IL
FIORE DELLA MAGNOLIA
“E’
una pianta antichissima, fioriva già ai tempi dei dinosauri, placidi animali
che si concedevano scorpacciate di magnolia –nel sogno il maestro si portò
qualcosa alla bocca con un gesto armonioso, poi con le mani si mise a reggere
una grande coppa invisibile-. E‘ un fiore tipico dei paesi caldi, dove la terra
scota. Il fiore ha foglie grandi e lucide. Il tronco può alzarsi imponente
oltre i dieci metri. Sa perché le parlo della magnolia? Perché il suo rapporto
con gli esseri umani è speciale, nasconde una storia. La vuole sentire? Si
sieda, che la racconto.”
“Non
voglio stare seduto –dissi nel sogno-. Preferisco stare in piedi. Ho le gambe,
uso le gambe.”
“Come
preferisce. Molto ostinato. Lei mi ricorda proprio l’uomo di cui le volevo
parlare, un inglese di origini tedesche. E’ vissuto, parola impegnativa, molto
tempo addietro. Nel 1881 questo botanico inglese, mentre era in India a
compiere il servizio militare, manco a farlo apposta vide una pianta di
magnolia nel giardino di un marajà e se ne innamorò. Fiori grandi, virginei,
stupendi. Per lui era una novità, e pensò di trapiantarla a casa sua, per
poterla offrire un giorno alla Regina Vittoria, e ottenere la gloria
scientifica, la fama perenne.”
“Un
uomo di sicuro ambizioso”, commentai.
“Cosa
sarebbe la professione di ognuno senza un poco di ambizione? Un obiettivo porta
a vivere veramente, non puramente passare i giorni. E David, questo giovane
botanico inglese, si procurò molti semi che riportò nella serra della sua natia
Brighton. Li piantò solennemente in una terra fertile e scelta con precisione
una notte di luna crescente. Quante speranze si preparò per il letto quella
sera! Con che intima gioia accese il camino per scaldarsi. Ritornava ogni
giorno fiducioso nella sua serra, con cura innaffiava la terra e badava al suo
tepore. Certo il clima inglese non è come quello indiano ma il botanico ci
metteva tutta la cura. Eppure passavano i mesi e la magnolia non cresceva. Non
fioriva! Grrr non fioriva! Il botanico tentò tutti i trucchi che conosceva,
cambiò la composizione del terriccio, aumentò l’umidità dell’aria, non la
innaffiò per nulla, la espose al vento, arrivò a sputarci e pisciarci sopra, la
lasciò perdere.”
“Addirittura
pisciarci sopra! Poco inglese”, commentai.
“Lei
non conosce gli inglesi. Non mi interrompa più con questi sciocchi commenti, la
prego. Per molti anni il botanico le provò tutte. Aveva le più grandi cure per
quei semi, anche per gli aspetti secondari che non si notavano subito, perché
la natura ha occhi dappertutto. Ma ormai la Regina Vittoria era morta, lui
stava invecchiando e la magnolia continuava a non fiorire. Si vede che era
destino. Tragedie silenziose, semi muti. I vasi a poco a poco vennero relegati
nell’angolo più lontano e disagevole della serra. E lì dimenticati, dato che il
lavoro quotidiano avanzava i suoi diritti. Un giorno il botanico, passandoci
per caso davanti, si mise a parlare al terriccio arido. Non si sa cosa disse,
non me l’ha mai spiegato, posso immaginarlo. Poi prese i pochi semini che gli
erano rimasti e li gettò stizzito fuori dalla serra, il più lontano possibile.
Era un gesto di rabbiosa sconfitta, con quel lancio finiva la sua vita vera.
Andò al pub del paese e per la prima volta, da quando aveva terminato il
militare, si prese una vera sbornia. Era talmente poco abituato all’alcol che
bastò qualche sorso della loro birra, scura e forte. Tutte le domeniche in
chiesa. E, stravagante come sanno esserlo gli inglesi, non si prese mica la
sbronza triste, ma quella allegra. Si sentiva libero adesso. Si mise a cantare
a voce sempre più alta, ma sapeva solo canzoni di chiesa o vecchie marce
militari. Non tollerando l’alcol si vomitò addosso. Venne trasportato da alcuni
paesani a casa dalla moglie. In un giorno solo rischiò di rovinare una
reputazione che aveva impiegato anni a… a coltivare, se mi permette il verbo.
