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lunedì 29 gennaio 2018


(Molti non saranno d'accordo ma, come si suol dire, riceviamo e volentieri pubblichiamo)

269

“Cara amica, posso farti una domanda indiscreta?”
“Ma certo, ti vedevo girarmi intorno curioso. Qualcosa non va?”
“No è che…non so come dirlo…ho notato che hai un tatuaggio sul polso. Mi chiedevo cosa vuol dire. A occhio mi sembra un numero.”
“Sì, hai ragione, è il numero 269.”
“E perché ti sei tatuata il numero 269? Sull’avambraccio poi, come i reclusi nei campi di concentramento nazisti. Proprio l’altro ieri era il Giorno della Memoria dello sterminio degli ebrei durante la II° Guerra Mondiale. Sei ebrea?”
“No, non ancora. Questo numero ricorda a tutti un altro olocausto, che accade ogni giorno nel mondo.”
“Lo sapevo che aveva un significato. Quale?”
“Gli animali che vengono sacrificati e sterminati dagli esseri umani. Per nutrirci, per coprirci, nella orribile sperimentazione scientifica, a volte solo per diletto.”
“Ah, sei una animalista. Hai un animo sensibile ma so che è un movimento molto criticato.”
“Continuamente. Ma noi non cediamo. Arriverà un giorno in cui uccidere un animale sarà equiparato all’uccidere un essere umano.”
“Ma il numero 269 che c’entra?”
“Era il numero del primo vitello liberato dagli animalisti mentre andava al macello ed è diventato il simbolo della nostra lotta. Quando vedi questo numero tatuato sulla pelle vuol dire che hai di fronte una persona che lotta per gli animali, per chi non ha voce. E sai chi sono stati i primi?”
“Degli ex cacciatori?”
“Proprio degli israeliani, che nel 2012 a Tel Aviv si sono marchiati pubblicamente a fuoco sulla loro pelle questo numero.”
“A  fuoco! Come le mucche. Terribile.”
“Il loro video ha fatto il giro del mondo. Vai su internet e cerca 269, troverai un sacco di notizie. Non a caso poi quei ragazzi erano israeliani, loro sanno bene cosa vuol dire essere torturati e uccisi per questioni di razza. Ma non occorre essere ebrei per ricordare chi soffre pur essendo innocente.”
“Non so, mi vengono in mente tante obiezioni.”
“A cui risponderò volentieri, punto per punto.”
“Mi sembri molto convinta.”
“Non sono certo l’unica, siamo in tanti. Vedrai sempre di più questo numero. Animali liberi.”








martedì 23 gennaio 2018

IL PRIMO CONCERTO

Giornalista: Si ricorda il suo primo concerto?
Sid Vicious: Certo, non ero ancora nei Sex Pistols ed è stato un successone!
Giornalista: Che canzoni avete fatto?
Sid Vicious: Nessuna canzone. Siamo saliti sul palco con l'intento di fare più rumore possibile.
Giornalista: E come è andata?
Sid Vicious: Nessuno di noi sapeva suonare e dopo 20 minuti ci hanno sbattuti fuori. Ma è stato fighissimo!

(1976, il punk stava arrivando)

domenica 21 gennaio 2018

UNA STORIA ZEN

Durante il viaggio della Transiberiana abbiamo conosciuto molte persone di tutto il mondo.
C’è da capirli del resto: il viaggio attraverso l’Asia è lungo e se non si socializza con gli altri viaggiatori ci si annoia con facilità. Mi rendo conto poi che abbiamo stimolato la curiosità degli orientali: due ragazzi dalle fattezze occidentali e un signore tranquillo. Chissà chi sono, di certo turisti (non così frequenti da quelle parti).

Me ne ricordo uno in particolare, un simpatico giapponese di mezza età che attaccò bottone con i ragazzi e divenne entusiasta quando seppe che eravamo italiani. Durante la sua giovinezza era stato a lungo proprio in Sicilia. Ci raccontò parecchie storie che gli erano avvenute in Italia e il top lo raggiunse quando lo sentii raccontare IN ITALIANO e senza errori una storiella zen imparata a Palermo; incredibile.

"Buongiorno fioraio avete tutti i fiori del mondo?”
“Buongiorno, certo che li ho.”
“Avete anche i fiori che parlano?”
“Tutti i fiori parlano perché hanno un nome.”
“Anche quel fiore così bello?”
“Certamente, provi a chiedere.”
“Tu che fiore sei?”
“Tulipano!”
“E tu che sei così sexy?”
“Rosa!”
“E quello che fiore è? Come ti chiami? Come ti chiami? Fioraio perché non parla?”
“Perché è secco!”
.....non è una storia divertente?




ESISTONO I PAPPAGALLI IN MONGOLIA?

