è più tempo.







UN AMICO SE NE VA
La sera del 2 dicembre 2018, una domenica, aspettavo che Massimo Iezzi ritornasse a casa mia. Da qualche mese il vecchio amico del Forlanini era venuto ad abitare da me per assistermi dopo la polmonite che in estate mi aveva devastato.
Dato che Massimo partiva da casa sua (Tribiano) in bicicletta doveva essere da me abbastanza presto, verso le 18.00, prima che facesse buio buio.
Alle 18 non si vede... nemmeno alle 19… nemmeno alle 20. Intanto mi ero attaccato al telefono ma non rispondeva. Il mattino dopo doveva accompagnarmi in studio per effettuare una perizia. Massimo, dove cazzo sei? Strano perché magari aveva tanti difetti ma era sempre puntuale.
Niente, non compariva. Iniziarono a venirmi brutti presentimenti, forse un incidente. Nella notte parlai con Davide Corradi che mi disse “Ok domani mattina sono libero, vado a casa sua a vedere, dammi l’indirizzo”.
Il mattino dopo mia sorella Matilde, casualmente quei giorni in Italia, mi accompagnò nel mio studio dove avevo una perizia per il Tribunale Minorenni, roba delicata. Mi immersi nel caso, avevo davanti genitori tossici.
Alle 10.43, in pieno dibattito, mi arrivò una telefonata da Davide. Aveva un tono di voce ancora incredulo: “Massimo è morto”.
Rimasi impietrito. Davide aveva notato nel cortile la sua bicicletta e nella porta di casa la chiave nella toppa (brutti segni). Era andato dai Carabinieri che avevano chiamato i Pompieri, entrati dalla finestra di casa. L’avevano trovato morto avvolto nelle coperte, gli era venuto un infarto nel sonno. Viveva molto poveramente, in una casa senza nemmeno il riscaldamento.
Davide mi disse anche altre cose che non ricordo più. Riattaccai. Avevo davanti a me due genitori infervorati che iniziarono subito a dirmi e spiegarmi cose importantissime. Non so come riuscii a rimanere impassibile mentre prendevo appunti. E’ stata la più grande prova di autocontrollo della mia vita.
Tornando, l’enormità della notizia e il dolore iniziarono a crescere dentro di me. Massimo è morto...è morto! Lo conoscevo da quasi 50 anni (50 anni) e se ne era andato così. No no no.
Non ci potevo credere. Sentii ancora Davide al telefono che confermò la notizia e mi diede altri dettagli. Era tutto vero.
Rientrando in casa la sua presenza era ovunque. Vestiti, coperte, il tabacco, le medicine per la pressione. La casa era vuota adesso senza Massimo, è mancato talmente all’improvviso che c’erano dappertutto cose sue. In frigo c’era ancora la pasta con patate che era stata preparata per lui e quando l’ho finita son crollato.


I FROCIONI DI BRUZZANO
Facciamola corta, altrimenti sai che sugo. A giugno 2018 mi venne una polmonite fulminante, che all’inizio scambiai per una banale influenza.
Inutile dire che in pochi giorni mi devastò anima e corpo. Vivendo da solo precipitai nell’abisso.
Una vicina passò per caso, mi vide paralizzato a letto e avvisò mia madre che chiamò l’ambulanza. Ho dei ricordi confusi (e te credo) di quando mi han portato al Pronto Soccorso, ero in pieno delirio. Ebbi pure una esperienza di pre-morte, magari ne parliamo quando ci vediamo. Sono stato acciuffato, mi ha rimproverato poi un medico, appena in tempo.
Un potente antibiotico ospedaliero mi riportò indietro nel mondo. Quando riaprii gli occhi ero in un letto d’ospedale di Niguarda, era il 25 giugno 2018 ed ero completamente paralizzato. Potevo solo aprire e chiudere gli occhi.
Tra i primi ad accorrere ci fu proprio lui, Massimo Iezzi. Dato che non potevo muovermi mi imboccava come un bambino e passava l’alcool saponato sulle piaghe per impedire il decubito. Grazie Massimo.
Due mesi rimasi a letto. I miei genitori, visto che passava spesso e mi accudiva con gentilezza, gli offrirono 100€ per venire da me tutti i pomeriggi. Massimo, all’epoca disoccupato, accettò volentieri e ci vedemmo ogni giorno. Il grande potere delle vecchie amicizie, solo da lui io immobile accettavo certe cose.
A poco a poco mi ripresi, molto a poco a poco, ma ormai pensavano a dimettermi. Essendo in sedia a rotelle avevo ancora bisogno di assistenza e fu così che Massimo Iezzi si trasferii a casa mia, con l’obiettivo di aiutarmi finché non mi riprendevo. Dormiva sul divano ma so che per questa convivenza maschile eravamo diventati “I Frocioni di Bruzzano”. La gente è perfida.
Spesso sentivo che la notte si alzava per aprire il frigo o rollarsi una sigaretta. Anche lui era abituato a stare solo. Però ho parlato molto con lui, mi portava in giro e in quei mesi di fine 2018 abbiamo diviso veramente tutto.
Eravamo due lupi solitari, due vecchi amici del Forlanini che stavano bene insieme, ognuno aveva il suo spazio e quasi dispiaceva a Massimo tornare a casa sua la domenica per un giorno. Una sera però non tornò.
(continua)


