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giovedì 9 luglio 2020


STORIA DI UN MAROCCHINO

Pochi anni fa venni contattato da Alì, un marocchino che abitava a Rabat, la capitale del Marocco, con la sua famiglia e tre belle bambine. Un muratore mussulmano che parlava uno stentatissimo italiano.
Tutto bello, ma che voleva Alì da me? Agli inizi pensavo che volesse migliorare il suo italiano, poi a poco a poco emerse tutta la storia (con anche il motivo per cui mi aveva contattato).
Una storia che iniziava tanti anni fa, quando con il gommone sbarcò una notte in Italia, pieno di freddo e paura. Qualcuno nel viaggio era morto, “quanto freddo ho sofferto”. A poco a poco era riuscito a integrarsi nel tessuto sociale italiano, diventando regolare con i documenti, assunto come muratore e con una casa.
Un capodanno avvenne la tragedia: come gran parte dei mussulmani, Alì non reggeva bene l’alcool. Si ubriacò, scoppiò una rissa e spaccò una bottiglia sulla testa di un connazionale. Conclusione: sei anni e passa per tentato omicidio, scontati nel carcere di San Vittore a Milano fino all’ultimo giorno (caso raro), non assistito da alcun avvocato.
A fine pena venne espulso e portato in Marocco, col divieto assoluto di ritornare in Italia. In Marocco aveva ripreso a lavorare come muratore, si era sposato, formato una famiglia etc. Tutto bene dunque?
No, Alì era pazzo. Non me ne accorsi subito, perché lo dissimulava molto bene, ma ben presto incominciò a fare discorsi da fuori di testa. Voleva tornare in Italia, incatenarsi davanti al Tribunale, combinare qualcosa di clamoroso, parlare con i Procuratori per far capire quanta ingiustizia aveva subito etc. Era pieno di rancore, livore, voglia di vendicarsi.
Inutilmente gli dicevo di non pensarci più, che ormai per la Legge era tutto finito, di pensare invece alle sue bambine, che l’avrebbero arrestato appena messo piede in Italia, che non l’avrebbero neanche fatto avvicinare al Tribunale e via così. Niente, magari per un po’ si calmava, ma presto Alì ricominciava con i suoi deliri di vendetta.
A proposito, come aveva avuto il mio nome? Una notte, mentre era in cella a San Vittore, si era cucito per protesta le labbra con ago e filo e nella commissione che aveva valutato il suo insano gesto c’era di striscio pure il mio nome (una delle migliaia di decisioni prese ai tempi in cui lavoravo per il Tribunale, di cui non ricordo assolutamente nulla). Con la maniacale ostinazione tipica dei matti, aveva ricercato i nominativi ed ero saltato fuori io.
Alla fine francamente mi stufai e mollai il colpo. Ripeteva sempre le stesse cose, impossibile farlo parlare d’altro. Ci ho provato a farlo ragionare, sinceramente. Ma era inutile e anche se cercava di blandirmi “mio amico italiano” dopo l’ennesimo delirio lo bloccai. Basta così.
A dirla tutta avevo anche un po’ di paura. Metti che questo torna davvero in Italia e combina qualche cazzata, farà certo il mio nome e mi coinvolgerà in storie antipatiche, via via. Ha poi cercato di ricontattarmi ma ormai lo evito.
Ogni tanto oggi penso a lui, chissà se ha realizzato i suoi deliri, mi aspetto sempre di ricevere una telefonata dai Carabinieri in cui un certo Alì ha fatto il mio nome.
Morale, perché da questa storia si possono ricavare diverse morali, una però per me svetta: non si può ragionare con i pazzi veri. Dio benedica gli psicofarmaci. Io non ci riesco a dialogare con loro, in certi casi le parole non servono.




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