Doveva succedere prima o poi, in piena notte sul treno della Transiberiana mi scappa da pisciare.
No problem, il previdente Tartaro ci aveva già pensato, è tutto organizzato. Ho dormito semivestito con addosso la protesi per cui mi basta indossare le scarpe e olè sono pronto. Ok esco per andare in bagno, il vagone è deserto.
Mentre mi avvicino alla toilette però noto il controllore che deciso chiude il bagno a chiave. PAURA!!! Come mai? A gesti mi spiega che tra un minuto arriveremo a Seifottutosky, e che i bagni devono stare chiusi per tutta la durata della fermata a Pisciatipureaddossova.
Lo imploro ma niente da fare, anzi visto che ha da fare se ne va e io rimango lî, monumento al pisciatore in attesa.

Dato che la natura è stata gentile con noi disabili, ho sperimentato un curioso fenomeno, la Ritenzione Urinaria che si trasforma in pochi istanti in Minzione Imperiosa. Un senso di urgenza pazzesco, io cerco di trattenermi ma già le prime gocce scendono, bagnano mutande maglietta calze. Iddio non ce la faccio più.
Intanto il treno si ferma e con lo sguardo angosciato cerco qualche contenitore ma il vagone è deserto e intanto la pipì continua a scendere da sola. E pensare che la mattina sto inutilmente dei quarti d'ora in bagno.

Alè, anche se mi sforzo di trattenermi ormai è uscita tutta. Mi sono bagnato alla grande. Beffa nella beffa, ma forse è una fortuna, non era neanche tanta. Pisciarsi addosso nella Transiberiana, che esperienza. Ma guarda se uno per pisciare deve prima guardare l'orario dei treni.

Decido di tornare indietro tanto che ci sto a fare lì davanti al cesso chiuso, pisciare ho pisciato e adesso devo pensare a pulirmi. Intanto mi tolgo la maglietta e asciugo la piccola pozza d'acqua formata ai miei piedi, poi torno nel nostro scompartimento, mi spoglio nudo, mi dö una pulita e mi metto sotto le lenzuola.
...Non si può rischiare tutte le notti cosí. Devo prendermi assolutamente un pappagallo appena arrivato in Mongolia. Esistono i pappagalli in Mongolia? Ce li avranno nelle loro farmacie tra erbe di sciamani? Ci saranno farmacie normali? Devo fare un disegno il più accurato possibile di ciò che voglio.....e così pensando a come disegnare un pappagallo mi addormento.

Ma non è finita. Mi sveglio alle 5 con la voglia di fare pipì, solo che ora sono nudo come un verme e non ho nemmeno i vestiti. I due ragazzi dormono dalla grossa come sempre. Salendo dentro me l'urgenza stavolta decido di giocare di anticipo: prendo il bicchierone del tè e ci piscio dentro. Lo riempio quasi tutto. Ahhhh.
E ora? Nudo con in mano un bicchierone di pipi' dentro un treno che corre nella steppa siberiana. Meglio di un quadro di Dalí.
Ma chi se ne frega. Appoggio il bicchiere sul tavolino e mi rimetto a dormire, ci penserò domani.



(terza e ultima parte)

MONGOLIA E CINA

Mongolia, terra di Gengis Khan, loro eroe nazionale. Dal finestrino intravedo questa nazione alle prime luci dell'alba. Il paesaggio quasi lunare e sconfinato di prima aveva lasciato il posto ad una periferia di città disordinata, poco armonica. Enormi altiforni sbuffano dense colonne di vapore vicinissimi alle gher, le tende tipiche mono familiari che affollano ovunque il terreno.
L'impressione che ne ricavo non é francamente bella. Sembra di arrivare in una baraccopoli.
Alle 6.10 puntuali -dopo un viaggio di 8.000 km!- arriviamo alla piccola stazione di Ulan Bator. E' mattina presto e fa molto freddo, ma qui d'inverno si arriva anche a meno 45°. Addio treno Mosca-Ulan Bator, qualche volta tornerai nei miei sogni.

Di UB noto subito due cose, che c'è una certa confusione linguistica (le scritte pubblicitarie alternano cinese, mongolo, russo e inglese; 4 lingue, 4 caratteri alfabetici differenti) e soprattutto che è una città orribile. Sembra di stare in una periferia industrializzata.
Casermoni, baracche, strutture in cemento armato malconce o lasciate a metá, tutto grigio e nero, insegne penzolanti, auto scassate, strade squallide... E siamo in pieno centro della capitale. Oddio ma dove ho portato i ragazzi? È così che si riduce un popolo nomade quando si stabilizza? Il nostro hotel sembra un fiore nel deserto, in stile neoclassico bianco con una grrrrande scalinata per accedervi. Senza rampa e nemmeno maniglie, te pareva.
Mentre salgo piano piano con la stampella questa scalinata pseudo viennese ho una sorpresa, sento distintamente delle campane. Non è una allucinazione, le sento veramente. Delle campane cattoliche in Mongolia? Mistero.