MASSIMO E LUCA
Qualcuno si ricorda di Massimo Iezzi?
Classe 1961 come me, abitava in via Pecorini n° 4, io al n° 8 e da bambini eravamo amicissimi. Sempre insieme alla banda del 4 (il fratello Maurizio Iezzi, Andrea e Nino di Vita, Davide Corradi, Gianni Branzaglia, Nappi, Roccatagliata e tutti gli altri sconvolti). I nostri genitori si conoscevano ed eravamo sempre a casa di uno o dell’altro.
Poi la vita ci aveva diviso. Io ero uscito dal Quartiere e avevo perso di vista un po’ tutti. Ogni tanto mi arrivavano notizie come meteore ma troppo poco. Era tutto passato, nebbioso come certe mattinate quando aspettavo la 45.
Certo, capitava di pensare a dei ricordi (quelli che sto postando qui), sorridere e poi scuotere la testa. Ma erano cose mie e poi….. quarant’anni dopo dai, non pensiamoci più.
E poi Davide Corradi si rifà vivo al telefono, fissiamo un incontro e a gennaio 2018 mi porta un’ospite a sorpresa, Massimo Iezzi!
Ricordo ancora quando, dopo così tanti anni, Massimo entrò gioviale dalla porta, con il suo fisico come diceva lui da “gladiatore sovrappeso”. Massimo! Ci salutammo con un certo imbarazzo, ognuno di noi cercava nell’altro il ragazzo che aveva conosciuto.
Ma era lui, Massimo. Era proprio lui. In due secondi, 40 anni svanirono di colpo. Il primo giorno abbiamo chiacchierato 11 ore. Eravamo ancora i due sbarbati che si cercavano nel pomeriggio o io che citofonavo a casa sua.
“C’è Massimo?”
“Adesso scende.”
Dopo quella prima volta, io e l’amico ritrovato ci rivedemmo molto molto spesso. La vita non ci aveva trattato bene. Io per motivi di salute, lui invece aveva perso il lavoro, era solo al mondo e se la passava assai male (ma quanto male lo scoprii solo dopo, troppo tardi).
Ma ci volevamo un sacco di bene e io ho scoperto che mi fidavo di lui, mi fidavo tantissimo. Gli lasciavo le chiavi di casa senza problemi. Perché amici come quelli non ne ho trovati mai più.
Ah Max, perché la vita è andata così? Poi venne giugno, l’orribile, e mi capitò una tragedia.
(continua)


giovedì 21 novembre 2019

LO SPINOTTO
“Oh raga, ci facciamo una canna?”
“Sì dai!”
“Io ho della roba che è una bomba, mica il solito fumaccio da strada.”
“Vai, grande.”
“Mettiamoci in cerchio!”
“Dai, passa ‘sta canna.”
“Che figata. E’ proprio bona.”
“Dai, passssa, terruncello.”
“Ma se te l’ho appena data? Cazzo dici?”
“Dove? Ingordo, passa la cannetta.”
“Ho tirato e te l’ho data!”
“Io non c’ho nulla...”
“Dov’è finita la bonza?”
“Che cazzo ne so?”
“Ahò, tirate fuori la canna!”
Il colpevole ero io. Quando era arrivata a me, di nascosto ero andato in bagno con la canna, senza farmi notare.
Finalmente uno spinotto per me, tutto per me. Volevo provarla, se veramente si sentivano quelle cose che dicevano tutti. Tenendo la finestrella del bagno aperta, me la fumai in religioso silenzio. Poi rimasi in attesa.
Una sigaretta dolciastra. Sentivo solo un lieve stordimento, come quando si beve una lattina di birra. Tutto qui? Che delusione.
“Eh si vede che non era buona”. Forse è vero, ma per me fu abbastanza per capire che quel mondo non mi interessava.