Siamo grandi come i nostri sogni, e nel nostro intimo riusciamo a sopportare
tutto… Quasi tutto…”
Io
rimanevo zitto. Non ricordo bene cosa stava succedendo. Ricordo una nebbia
bianca che mi avvolgeva. Deve essere successo qualcosa in quei momenti, ma non
ricordo i dettagli. Ormai i particolari di questa scena per me sono
inafferrabili, sempre più lontani e perduti man mano che passano i minuti.
Altre immagini incombono, e ne prenderanno il posto. Dopo qualche istante
comunque il maestro davanti a me riprese a parlare, con un tono più alto di
prima.
“Il
tempo sanò le ferite del botanico. Gran dottore il tempo, anche se non ha
ricette precise e alla fine uccide i suoi pazienti. Aveva ripreso gli studi
accademici senza grandi speranze. Come molti poeti mancati prima di lui,
divenne un grigio professore vestito in tweed, che insegnava agli alunni la
complessità e la bellezza crudele del creato.”
“La
bellez…”, feci per commentare ma poi ricordai l’ammonimento di prima e rimasi
zitto. Non era così importante. Mio Dio, quando imparerò a tenere chiusa questa
boccaccia?
“Poi…
e poi accadde il miracolo. Una domenica in chiesa Hucker intravide una vedova
con uno strano cappellino, ornato in stile floreale. Era uscita da poco dal
lutto e si notavano alcuni colori nell’abbigliamento. Tra i fiorellini gialli e
rosa che le ornavano la tesa del cappellino, e che lui esaminava con occhio
esperto, notò un grande fiore bianco. Insolito. Non lo riconobbe subito. Solo
quando la cerimonia era quasi finita, poco prima dell’Ite, Missa est, realizzò che assomigliava tanto ai fiori che aveva
visto anni prima in India nel giardino del marajà, quando era giovane. Cercando
di controllare la sua emozione, sottobraccio alla moglie si avvicinò con
gentilezza alla vedova, e le chiese dove avesse trovato quel fiore. Il resto lo
immaginate. Alcuni tra i semi lanciati lontano erano fioriti, al freddo e in
silenzio, la pianta era cresciuta e aveva iniziato a fiorire e prosperare. Non
c’era bisogno di cure, la libertà era l’unica acqua di cui aveva bisogno.”
“Stupefacente!”,
l’espressione mi uscì dalla bocca.
“Sì,
veramente, degno di meditazione. Oggi la magnolia cresce in tutti i giardini, e
tutte le piante in Europa derivano da quei semi scagliati lontano in un momento
di disperazione…. –il maestro rimase in silenzio per qualche istante, è
evidente che pensava a qualcosa di personale-. E se devo essere sincero, mi
accorgo di riflettere spesso su questa storia quando mi espongono complesse
teorie pedagogiche per i miei allievi, molto strutturate, in cui ogni
intervento viene calibrato con esattezza e chiaramente, e si tende a riempire
il mondo interiore del bambino con luce razionale. E a tralasciare quanto di
oscuro, fecondo, imprevedibile succede nella testa di ognuno. La bellezza
profonda dell’oscurità.”
Decisi
tra di me che era il momento per un intervento di stampo accademico (non riesco
sempre a fermarmi): “un atteggiamento complessivo il suo che richiama l’igiene
mentale del non intervento”, dissi io senza accorgermi che mi stavo
contraddicendo.
“Sì,
penso che lei abbia ragione –l’uomo sopportò il mio commento intellettuale con
molta pazienza-. O come dicevano gli orientali, il precetto zen del non-fare.
Ai miei ragazzi di periferia lo ripetevo sempre, di conservare la fiducia
nonostante le esperienze passate. Alcuni provenivano da famiglie disperate,
disastrate. Ho sentito storie orribili lavorando con quei bambini. Mi rendevo
conto che rischiavano di essere alla loro età già delusi, incattiviti,
sfiduciati.”
“Noi
diremmo che erano già in burn out.”
“Ne
è sicuro? Non conosco bene quella parola, non si riferisce al lavoro?
Francamente, non mi interessa molto dare una etichetta a questo malessere.
Quando incontravo i loro occhi di bambini feriti sprofondati nell’abisso,
diversi dagli occhi di un normale bambino che ha fiducia nella vita, cercavo
con dolcezza di dire: potete crescere lo stesso, diffondervi nel mondo. Siete
venuti a contatto con la parte oscura della vita troppo presto, avete provato
già l’esistenza del male, ma la notte non è cattiva. Non si vince la gara al
primo giro, l’importante è arrivare in fondo, e anche l’oscurità, i semi
abbandonati sotto terra, le grotte senza sole hanno una loro bellezza, suoni
gocciolanti nel buio. Cercavo di esporlo con sicurezza ai bambini, ma senza
usare un tono rivendicativo, o l’arma trepidante del ricatto, o quella
minacciosa del dovere. La mente dei giovani è ancora in formazione, bisogna
stare attenti anche al tono che si usa.”