Alla sala ristorante avrò modo di osservare l'hotel. È evidente la volontà di compiacere il turista occidentale facendolo sentire come a casa, ma i risultati sono spesso imbarazzanti. Avete presente un albergo mongolo che cerca di sembrare occidentale? Ecco, avete indovinato.
Oltre a noi ci sono pochi clienti e gli unici stranieri sono una attempata coppia ...italiana che parla in veneto! Per evitare la solita figura da italiani all'estero che quando si incontrano fanno la tarantella ci teniamo reciprocamente distanti. Se siamo andati in Mongolia in fondo è perché NON vogliamo incontrare connazionali e penso che questo valga anche per loro, perché ci ignoriamo.

...Che strade dissestate da fare con la sedia sa rotelle e parlo di strade perché i marciapiedi non esistono. Qui in Mongolia è ancora tutto da pensare per i disabili, sempre che lo si voglia. Lo si capisce anche dal fatto che nei giorni in Mongolia non ho incontrato nemmeno una sedia a rotelle. Qui se sei disabile non esisti più.
E io cosa dovrei fare? Nascondermi? Non ci penso nemmeno. Il cielo è azzurrissimo, UB pur così' congestionata e inquinata (è la terza città più inquinata al mondo) è circondata da montagne verdissime e disabitate. Che strano. Le pianure e le montagne sono distese verdi, ma di erba o steppa. Pochi gli alberi, probabilmente il gelo invernale è tale che non resistono. Non è un paesaggio alpino insomma.

La nostra guida Nami è una seguace dello sciamanesimo anzi una believer, suo fratello è uno sciamano e tutta la sua famiglia è seguace di questa religione. Loro credono negli elementi naturali aria vento terra fuoco. Lo spirito di una antenata di 2000 anni fa si è introdotta nella sua famiglia e li guida. Il loro animale è il cavallo e lei ha vissuto molto in Corea dove lavorava come esperta in cavalli.
Dopo la visita alla città si va tutti a mangiare al "Mongolian Barbecue, self service all-you-can-eat!" (scritto proprio così, e mi sento triste a pensarci). All’interno tutte le giovani cameriere indossano una t-shirt con la scritta "Kiss me, I'm mongolian!".

Tornato in albergo accendo la tv. Incredibile tra 100 canali disponibili trovo anche RaiAsia!
Mi guardo un paio di telegiornali italiani, da dieci giorni dell’Italia non so più nulla. Ma avverto una sensazione fortissima: che meschinità le vicende italiane viste da qui. Che squallore, che…che pochezza. Sembrano formichine che si credono importanti. E’ un senso di nausea talmente forte che passerà del tempo prima che riveda un altro tg.
Il mondo è più vasto di quel che pensavo, che impressione vedere tutti quei canali asiatici mentre sono EFFETTIVAMENTE in Asia. Ci sono tantissime culture e valori di cui non sospettavo nemmeno l'esistenza. Ripeto, un conto è saperlo un conto è viverlo. È pur vero che la mia esperienza da malato è parziale, parzialissima, da un finestrino di un treno, da una finestra di un albergo o di un auto o una tv satellitare, sempre seduto.

Notte. Domani il treno per la Cina parte presto. Mentre mi sto per addormentare sento ancora le campane. L'ideale per i cavalli immagino, praterie d'erba sconfinate.

Ore 6.00: sveglio i ragazzi, questa mattina bisogna prendere il treno che da UB ci porterà a Pechino. E’ la famosa linea ferroviaria transmongola, ricalcata sui sentieri della antichissima Via della Seta.
Il nostro scompartimento è ancora più spartano dell'altro e pieno di briciole, ma si sa che in Asia il concetto di “igiene” è differente da quello europeo. Non c’è l’aria condizionata ma un rumoroso ventilatorino attaccato al soffitto (benedetto e santo, scopriremo poi).
Ah caro tutûn tutûn come mi mancavi. Questo treno transmongolo è molto più scalcagnato dell'altro transiberiano, si odono anche un sacco di stridori inquietanti. Stiamo attraversando il deserto dei Gobi, che non è di sabbia come il Sahara, ma una immensa pianura di erba secca.
L'aria condizionata come detto non c'è ma il provvidenziale ventilatore per tutta la giornata farà il suo rumoroso dovere.