VETRI ROTTI
Questa l’ho capita più tardi. A 10 anni, cosa vuoi capire.
A quell’età pensi solo ad andare in bicicletta con il tuo amico Gino. Si fanno giri sempre più lunghi, si prende coraggio, nei pomeriggi si finisce al Parco Forlanini, in angoli sperduti e avventurosi, dove mai bici di bambino si era avventurata.
Fu in uno di quei giri che Gino notò una stranezza, un auto ferma e isolata sotto un albero, quasi nascosta.
“Luca hai visto quella macchina?”
“Sì, secondo me ha i vetri rotti.”
“Perché?”
“Gino, non vedi che ha i finestrini tutti coperti dai giornali? Secondo me i vetri sono rotti.”
“Ah. Ma Luca, non ti sembra che quella macchina si sta muovendo?”
“Impossibile. E’ ferma.”
“Ma guarda, sta dondolando. Va su e giù. Magari c’è dentro un cane che salta. Aspetta vado a vedere.”
Gino era un bambino molto coraggioso. Io non ci sarei mai andato. Restando sulla bicicletta e tenendo il manubrio con le mani, andò piano verso la macchina usando i piedi. Sbirciò dentro la macchina tra un foglio e l’altro e poi ritornò da me bisbigliando.
“Oh, ci sono dentro due.”
“E che stanno facendo?”
“Boh, mica parlavano. Però si muovevano su e giù.”
“Ma chi sono? Li hai visti?”
“Non si vedeva bene. Dai Luca, andiamo via, questo posto non mi piace.”
“Andiamo! Torniamo domani.”
E vai di bici. Poi la sera, quando lo raccontai a mio padre mentre leggeva il giornale, mi consigliò solo di non tornare da quelle parti, senza aggiungere altro. Che mistero misterioso.


martedì 19 novembre 2019

LA PRIMA VERSIONE

"Ragazzi, io e Jimmi abbiamo fatto una nuova canzone che non è male."
"Di che parla?"
"Di una signora che compra dell'oro."
"Ehhh?"
"Sì, il testo devo ancora finirlo, secondo me manca qualcosa ma direi che ci siamo. Iniziamo però solo noi tre, tu Bonzo entri a metà. Deve essere un crescendo questa canzone."
"Sgrunt. Vabbè. Ditemi voi."
"Io invece hai detto che entro subito?"
"Sì Jonesy, però non suonare il basso, per me è meglio se ti metti al piano elettrico. Questi sono gli accordi. Fai da contrappunto alla acustica di Jimmi, una roba sognante come sai fare tu." "Sì abbastanza facili."
"Tutti pronti allora? Vai Jimmi, one two three four..."



ESPLORANDO LA PERIFERIA

Una delle conseguenze di aver preso la patente (vedi ieri) è che potevo finalmente recarmi dove volevo senza dire niente a nisciùn.
In particolare c’era un posto dove volevo andare vicino al Quartiere ma mi era sempre rimasta sul gozzo la curiosità. Ma il piccolo esploratore che è in me ora scalpitava. Bisogna conoscere il territorio, come dice Che Guevara.

Se venite dal centro e fate tutta via Piranesi, la via dove si trovava il Palaghiaccio per intenderci (altro post di oggi), arrivati alla fine della via indi svoltate a sinistra per immettervi subito a destra in viale Corsica e superare i Tre Ponti. Fin qui mi seguite, ora c’è il cambiamento.
Se infatti arrivando alla fine di via Piranesi... invece di svoltare a sinistra per i Tre Ponti come al solito... andate diritto? Non so se avete presente, una strada c’è, dove porta?

Un pomeriggio domenicale d’estate, mentre scorrazzavo neopatentato con la capote del Dyane aperta, andai diritto. Prudenza ero in territorio sconosciuto. Passai sotto un ponte già allora pieno di murales colorati. Ero praticamente sotto la ferrovia e sbucai...nella sconosciuta e senza uscita via privata Decemviri.

Una via surreale, deserta, con alla sinistra il muro della ferrovia e alla destra dei capannoni. Non sembra neanche di essere a Milano. In fondo alla via, un giardino privato che era quasi un bosco.
Non lo sapevo, ma i vecchi ciucatùn della zona conoscevano benissimo la via perché vi si trovava la Trattoria del Gatto Nero, ritrovo all’aperto che d’estate era una meraviglia.

Sì, ogni tanto passava il treno ma per me che ero cresciuto vicino all’Aeroporto sai che c’è, mi faceva un baffo.
Esiste ancora questa trattoria? D’estate si mangiava all’aperto, circondati dagli zampironi accesi.



lunedì 18 novembre 2019

LA PATENTE
A differenza di voi furbissimi, che già a 16 anni guidavate il catorcio di vostro fratello maggiore, io arrivai ai 18 anni senza avere mai veramente guidato.
Eppure volevo la Patente, quella vera, per viaggiare nel mondo in autonomia. Un sogno. Da bravo bambino, mi iscrissi alla Scuola Guida vicino alla banca in piazza Ovidio, seguii tutte le lezioni e all’esame teorico dopo qualche mese feci un figurone, 10 su 10. Che ci voleva?
Sulla carta ero bravissimo. Malgrado tutte le lezioni, però era la pratica che mi fregava.
Ricordo ancora il giorno dell’esame, la prima volta il serissimo ingegnere, che aveva gli occhi azzurri e la camicia intonata agli occhi (strano come rimangano impressi certi dettagli), disse perentorio: “Vada a destra”.
E io, emozionato come una biscia...girai a sinistra.
“Tartaro, dove cazzo è la destra!!?”, urlò quello della Scuola Guida al mio fianco.
Inutile dire che venni bocciato. Non fui l’unico quel giorno, ma che smacco.
Bisognava affrontare di petto la situazione. Con cautela, mo padre mi portava a fare pratica vicino all’Aeroporto, dove si snodano stradoni immensi e isolati. Era pure piena estate, non si vedeva anima viva. Perfetto.
Piano piano imparai ad essere più sciolto. Un pomeriggio sorpassai pure un ciclista (non lo sai, ma ti ricorderò per sempre).
L’incubo vero per me erano i parcheggi ma essendo in estate le distanze erano ampie. Oggi sono il mago del parcheggio ma all’epoca confesso la mia imbranataggine.
Comunque il giorno dell’esame arrivò. Non si poteva fallire, se andava male la seconda volta dovevo rifare tutto daccapo. Misi me stesso in modalità zen e l’esame andò benissimo.
E finalmente nel 1980 ottenni la patente, ero tra i primi del mio gruppo e con il Dyane verde decappottabile della Citroen (il “rospo”) di mia madre ero capitano, guida e nostromo. Era come avere il pallone quando si giocava a calcio, eh sì ero io che decidevo. Beeeeello...
Quanti chilometri nella ma vita, quante macchine da allora. Beh, ma questa è un'altra storia.
Nella foto un Dyane verde. Non si rompeva mai, consumava poco, era decappottabile (l'ara fresca mi turbinava i capelli che ancora avevo) e la carrozzeria era di semplice latta. Insomma, era l'amore mio.


domenica 17 novembre 2019

LA DIFFERENZA

Come neolaureato in Psicologia svolsi il tirocinio in un ospedale per anziani, dovevo intervistarli per un pomposo progetto intitolato “Il benessere psicologico nella terza età”. Quante cazzate. A ripensarci, all’epoca dovevo essere il tipico dottorino appena uscito dall’Università “so-tutto-io”. Odiosissimo.
Però non me ne accorgevo perché tutti i vecchietti quando mi vedevano mi facevano grandi sorrisi e complimenti: “come è bravo!”, “che bella voce che ha, Dottore!”, “Oggi è elegantissimo!”. E io ero così tonto che ci credevo e cascavo (oddio, ci casco ancora oggi, ma questa è un’altra storia).
In uno dei primi incarichi mi mandarono nel reparto dei malati di Alzheimer e demenza senile per delle interviste. Mi recai dalla malata conciata meno, una signora che mi accolse sdraiata a letto e con cui si poteva ancora parlare anche se talvolta biascicava.
Stranamente mi ricordo bene il colore azzurro della vestaglia, in tinta con un mazzo di fiori sul comodino. Questo è quello che ricordo del dialogo di tanti anni fa.

“Belli questi fiori, signora.”
“Me li ha portati ieri mia nuora. Li ho tenuti anche se gli infermieri non vogliono fiori in reparto.”
“Eh sì, portano batteri.”
“Non ha importanza. Io li voglio qui vicino a me. Ogni tanto questa notte quando ero sveglia li guardavo e piangevo.”
“Lei piange spesso?”
“Ogni notte mi faccio la mia bella piangiutina. Poi sento gli uccellini la mattina e capisco che è arrivato un nuovo giorno.”
“E fa fatica a dormire?”
“Ormai più che 2 o 3 ore per notte non riesco. Dico le preghiere ma spesso cado in uno stato di malinconia che dura ore. Mi sento stanca anche se non ho fatto niente.”
“Se posso azzardare una interpretazione lei mi sembra un filo depressa, signora.”
A quelle parole la signora mi guardò decisa. Ma non c’era rabbia o risentimento nei suoi occhi.
“Dottore, io non sono depressa, io sono triste.”
“E che differenza c’è?”
“Lei non conosce la differenza, Dottore? Ah ma è normale, lei è così giovane. Mi sento triste perché… ho avuto una perdita.”
“Lei è in lutto? E’ morto qualcuno?”
“In un certo senso sì. Sono morta io. Ho perso la mia salute, la mia autonomia, sto incominciando a perdere i ricordi. Si sentirebbe così anche lei se fosse nella mia situazione.  Sa che ieri non mi ricordavo più il nome di mia nuora? Eppure voglio così tanto bene a quella ragazza. Sono così felice che ha sposato mio figlio…”
Qui la signora si mise a piangere. Io non sapevo bene cosa fare, per fortuna mi ricordai delle parole del mio maestro “Quando non sai che cosa dire, non dire niente”. La signora continuò.
“Ho paura, ho sempre paura. Già ho dovuto accettare quella lì –e indicò una sedia a rotelle- e poi… poi temo di ridurmi presto come lei”. Stavolta mi indicò la sua compagna di stanza, che dormiva immobile.
Io ero sempre senza parole. Quella anziana donna si stava sfogando.
“Lo sa, Dottore, che quella si spaventa quando passa davanti ad uno specchio? Non si riconosce, vede una estranea e si mette ad urlare.”
“Eh sì, in effetti avevo notato che in questo piano non ci sono specchi.”
“Ho paura di finire come lei, di non riconoscere più nulla, di perdere la mia dignità. E so…so che presto sarà così. Tutti i giorni prego Padre Pio perché venga a prendermi –si asciugò gli occhi, poi mi guardò-. Ce n’è abbastanza per essere triste, no?”
Io pensavo…non so che pensavo. Forse che non si finisce mai di imparare.
“Mi faccia andare a casa mia, Dottore. Voglio andare a casa.”
“Lei ha una bella casa, signora?”
“Oh sì, è piccolina ma è proprio giusta per me. E’ in campagna. Da quando è morto mio marito, povero, l’ho arredata con tutte le mie cose. Lì mi trovo bene. Mi faccia tornare a casa Dottore, la prego.”
“Lo dirò al Primario, non si preoccupi. Ma lei perché era qui?”
“Mi era venuta una infezione e non riuscivo a curarmi da sola. Inoltre un giorno avevo dimenticato una roba sul fuoco. Ma adesso ho capito cos’ho, mi prenderò una infermiera, mi farò seguire. Lo dirà al Primario?”
“Certo.”
“Come sono contenta.”

Beh, forse alla fine a qualcosa servivo.
SVEGLIATI, PICCOLA SUSIE!

Immagina di essere un adolescente americano che negli anni ’50 porta al cinema la sua amichetta. E’ la prima volta, sei emozionatissimo e vuoi fare bella figura. A sua madre prometti da bravo ragazzo che riporterai la piccola Susie prima delle 10. La speranza è quella di un bacio, quanti film interiori che si fanno i ragazzi (mi dicono dalla regia che li fanno anche le ragazze, ma è da verificare).

Tutto bene dunque? Eh no, si sa che il diavolo ci mette sempre lo zampino. Il bastardone si diverte coi giovani. Il film non era granché e i due ragazzini si addormentano per poi risvegliarsi a notte fonda.

Oddio panico, le 10 son finite da un pezzo! Svegliati, piccola Susie, svegliati! Oddio, cosa diremo a tuo padre e tua madre? E cosa diremo agli amici quando esclameranno oohlalà… Chissà cosa penseranno, che vergogna…
Possiamo solo immaginare il cazziatone che si sono presi dopo i due ragazzi. Mi sa che il ragazzo si era bruciato qualche uscita serale.

Ma la cosa migliore è avvenuta il giorno dopo, quando il ragazzo, ripensando a quegli istanti di panico, ha preso la chitarra e li ha trasformati in una canzone poi divenuta famosissima “Wake up, little Susie!” (Svegliati, piccola Susie), ripresa anche da Simon & Garfunkel. L’ispirazione nasce in quei momenti, altro che.


“Svegliati, piccola Susie, svegliati!
Ci siamo profondamente addormentati,
svegliati, Susie, che disperazione!
Il film è finito, sono le dieci passate e siamo nei guai
Svegliati, piccola Susie! Dobbiamo tornare a casa!
Adesso cosa diremo a tua madre, cosa diremo a tuo padre

Cosa diremo ai nostri amici quando esclameranno ooh-la-lâ?”


NEL MILLENNIO SCORSO

“Come mai ti sei fermato?”
“Conosco questa cancellata.”
“Veramente?”
“Sono ricordi lontani ormai, lontanissimi. Del millennio scorso.”
“Ma ancora vivi, a quanto pare.”
“Mi sembra di avere attraversato questo corridoio coperto fino alla porta in fondo tante volte.”
“Allora ricorderai anche cosa c’è dietro la porta.”
“C’è un grande salone...e uno scalone sulla destra. Se salivi andavi su alle aule scolastiche...perché questa è una scuola, vero?”
“Una scuola elementare.”
“Se invece scendevi andavi in mensa, dove i bimbi mangiavano.”
“E cosa mangiavi?”
“Sai che questo non me lo ricordo?”
“Ma mangiavi bene?”
“Boh. Di fame non morivo.”
“Allora stavi in questa scuola anche nel pomeriggio?”
“Sì. Mi sembra di sì. C’era una cosa che si chiamava Doposcuola… c’erano maestri giovani...le classi venivano accorpate...ho un ricordo vago.”
“E qual è il tuo ricordo più intenso delle elementari?”
“Un ricordo scemo. A dirlo mi vergogno.”
“Dai, sputa il rospo.”
“Durante l’intervallo alcune bambine si mettevano in fila davanti a noi maschietti e cantavano ridendo “La bella lavanderina”. Intanto si strofinavano la gonnellina sulle cosce e facevano intravedere un centimetro quadrato di pelle.”
“Apperò. E voi?”
“Noi maschietti guardavamo ipnotizzati e silenziosi. Se ci penso è incredibile, già a quella età...”
“Stregati dalle femmine!”


sabato 16 novembre 2019


HAPPY DAYS

Alle 19.00 i giovani di tutto il Quartiere Forlanini mollava il colpo, qualunque cosa si stesse facendo ci si fiondava davanti alla Tv.
Su Rai 1 iniziava una nuova puntata di Happy Days e chi se la perdeva? Un rito che sospetto ci accomunava a tutta Italia.

Happy Days ha lasciato il segno. E’ stato il telefilm giusto al momento giusto, meglio di “Starsky e Hutch” o “Spazio 1999” o i “Jeffersons” (grandi) o “Mork e Mindy” o “Charlie’s Angels” etc.
Il sogno di vivere in America negli anni ‘50, quando tutto sembrava ancora possibile e divertente, in tutti noi è lì che ha messo radici.

Tra i personaggi presentati, ognuno aveva ovviamente il suo preferito. Il mio era Ricky, il biondino apparentemente principale protagonista. Un po’ imbranatino, timido ma intelligente. Impossibile per me non identificarmi. Oggi però vedo che tendo più a capire il suo pacioso papà, il signor Cunningham. Chissà perché :) .

Ma il vero idolo era lui, Fonzi. Tutti in ginocchio davanti a lui. In Quartiere c’era un ragazzo che si chiamava Fonzo, invidiatissimo perché tutti lo chiamavano Fonzi.
Giubbotto di pelle, ciuffo a posto, modi sicuri, gran conquistatore e grande amico. Avercene!