“E
al botanico inglese poi che è successo, quel David…”.
“Sì,
l’ex soldato britannico di sua maestà. Quel botanico inglese non era uno
stupido. Capì cosa era successo e fece le sue mosse. Ci furono onori e gloria,
il che per uno scienziato ha una valenza diversa da quella che si pensa, per
lui significava soprattutto essere pubblicato, riconosciuto e tramandare ai
posteri la propria fama. Scoprire una nuova specie è il sogno di molti
studiosi, lo sa? Ma la sera poi, mentre accendeva il caminetto, spesso gli
capitava di ripensare al suo ritrovamento. Quel botanico era una persona a suo
modo onesta, che tendeva a mettersi in discussione. Ripensava alla sua
acclamata scoperta. Una scoperta avvenuta in definitiva per caso come altre,
pensi solo a Cristoforo Colombo, o alla penicillina di Fleming. E il soldato
non riusciva a decidere, al di là della fama raggiunta, se esserne veramente
orgoglioso o meno. Era tutto avvenuto per una combinazione? Un lancio di dadi? Forse
un caso fortunato, in cui lui entrava in maniera non molto onorevole a dir la
verità. Come il nostro genovese che scoprì l’America, lui rischiava di passare
gli ultimi anni della sua vita a tormentarsi amaramente… Un giorno, in quanto
esperto, venne invitato ad una strana mostra, ecco qui volevo arrivare, un
vernissage in cui un artista francese esponeva alcuni rami spezzati, forme
insolite trovate nei boschi.”
“Mi
scusi, non ho capito. Dei collage?”
“No,
no. Questo bizzarro artista, mi sembra si chiamasse …., non mi ricordo più, la
vecchiaia incombe. Beh, dopo aver dato loro un nome, esponeva mettendole su dei
piedistalli proprio sassi, foglie, o frasche d’albero trovati nel bosco. Magari
da lui notati ai fianchi del sentiero. E le presentava come opere sue! Ribadiva
orgoglioso davanti al pubblico un filo sgomento le “sue” opere. Perché era
stato lui per primo a intravederne la bellezza, lui ne aveva scovato la grazia,
per questo firmava a suo nome forme naturali. Detta così pare banale, ma è più
difficile di quanto si pensi notare la bellezza.”
“Sembra
una pazzia –non potei fare a meno di commentare-. Si possono vedere forme
dappertutto."
“Il
fatto è che non le vediamo. Siamo ciechi davanti alla bellezza. La vera
bellezza per molti è invisibile. E sembrava una pazzia anche allora, cento anni
fa. E difatti quell’artista veniva deriso da molti. Ma il botanico inglese, che
era stato invitato dai detrattori proprio per mettere in ridicolo quegli
sgorbi, capì improvvisamente il significato di quell’arte. Entrare in risonanza
e stupirsi per una roccia trovata per terra, il ramo spezzato di un albero, una
foglia che cade lentamente a terra, il pulviscolo che entra nella camera da
letto. Svelare la bellezza e il significato nelle cose quotidiane del creato,
non inventare ma trovare nuove connessioni. Come lui stesso, che nel vedere una
domenica mattina un cappellino in chiesa si era stupito. Questa non è la strada
che avevo pensato, questo non è il mondo che avevo immaginato, questa porta non
conduce alla stanza che volevo, la mia vita si sta svolgendo in maniera
imprevista. Ma è un male?”
E' un magico accordo
RispondiEliminache spazza la polvere
dalle corde di un liuto silente
E' un tocco gentile
una musica che carezza l'anima
..."La vera bellezza per molti è invisibile."...
Anche molti di quelli “capaci di vedere la bellezza” scorgono quella lontana e non vedono quella che hanno ad un palmo dal loro naso.
RispondiEliminaUn po' come Jean Jacques Rousseau che, con l'opera “Émile, o dell'educazione “ (1762), gettò le fondamenta della moderna pedagogia, una vera e propria rivoluzione: il concetto della centralità del bambino. Nel frattempo Rousseau aveva affidato la cura dei cinque figli all'orfanatrofio ...
Una sorta di presbiopia, una grandezza d'animo che si proietta nel mondo lontano, ma non si è capaci di agirla nel proprio piccolo universo quotidiano.
Una cecità a ciò che di bello già ci appartiene e ci circonda che conduce a una perenne insoddisfazione e all'incessante ricerca di bellezze e felicità immaginarie e chimeriche.