Un insettino prova ad uscire dal vetro, ci proverà tutto il giorno. Mi commuove. Non ci sono distinguo per lui, incertezze tra bene e male, lo fa e basta. Sbaglia, riprova, dà una capocciata al vetro, cade, riprova ancora. Non uscire insettino, sei attirato dalla luce ma ti troveresti in mezzo al deserto. Però è un lavoratore capatosta, penso che assomiglio a lui.
Questo deserto dei Gobi è vastissimo, desolato, torrido. Una immensa pianura di erba secca senza vita bruciata dal sole. Piatto, piatto, piatto. Fa caldo, caldissimo, sudiamo e puzziamo e stiamo immobili.
Lunghe ore in cui solo il treno si muoveva. Una giornata intera ha impiegato il treno per attraversare questo deserto, non finiva mai. Tra tutti i posti visti in questo viaggio questo è quello che mi ha impressionato di più. È la prima volta che sono a contatto con un deserto e mi ha colpito per la sua vastità e inospitalità, il deserto nulla ha di umano. Alle 19.00 di sera finalmente arriviamo alla frontiera mongolo cinese. Prima viene la poliziotta mongola a ritirarci i passaporti. Il treno riparte ma si ferma quasi subito a Erlian, il confine cinese.

Anche qui una poliziotta cinese (sempre donne, chissà perché) rifà la solita trafila e come al solito è il passaporto di Giacomo, che ha una foto in cui è ancora bimbo, a destare perplessità.
Dopo i controlli il treno resta fermo per altre due ore a cambiare le ruote. I paranoici russi avevano adottato uno scartamento diverso dal resto del mondo per non essere invasi via treno, di conseguenza OGNI vagone deve essere sollevato, bisogna smontare le ruote e metterne di nuove.
Detta così sembra facile ma sono state due ore notturne di martellamenti, operai che gridavano, vagono che aveva dei sobbalzi pazzeschi e rumori di metalli che stridono. E questo per ogni vagone del treno. Che impressione sentirsi su un treno sollevato per aria.
Guardiamo gli operai che si affannano sotto il vagone e che martellano le rotaie del treno, è pericoloso e dantesco. Hanno impiegato comunque solo due ore, il che fa capire come questo delicatissimo lavoro di ingegneria sia diventato quasi routine, ma routine proprio non è.

Siamo in Cina dunque. Lo si capisce da tanti segni che non è più la povera Mongolia. Passa un cinese a darci i ticket per colazione e mensa (che organizzazione!) e ridendo fa dei gesti a Giacomo, che non capisce. Gli spiego io "dice che ti devi far la barba, barbún!", ma tanto so che non se la farà. Anzi in un paese dove la "faccia" (intesa come reputazione, onore etc) è così importante lui lo fa apposta ad essere un bastian contrario. Un bambino cinese lo guarda incuriosito mentre fa un solitario con le carte e fa finta di niente. Così pelosi in un paese di persone lisce, mi sa che sembriamo una sorta di yeti in libera uscita.
Il treno riparte ma con rammarico è arrivata la notte. Con rammarico perché perderemo la Grande Muraglia che supereremo nel sonno. Così, sfrecciando il confine con la Cina ci addormentiamo. Gengis Khan ha sterminato milioni di persone per attraversarla, io l'ho fatto sognando.

Il mattino dopo si vede subito che siamo entrati in un paese ricco: edifici più robusti, strade più curate, campi coltivati. Come passare dalla povera Polonia alla ricca Germania.
Dopo l'esperienza di ieri, in cui per tutto il giorno abbiamo attraversato il piattissimo e desolato Gobi, la Cina è uno stravolgimento. Montagne, fiumi, campi coltivati, boschi, paesi abitati, strade diritte, macchine normali e non più TIR mastodontici che solcano il deserto...è un altro pianeta.
Dopo Nankou (Nanchino?) e una serie di gallerie arriviamo finalmente in vista di Pechino, l'antica Cambaluc di Marco Polo. A poco a poco il paesaggio montagnoso diventa agricolo poi sempre più di paese, urbano, di città, di metropoli, di mega metropoli! Ci avviciniamo a qualcosa di importante e si vede.
Pechino anzi oggi Beijing è grande da sola come metà Belgio e non finisce mai. La stazione della metropolitana è futuristica. Si nota che stiamo arrivando anche dal fatto che inservienti cinesi passano e fanno piazza pulita negli scompartimenti di tutto. Il viaggio in treno più importante della mia vita, la mia transiberiana, sta per finire. Alle 14.10 dopo una lunga frenata il treno si arresta. È finita, la transiberiana è finita. Sono triste.

Purtroppo i miei impedimenti motori hanno messo il carico da 11. Ma...in ogni caso l'ho fatta. Ci sono riuscito e nessuno potrà portarmelo via. Sono andato in transiberiana con una disabilità seria (per i tecnici, il mio punteggio edss è 6.5) da Mosca a Pechino. Non so se nelle mie condizioni sono il primo, sicuramente non siamo stati in molti.
Ho rinunciato a tanto, mi è costato di soldi parecchio, le cose sono andate diversamente da come previsto ma sono arrivato in estremo Oriente. Marco Polo ci ha impiegato tre anni, io dieci giorni. Ho qualcosa da raccontare e conosco tante persone che, pur essendo sane, per timore ci rinunciano. Lo so che sto cercando di compensare qualcosa ma lasciatemi essere orgoglioso.
E comprenderete la mia tristezza quando è il treno si è fermato a Pechino.



(Per commenti, insulti o lodi sperticate: luca.tartaro@gmail.com)
(Seconda parte della mia avventura)

TRANSIBERIANA

C’è molto da osservare qui a Mosca. La varietà di gente è uno spettacolo più bello di tutti i monumenti del mondo. Le russe (purtroppo non tutte) hanno un taglio degli occhi ancora occidentale ma tendente all'asiatico. Da gatta. Bellissimo, molto molto intrigante. Non ho mai visto insieme tante donne così belle, delle bambole a grandezza naturale. Le Barbie esistono. E (ora parlo da italiano) camminavano normalmente per strada senza essere importunate da chicchessia. Poi ovvio ci sono donnoni tipo contadina di patate della Bielorussia con bicipiti e sederoni enormi.

L'occidente ha vinto, il comunismo ha perso. Me ne accorgo da tanti segni ma il principale rimane questo: l'ideale di vita è quello americano. Le scritte sono bilingui, tutti parlottano inglese, le pubblicità sono aggressive, il guadagno è la molla di tutto, di russo rimane sempre meno, quasi solo per i turisti. Dentro di me comunque io sento che... sono contento di essere arrivato nella stazione ferroviaria di Mosca. Forse davvero ce l’ho fatta. Sto per iniziare la transiberiana, è troppo grande. Tigre transiberiana, eccoci!

Partiamo con il treno della sera. Abbiamo prenotato per noi tre tutto uno scompartimento in seconda classe, spartano ma c’è tutto. La famosa toilette transiberiana è molto angusta, 1mq per 1mq, uguale alle toilette dei treni italiani con il noto lavandino grande mezza anguria. Saranno le 22.30 e ci corichiamo in cuccetta. Il treno mi culla, tutùm tutùm, mi addormento subito.

Risveglio collettivo mentre all'esterno sfila un ininterrotto panorama di alberi e cielo. E’ il momento di sguinzagliare i ragazzi per esplorare questo treno.
A mezzogiorno passa una ragazza che nel suo cestino vende per 100 rubli (3 euro) una bottiglietta di kvas, una sorta di chinotto leggermente alcolico molto bevuto in Russia, e frittelle con dentro non marmellata ma carne trita e cipolla. Molto buone.

Un muro di betulle a destra un muro di betulle a sinistra per tutto il giorno. Il treno continua la sua corsa verso est. Attraversiamo vari fusi orari, tanto che ogni giorno dura in media dalle 22 alle 23 ore (recupereremo tutto al ritorno con una giornata di quasi 30 ore). Sempre betulle. Non fa freddo.
In treno l'aria condizionata funziona a pieno regime e meno male, altrimenti questo nostro scompartimento diventava presto una camera a gas (chi ha figli adolescenti mi capirà).
Foreste, foreste. Semper domestica silva. Siamo quasi a Ekaterinemburg, dove la famiglia dello zar venne trucidata, e quindi siamo entrati in Asia! Alla stazione di Ekaterinemburg mio figlio scende per cercare qualcosa da mangiare.
Che spettacolo le persone nelle stazioni, vestite in 100 modi diversi. Ci sono babushke, soldati, belle donne, famiglie occidentali e asiatiche. C'è di tutto. Abbiamo già superato due fusi orari e non si capisce che ore sono. Comprendo l'usanza che hanno qui sul treno di mantenere l'ora di Mosca, si evita la confusione.

Il mattino dopo noto uno spiacevole dato. Dopo giorni di treno è inequivocabile: puzzo. Dovrò escogitare un modo per lavarmi, non essendoci possibilità di farmi la doccia userò le salviettine umide, ne ho portata qualcuna dietro saggio consiglio.
Dormono ancora tutti sul vagone. E' giorno pieno ma in realtà per noi è mattino presto. Che strano provare il jet lag su un treno. Che disorientamento questa sfasatura temporale, non si capisce che ore sono e tutto cambia in continuazione.
Il panorama è cambiato, siamo più a sud e si vede. Molto simile a quello italiano. Sembra di essere nella pianura padana, campi e alberi sottili. L'aria deve essere più calda ma non la sento, per via dell'aria condizionata i vetri sono bloccati. C'è molto sole e il cielo è bellissimo.

Il treno si ferma una decina di volte al giorno per soste brevi, circa un quarto d'ora o poco più.
Arriviamo dopo che è calato il sole a Novosibirsk, cuore della Siberia e dicono la più bella stazione del tragitto, degna di esser fotografata anzi studiata, Giacomo dorme e Ben si rifiuta di uscire a fotografare perché è buio e ha paura di perdere la strada al ritorno. E allora? E allora niente foto e testimonianze, rimarrò con la curiosità. Kz!! Addio bellezza, maledizione alle mie gambe e ai giovani che hanno tanto tempo e sciupano le occasioni.

Il treno prosegue verso est, siamo a quasi metà strada per il Pacifico. Il paesaggio dolce sembra quasi toscano, se non fosse per le betulle. Nel vagone ci sono due bimbe russe biondissime sui 5 anni che vanno avanti e indietro, i loro gridolini sono esattamente uguali ai nostri bambini, è una banalità ma pensarci mi rasserena. Dal finestrino entra un bellissimo sole. Foresta incendiata dal sole.

Arriviamo in serata a Zima -che in russo vuol dire inverno-, il triste capolinea per i prigionieri confinati in Siberia. Dostojevsky è passato di qui. Siamo in agosto ma il nome “inverno” è  assai meritato perché Giacomo, sceso a comprare delle bibite, risale dopo 2 minuti tremando per il freddo. Vado a sentirlo pure io, metto la capoccia fuori ma subito rimbalzo dentro per il vento ghiacciato

Siamo arrivati quasi al confine mongolo. Il paesaggio è cambiato, si vedono grandi prati, campi coltivati e del bestiame -il primo che vedo-. Costeggiamo un fiume pigro che è quasi una palude, il Solenga. Spazi infiniti.


Non è più possibile inviare sms in Italia, siamo troppo lontani e la carrozza è piena di asiatici ora. Dovremmo arrivare presto alla frontiera russo-mongola. Si parla di soste dalle 6 alle 11 ore. Decidiamo di riposare anche se il sole è alto. Ma dura poco. Il treno si ferma.
Improvvisamente dopo pochi minuti c'è agitazione e si sente "documenten! documenten!" e tutti sono trafelati. Controlliamo i passaporti, è tutto ok ma qui la Polizia fa paura.

Arriva l’arcigna funzionaria russa di frontiera insieme ad un poliziotto armato e silenzioso. La poliziotta controlla senza parlare i nostri passaporti. Fa scendere Ben dalla cuccetta. Scruta attenta i nostri volti per vedere se corrispondono alle foto.
Strana sensazione davanti a quella severa poliziotta. Avverto che sto passando vicino ad un pericolo che non si vede ma è grandissimo.
Se ne va risoluta con tutti i passaporti per mettere il visto di uscita. Poi ce li riporterà.

Ripartiamo ma per fermarci poco dopo. Arriva la sera. É il turno della polizia mongola che ripete la stessa trafila con i passaporti. La bella poliziotta mongola in impeccabile uniforme scruta a lungo Giacomo e dice in inglese "Siete molto cambiato dalla foto" (sfido, ora ha 20 anni e la barba, la foto risale a quando ne aveva 12). Passano dei soldati con tratti orientali e dei cagnetti che annusano da tutte le parti.

Il mattino arriviamo a Ulan Bator capitale della Mongolia, cuore selvaggio del nostro viaggio.
(Vi ripropongo la prima parte condensata di qualcosa che non tutti conoscono, una mia avventura accaduta quando già la sclerosi multipla era avanti. La malattia non ci deve fermare. E' domenica, mettetevi comodi per leggere.)


REALIZZARE UN SOGNO
Tigri siberiane in amore! Foreste incendiate dal sole! Cavalieri mongoli che fanno le gare col treno! Le donne di Ulan Bator nei loro costumi! Le cerimonie degli sciamani! Vedere la Muraglia Cinese dal finestrino! Il cielo stellato della Cina! Prendere un tè all'aeroporto di Pechino mentre aspetto l'aereo per l'Italia!
Questa estate voglio realizzare uno dei miei sogni di bambino, viaggiare sulla Transiberiana, il treno che va da Mosca a Pechino. Lo so che nelle mie delicate condizioni di salute è quasi una pazzia, ma adesso o mai più, tra qualche anno potrebbe essere troppo tardi. Per rendere ragionevole questa pazzia mi faccio accompagnare da mio figlio Giacomo (21 anni) e mio nipote Benjamin (20 anni). Loro mi scarrozzano e io pago il biglietto.

Detto per inciso, ho tutti contro. Genitori, amici, parenti, anche la agenzia stessa. Non sono paesi per disabili. Tutti esprimono una malcelata sfiducia nel sentire il mio progetto, partire da Milano, volare a Mosca e poi viaggiare per più di 10.000 km in treno attraverso l'Asia toccando tre capitali, Mosca (Russia) Ulan Bator (Mongolia) e Pechino (Cina). E tornare a casa, stavolta volando.

Sarò accompagnato dai due baldi giovani, ma per tutti non basta: nelle mie condizioni di malato di sclerosi multipla... praticamente in sedia a rotelle... con una autonomia limitata nel camminare di pochi metri... e se succede qualcosa? Io ho cercato di programmare tutto il possibile ma più che una avventura a molti scetticissimi sembra quasi un malcelato tentativo di suicidio. Non fa niente, io voglio vedere il mondo e si vive una volta sola (e la sclerosi voleva togliermi anche questa vita). Erano anni che sognavo di prendere questo treno.
E se cercavo l'avventura, ho imparato che questa inizia ancora prima di avanzare materialmente di un passo: ho dovuto risolvere una marea di questioni burocratiche. Sono tre paesi comunisti dove la burocrazia è pesantissima e richiede particolareggiati moduli e garanzie.

Le incognite restano tante. Come sono i bagni sui treni russi (aò ne parlasse uno)? Come farò se il vagone ristorante è troppo lontano? Come reagiranno le mie gambe dopo tanti giorni di treno? Come reagirà insomma il mio corpo? Come faremo con la lingua?
Queste però sono fisime. Realizzare un sogno può essere quasi un dovere e in fondo resta piacevole. Volevo l'avventura? Eccola qua. Non è come avevi immaginato? Oh poverino, dovrai adattarti.

Il volo per Mosca è andato liscio. Ho pure superato indenne senza sbrodolamenti il difficile test "pasto in aereo in spazi ristrettissimi". Atterriamo all'aeroporto Sheremetyevo e quando sono uscito dall'aeroporto, ho avuto il mio primo contatto con Mosca e… sono rimasto senza fiato, non ho mai visto un cielo così bianco.
Mi sentivo spaesato, non sono mai stato così lontano da casa. Ma poi penso ai due ragazzi che fanno affidamento su di me e mi ripiglio, mi devo ripigliare non posso lasciarmi andare.

(fine prima parte)

venerdì 19 gennaio 2018


LA SPESA FINTA

Da ragazzino, a parte i soliti giochi dell’età (calcio, biglie, figurine etc), ce n’era uno che ci divertiva assai. Non potevamo farlo molto spesso, per motivi che capirete poi, ma quando accadeva era un vero spasso. Chiedo già scusa adesso a chi si irriterà, contate che eravamo ragazzotti di 12 anni dell’hinterland milanese. “E che vuol dire?” Periferia, ma quella mooolto periferica.

Si chiamava La Spesa Finta e consisteva in questo: ogni tanto facevamo finta di essere ricconi che dovevano far la spesa al supermercato, con moltissimi soldi da spendere. Allora andavamo nel supermercato di zona (una Esselunga già allora gigantesca), prendevamo un carrello grande e giravamo baldanzosi per i corridoi.
Il nostro obiettivo era semplice, riempire il carrello con gli articoli più costosi che c’erano: frutta esotica, primizie, salmone, vini pregiati, liquori, profumi, surgelati costosissimi, torte speciali, chillo che costa e ‘cchiù inzomma.

Era divertentissimo vagare per i corridoi pieni di merce, stipando il carrello con i prodotti più bizzarri e dispendiosi, sotto gli occhi stupiti e scandalizzati delle massaie. Come tocco finale, i nostri dialoghi erano molto snob e caratterizzati dalla erre moscia francese, come parlavano i ricchi dei film.

“Gustavo per favove, pvendimi dello Champagne ma quello buono mi vaccomando.”
“Sicuvamente, l’ultimo sapeva di tappo.”
“Vevo. Che voba dozzinale si tvova in questo posto.”
“E’ tutta mevda qui! Meglio se pvendiamo un Bvandy.”
“Ma che sia il migliove!”

Quando il carrello era strapieno di ogni bendidio, dopo vari frizzi e lazzi, la missione era compiuta e ce ne andavamo. Lo si abbandonava da qualche parte e si usciva senza comprare nulla.
Non rubavamo e non facevamo nulla di male (a parte i sacramenti, mi viene in mente ora, di chi doveva rimettere tutto a posto), ci eravamo divertiti.
Infatti, e forse vi farà ridere, in quei momenti ci sentivamo veramente ricchi e privilegiati. Era un gioco innocente, solo una illusione, ma per qualche tempo funzionava.

Per farvi capire è come quei giovanotti di oggi che si appassionano con i videogiochi e fanno finta di volta in volta di essere soldati, pirati o astronauti. Sanno benissimo che non lo sono ma usano la fantasia, che è una bellissima qualità.
E se non fai queste cose da ragazzino quando le fai? Anche ai nostri tempi c’era la realtà virtuale!
Comunque qualcosa è rimasto. Quando incontro un vecchio amico e capita un momento difficile… per superarlo basta guardarsi negli occhi e dire “Tutta mevda qui!” e giù a ridere come scemi.



giovedì 18 gennaio 2018


NOI DONNE

“Mia cara, ti dispiace guidare per un po’ tu adesso?”
“Va bene, mi metto io al volante. Ma ti fidi a far guidare una donna?”
“Oddio perché, non dovrei? Non facciamo scherzi!”
“Non ti inquietare, è raro trovare un uomo che ti faccia guidare la sua macchina.”
“Forse hai ragione, ma oggi nel traffico mi sono stancato molto. E’ 8 ore di fila che ho guidato in autostrada. Non sono più il giaguaro di una volta.”
“Il tempo passa per tutti mio caro.”
“Appunto. Adesso che siamo in città conosci la strada, no?”
“Perfettamente. Comunque apprezzo molto il tuo gesto.”
“Allora se non ti dispiace, cara, io adesso schiaccio un pisolino.”
“Tranquillo, tu lascia guidare alla tua bella. In mezzoretta ti porto a casa. Noi donne siamo brave in questo, a prenderci cura dell’uomo.”
“Sì, è vero.”
“Questo perché siamo esseri gentili, premurosi, attente ai dettag….MA TU GUARDA QUESTO STRONZO CHE MI TAGLIA LA STRADA!!! A’ CORNUTO!”
“Stavi dicendo che le donne sono esseri gentili.”
“Ma certo. Lo abbiamo proprio nel DNA di…MA DOVE CAZZO VA QUELLO!! MA VATTELA A PIGLIARE NEL CULO CHE TI PIACE!! FROCIO!...dicevo che noi donne abbiamo una particolare disposizione alla dolcezza, alla sensibilità, alla…E QUELLO? TIE’! TIE’! MA STAI DALLA PARTE TUA! DEFICIENTE!!!”
“Senti, ti vedo nervosa, se vuoi riprendo a guidare io.”
“Perché? No no, è tutto normale. Rilassati.”











martedì 16 gennaio 2018


HITLER IS DEAD!

Questa storia mi ha fatto molto pensare.
L’inizio però non è stato dei più allegri: Maureen, la vecchissima suocera inglese di mia sorella, soffre del morbo di Alzheimer e vive in un verde ospizio del Sussex, insieme a tanti come lei. Ogni settimana mia sorella e suo marito la vanno a trovare anche se lei da tempo non li riconosce più.

E’ infatti inevitabile il destino mentale di questi anziani, ancora non si è trovata una cura: con questo male perdono loro tutti i ricordi. Finiscono presto le loro giornate immobili, accuditi in tutto. Qualcuno ritorna come bambino e accarezza sempre un pupazzo di stoffa, unico contatto affettivo col mondo. Non mi dilungo, avete presente.

Ogni settimana un gruppo di volontari si reca nell’istituto per uno spettacolino di musica e cabaret nella speranza di portare un poco di movimento, come fanno tanti bravi giovani nel mondo. Essendo il materiale umano a disposizione non dei migliori, malgrado le buone intenzioni gli show vengono fuori sempre un poco artificiali, con una allegria quasi finta. Beh, almeno loro ci hanno provato.

Orbene, un giorno uno di questi ragazzi durante un intervallo si mise a fischiettare una marcetta della Seconda Guerra Mondiale e notò con stupore che alcuni vecchietti, di solito attivi come statue, lo seguivano e canticchiavano pure loro. Miracolo!
I volontari intuirono cosa era successo e in poco tempo vennero rispolverate vecchie canzoni di guerra. Niente smuove il cuore come la musica ma, e non me l’aspettavo, niente smuove anche la mente con una tale forza.

Ogni settimana adesso sembra di assistere ad una riunione di vecchi commilitoni e pure le donne partecipano con entusiasmo allo show. Maureen stessa si sveglia dal suo torpore, ritorna ragazza e canta. Canta tutte le parole! E non riconosce suo figlio! Che mistero è la mente umana.

Tutti cantano a squarciagola canzoni che per noi italiani sono perfette sconosciute: Washing on the Siegfried Line, There’ll always be an England, la strappalacrime When we’ll meet again, It’s a long way to Tipperary (forse l’unica che conosco pure io, quella cantata da Snoopy), Der Fuehrer’s Face. Ah, niente rende più vivi che avere un nemico.

Il culmine dello spettacolo arriva alla fine quando un giovane tenente irrompe sul palco e grida: “Hitler is dead!”.
A quelle parole i vecchietti esplodono in un boato, esultano e si abbracciano. