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mercoledì 11 gennaio 2023

(le Ferrovie dello Stato hanno indotto un concorso sui racconti di viaggio di 20.000 battute. Ovvio la Transiberiana che ho ridotto modificato esposto nella forma migliore. Sono soddisfatto di me stesso)


TIGRI SIBERIANE IN AMORE

Luca Tartaro

La stazione ferroviaria di Mosca è simile a quelle in tutto il mondo, gente che va, gente che viene. La voce dall’altoparlante esce in russo e io aspetto seduto sulla mia panchina. Dentro di me sento che… forse davvero ce l’ho fatta. Tra poco salirò sulla Transiberiana, un viaggio che sognavo sin da ragazzo.

Per inciso, ho avuto tutti contro: amici, parenti, anche la agenzia stessa. Nelle mie delicate condizioni di salute, in sedia a rotelle per una sclerosi multipla e con una autonomia di pochi passi, è quasi una pazzia. Non sono paesi per disabili, tutti hanno espresso una malcelata sfiducia nel sentire il mio progetto: attraversare l’Asia per più di 10.000 chilometri in treno, toccando tre capitali: Mosca (Russia), Ulan Bator (Mongolia), Pechino (Cina). E tornare a casa in Italia, questa volta volando.

Ma ora o mai più. Ho 55 anni e per l’avanzare della malattia tra qualche tempo potrebbe essere troppo tardi. Ho cercato di organizzare il più possibile anche se le incognite restano tante: come faremo con la lingua? Cosa mangeremo? Come sono i bagni sui treni russi (aò ne parlasse uno)?

Bisognerà adattarsi. Per rendere ragionevole questa pazzia mi faccio accompagnare da mio figlio Giacomo di 20 anni e mio nipote inglese Benjamin di 19. Io pago il biglietto e loro mi scarrozzano. Ok ragazzi, andiamo, sarà un’avventura, tigre transiberiana eccoci! Siamo gasati e le nostre facce sorridono mentre saliamo a bordo.

Partiamo in perfetto orario alle 21.36, la puntualità qui è quasi scontata. Il Provonitki, il responsabile del vagone, che bene conosceremo nei giorni seguenti, dopo un’occhiata al biglietto in cirillico ci guida verso il nostro scompartimento. Sembra spartano ma c‘è tutto, ci sistemiamo.

Essendo in tre abbiamo prenotato un intero scompartimento in 2° classe con quattro posti, il quarto sarà dedicato ai bagagli e alla sedia a rotelle, utile in città ma inutile in treno (la 1° classe è inutilmente costosa, la 3° da eroi). Aggrappandomi alle pareti tipo Tarzan vado a far pipì.

Apro la porticina ed eccola lì, la famosa toilette transiberiana. Molto angusta, un metro quadro per un metro quadro, uguale alle toilette nei treni italiani con il noto lavandino grande mezza anguria. Tornato indietro noto che i ragazzi, dopo aver preparato i letti, aspettavano solo me. Mi metto sotto le coperte anch‘io, il treno mi culla, tutùm tutùm, mi addormento subito.

Quando ci svegliamo guardo finalmente il panorama russo dal  finestrino, per ora una muraglia ininterrotta di alberi. E’ il momento di sguinzagliare i ragazzi alla esplorazione del treno, li mando uno di qui e uno di là. Ben mi chiama subito per vedere nel corridoio il Provonitki tutto affaccendato che ripara il grande samovar dell’acqua calda, con dietro una fila di russi con la tazza in mano. Il tè per i russi è sacro, l‘acqua calda ancora di più.

Da Irina, una ragazza con gli occhi chiari che ogni tanto passa con un cestino, compriamo ciambelle ripiene di cipolla e carne trita e per 100 rubli (3 euro) una bottiglietta di Kvas, sorta di chinotto leggermente alcolico che in Russia va fortissimo. Un muro di betulle a destra, un muro di betulle a sinistra tutto il giorno. Foreste, foreste. Semper domestica silva. Conosciamo i nostri vicini (ma la lingua resta purtroppo un vero problema, nessuno parla inglese).

Mentre il treno continua la sua corsa verso est attraversiamo vari fusi orari, ogni giorno dura in media 22-23 ore, le recupereremo tutte al ritorno con una giornata di 30 ore. Pur trovandoci nella famosa Siberia non fa freddo, è una bella giornata estiva e nelle stazioni vedo gente anche a torso nudo. Siamo arrivati a Ekaterinemburg, dove la famiglia dello zar venne trucidata, siamo entrati in Asia.

Che spettacolo le persone nelle stazioni, vestite in cento modi diversi. La Russia è un paese multietnico, c’è di tutto. Tantissime culture e valori di cui non sospettavo nemmeno l'esistenza. E’ pur vero che la mia esperienza da malato è parziale, parzialissima, dal finestrino di un treno e sempre seduto. Ma la mia è una condizione diciamo così privilegiata, non sono costretto a "fare" nulla, nemmeno potrei, e posso dedicare tutte le mie energie a osservare. E ciò che vedo mi piace. Sono soprattutto i costumi e gli abiti che mi incantano, molto ricamati e colorati ma non pacchiani, indossati con naturalezza e una certa eleganza da tutti, giovani e anziani.

Ogni volta che il treno riparte provo però una sensazione fisica strana: abbiamo già superato due fusi orari e non si capisce bene che ore sono, comprendo l’usanza che hanno qui sul treno di mantenere l’ora di Mosca, si evita la confusione. Che strano provare il jet lag su un treno. I vetri sono sigillati ermeticamente, l‘aria condizionata pompa senza sosta e meno male (chi ha figli adolescenti mi capirà). Il giorno dopo il panorama è cambiato, molto simile a quello italiano, il treno è sceso più a sud. Sembra di essere nella pianura padana, campi e alberi sottili.

Il treno si ferma una decina di volte al giorno per soste brevi, circa un quarto d’ora o poco più. Ogni volta si affollano sotto i finestrini persone che vogliono vendere di tutto, dai viveri ai vestiti, oggetti d’artigianato, colbacchi, pellicce, icone. Il Provonitki li blocca sempre, sennò salirebbero sul treno. 

Alla stazione di Barabinsk dico a Giacomo di scendere e comprare, oltre a pane e bibite, anche uno di quei pescioni affumicati che le babushke mostrano sempre. Sono curioso. Torna con un salmone intero aperto a metà e affumicato. Per evitare di impestare lo scompartimento ce lo pappiamo subito e scopro che si tratta di un super salmone molto saporito. “La Transiberiana è un lungo picnic”, commenta Ben.

Sto bene attento quando mi muovo, ma ogni tanto nel treno incespico e cado. Per fortuna i ragazzi mi rialzano sempre. Non sembra ma questo viaggio, pur non avendo impegni particolari, anche se è iniziato da poco è molto stancante. I ragazzi si adattano meglio di me al jet lag, io dentro sono tutto scombussolato. Notte. Tutùm tutùm.

Il mattino dopo due bimbe russe biondissime sui 5 anni corrono avanti e indietro, i loro gridolini sono esattamente uguali ai nostri bambini, è una banalità ma pensarci mi rasserena. Dal finestrino entra un bellissimo sole, foresta infinita incendiata dal sole.

Mi faccio coraggio e chiedo ai ragazzi di accompagnarmi al vagone ristorante, che dista 5 carrozze. Pianino pianino ci arrivo ma la fatica del vostro affezionatissimo è stata tale, il rischio di inciampare nei vagoni alto, il pericolo nell’attraversare i traballanti corridoi oscuri che uniscono i vagoni molto serio… che quando finalmente mi siedo devo ammettere a me stesso e ai ragazzi che non ci saranno altre volte. Peccato, perché il vagone ristorante in sé è molto accogliente, in stile liberty e vivo, frequentato e fumoso. Un gruppo di giovani russi canta canzoni con la balalaika, la loro chitarra triangolare. E solo lì ho assaggiato la ciorba, squisita minestra rossa alle barbabietole. Mi raccomando, voi ragazzi veniteci per me. “Certo, l’abbiamo già fatto”, rispondono ridendo.

In serata il treno arriva a Zima (che in russo vuol dire inverno), triste capolinea per i prigionieri confinati in Siberia. Dostojevsky è passato di qui. E pur essendo in agosto, il nome “inverno” è assai meritato perché Giacomo, sceso a comperare delle bibite, risale dopo un minuto tenendosi le spalle e tremando per il freddo. Per riscaldarsi si mangia un intero salame. Voglio sentirlo pure io questo famoso freddo siberiano, metto la capoccia fuori ma subito rimbalzo dentro per il vento ghiacciato, non ho mai provato un gelo così istantaneo in vita mia. Povero Fedor.

Il giorno dopo arriviamo a Ulan Ude, quasi al confine con la Mongolia. Il paesaggio è cambiato ancora, si vedono campi coltivati e bestiame -il primo che vedo-. Il treno costeggia un fiume pigro che è quasi una palude, il Solenga.

Giacomo fa amicizia con un giapponese di mezza età che è stato in Sicilia e racconta in italiano (!!) una storiella zen, incredibile:  "Buongiorno fioraio avete tutti i fiori del mondo? Buongiorno certo che li ho. Avete anche i fiori che parlano? Tutti i fiori parlano perché hanno un nome. Tu che fiore sei? Tulipano. E tu che sei così sexy? Rosa! E quello che fiore è, come ti chiami? Come ti chiami? Fioraio, perché non parla? Perché è secco!… Non è una storia divertente?”.

Non è più possibile inviare sms in Italia, siamo troppo lontani e la carrozza è piena di asiatici ora. Alla frontiera russo-mongola il treno si ferma, si parla di attese dalle 6 alle 11 ore, ci prepariamo ad aspettare. Improvvisamente dopo pochi minuti c’è agitazione e si sente “documenten! documenten!”. Il Provonitki entra nella nostra cabina preoccupato e controlla i passaporti. Tutto a posto, visti in regola. Arriva la severa funzionaria di frontiera a controllare i passaporti con alle spalle un gendarme armato. Strana sensazione davanti a quella poliziotta, avverto che sto passando vicino ad un pericolo che non si vede ma è grandissimo. Qui la Polizia fa paura, non è per nulla accomodante. Se ne va risoluta per mettere sui passaporti il visto di uscita.

Subito dopo entra trafelato il Provonitki che agita le mani e dice “no change no change”, gli rispondiamo stupiti che non vogliamo cambiare soldi e lui esce. Passa un minuto ed entra un tipo volgare col cappellino, sventolando con la mano un fascio di soldi, “Change? Dollars rubli tikrit?”. No grazie. Ah ecco, Giacomo ringrazia in silenzio il Provonitki.

Ripassa la poliziotta di prima e ci ridà con un gesto secco i documenti. Il treno riparte ma si ferma subito dopo alla frontiera russo-mongola, è il turno della polizia mongola che ripete la stessa trafila. Soldati con scarponi e cagnetti che annusano da tutte le parti. Domani mattina arriveremo a Ulan Bator, capitale della Mongolia,  cuore selvaggio del nostro viaggio.

Presto il Provonitki ci sveglia, tra poco dobbiamo scendere. Stiamo per arrivare a Ulan Bator, nella terra di Gengis Khan, eroe nazionale della Mongolia. Il mio cognome Tartaro ha ascendenze arabe, a dispetto di ciò che sembra, ma da questa terra e dai suoi abitanti nomadi sono sempre stato affascinato. E com’è a vederla questa nazione dal vivo? Dal finestrino la intravedo alle prime luci dell'alba. Non vedo case né alberi, solo colline e prati sterminati, un mare d’erba ideale per i cavalli. Non è un paesaggio alpino insomma.

Vado alla toilette, addio toilette della Transiberiana, ti avevo tanto temuta ma in fondo eri normalissima. Alle 6.10 puntuali dopo un viaggio di 8.000 km (!!) arriviamo alla piccola stazione di Ulan Bator. E' mattina presto e fa molto freddo, ma qui d'inverno si arriva anche a meno 45°. Addio treno Mosca-Ulan Bator, qualche volta tornerai nei miei sogni. Alla stazione vediamo subito il calvo mongolo che ci porterà nell’hotel che sarà il nostro campo base nei prossimi giorni, dato che vogliamo esplorare le sue immense e incontaminate riserve naturali (la Mongolia è il paese meno popolato del mondo).

Dopo tre giorni il nostro viaggio continua. Alle 7.00 di mattina alla stazione di Ulan Bator prendiamo la Transmongolica, il treno che ci porterà a Pechino. Mentre saliamo sul treno, i controllori asiatici in uniforme militare ci chiedono incuriositi da che paese veniamo. Quando rispondo “Italia” noto il nulla nei loro occhi, non hanno proprio idea di cosa sia ma con educazione (gli orientali sono molto educati) sorridono e rimangono zitti. E’ una sensazione che ho sperimentato spesso in Asia, la parola Italia non evoca assolutamente nulla. Roma, il Papa, il Colosseo, Giulio Cesare, Venezia, Firenze, Leonardo, Michelangelo?… niente. Qualcuna delle più giovani conosceva il marchio Gucci e Fendi, ma nient’altro. Anche nominare attori, sportivi, politici, artisti non stimolava nulla e dopo un po’ rinunciai ad investigare, il mio orgoglio italiota aveva imparato la lezione.

Torniamo alla Transmongolica. Il nostro scompartimento ha un ventilatore minuscolo, è pieno di briciole e con i vetri sporchi. “Strano -penso-, d’accordo che gli standard igienici sono diversi dai nostri ma un minimo… boh”. Il treno presto esce dalla città ed entra nel deserto, il famoso Deserto dei Gobi. Prima volta in vita mia che attraverso un deserto ed è stato indimenticabile. Il Gobi è una immensa distesa che si stende tra Mongolia e Cina, piena di ossa di dinosauri (Velociraptor Mongoliensis); è il deserto di Gengis Khan per intenderci, orde di mongoli a cavallo. Inizia a fare caldo, caldo, caldo e presto la carrozza diventa un forno. Essendo il finestrino sigillato, accendiamo il provvidenziale e santo ventilatorino.

Impariamo presto che è meglio rimanere seduti immobili, ogni minimo movimento fa sudare e l’acqua in bottiglia finisce subito. Mi limito a guardare fuori dal finestrino un paesaggio monotono: il deserto dei Gobi (“senz’acqua” in mongolo) non ha sabbia che formi dune ondulate, in realtà è una steppa infinita con qualche cespuglio qua e là. Ogni tanto dal finestrino intravedo tir mastodontici che lo solcano. Mi chiedo dove vanno, dato che non ci sono strade.

Osservo a lungo un insettino che si arrampica sul vetro, cade, ci riprova, ci riprova ancora, non si arrende mai. Non ci sono se e ma o incertezze per lui, lo fa e basta. Non uscire, insettino, sei attirato dalla luce ma ti ritroveresti in un deserto. E domani dovrai pure imparare una lingua differente, ti sveglierai in un altro paese. Ogni giorno una fatica nuova.

Un giorno intero ci ha messo il treno ad attraversare il deserto, non finiva mai. Tra tutti i posti visti in questo viaggio è quello che mi ha impressionato di più. E’ inospitale, non ha nulla di umano. Ho capito perché le principali religioni vengono dal deserto... e anche perché non puliscono i vetri. Attraversa tutti i giorni il deserto, sarebbe una fatica inutile.

Solo verso sera è ricomparso del verde e poco dopo siamo arrivati al confine cinese, Erlian. Arrivare qui non è stato semplice. Fa  caldissimo, siamo sudati e stanchi ma il treno è fermo e bisogna aspettare con mutismo e rassegnazione. Tra Mongolia e Cina si sa che non corre buon sangue, che succederà?

All’improvviso sale una poliziotta cinese (sempre donne, chissà perché), con dietro due soldati impassibili, neanche mezzo sorriso. Rifà la solita trafila coi passaporti e come al solito è il passaporto di mio figlio (sfido, ha una foto risalente a quando aveva 12 anni, ora ne ha 20 e la barba) a destare perplessità. La poliziotta, in uniforme impeccabile, cappello militare e occhi di ghiaccio, gli dice senza ironia in ottimo inglese “You are very changed”. Anche qui ho la sensazione di sfiorare un pericolo che decide di lasciarci passare. Dopo i controlli il treno resta fermo altre due ore a cambiare… le ruote! E qui bisogna dare una spiegazione.

I paranoici russi avevano adottato uno scartamento diverso dal resto del mondo per non essere invasi via treno, di conseguenza ogni  vagone deve essere sollevato, le ruote smontate e messe nuove. Non capisco perché non fanno scendere tutti per salire su un altro treno ma preferiscono in questo modo, cambiare le ruote di ogni vagone.

Detta così sembra facile ma sono state due ore notturne di  martellamenti, operai che gridavano, pavimento che aveva sobbalzi pazzeschi e rumori di metalli che sbattevano. E questo per ogni vagone. Io resto nella mia cuccetta a leggere e improvvisamente sento uno stridore acutissimo e il mio vagone che viene SOLLEVATO da una manona gigantesca per ricadere subito dopo. Che impressione sentirsi per aria su un treno, non penso che la proverò mai più.

Dall’alto guardiamo gli operai che si affannano sui binari e che martellano le rotaie del treno, è pericoloso e dantesco. Hanno impiegato comunque solo due ore, il che fa capire come questo delicatissimo lavoro di ingegneria sia diventato quasi routine, ma routine proprio non sembra.

Ripartiamo e con rammarico arriva la notte. Con rammarico perché perderemo la Grande Muraglia, che supereremo nel sonno. Così, sfrecciando il confine Mongolia – Cina ci addormentiamo. Gengis Khan ha sterminato milioni di persone per attraversarla, io l’ho fatto sognando.

Il giorno dopo ci svegliamo in Cina. Ogni vagone ha due inservienti cinesi in uniforme militare che vogliono sapere da dove veniamo. Italia. Ah, Italia! Come al solito noto il vuoto nei loro occhi, probabilmente manco sanno che esiste. Siamo gli unici occidentali sul treno, gli altri sono cinesi. Sono tutti gentili con noi e mi aiutano come possono quando vedono le mie difficoltà; anche qui nelle buone persone esiste la carità cristiana, solo che la chiamano “compassione”.

Mentre giochiamo a carte, passa un uomo a darci i ticket per colazione e mensa (che organizzazione!) e ridendo fa dei gesti a mio figlio, che non capisce. Gli spiego io: “dice che ti devi far la barba, barbun!”. Un bambino incuriosito, cercando di non farsi vedere, ci spia in silenzio da dietro il vetro del corridoio. Dobbiamo sembrare proprio strani, mi sento osservato. Così irsuti in un paese di persone lisce, mi sa che sembriamo una sorta di yeti in libera uscita. Siamo noi i diversi. Testa alta.

Intanto guardo la Cina dal finestrino. Lo si capisce da tanti segni che non è più la povera Mongolia. Siamo entrati in un paese ricco e si vede: edifici più robusti, strade più curate, campi coltivati. Come passare dalla povera Polonia alla ricca Germania.

Dopo Nankou (Nanchino?) e una serie di gallerie arriviamo finalmente in vista di Pechino, l’antica Cambaluc di Marco Polo. A poco a poco il paesaggio montagnoso diventa agricolo poi sempre più urbano. Ci avviciniamo a qualcosa di importante, gli edifici sono sempre più alti. 

Pechino è sterminata, da sola conta 25 milioni di abitanti e non finisce mai. Si nota che stiamo arrivando anche dal fatto che inservienti cinesi passano e fanno piazza pulita di tutto. Entriamo in stazione, il viaggio in treno più importante della mia vita sta per finire. Alle 14.10, dopo una lunga frenata, il treno si arresta. E’ finita. I miei impedimenti hanno messo il carico pesante, ma comunque ce l’ho fatta con una disabilità seria (per i tecnici, il mio punteggio Edss è 6.5). Nelle mie condizioni non siamo sicuramente stati in molti. Dato che un po’ di orgoglio è necessario, comprenderete la mia tristezza quando il treno si è fermato a Pechino.

Finiamo col botto: Pechino dunque, o come dicono adesso Bejing, la capitale. Sono fortunato rispetto a Marco Polo, lui ha impiegato tre anni per arrivarci, io solo pochi giorni. Mentre esco dal vagone sento il ronzio di un insettino che vola fuori. La stazione centrale è futuristica, mentre mi addentro seduto sulla sedia a rotelle spinto da Ben mi sembra di entrare in un film di fantascienza, schermi e luci ovunque. La sensazione è quella di essere arrivato in un paese modernissimo. Egente, gente, gente ovunque. Mai vista così tanta gente.

“Non è divertente tutto questo?”


FINE

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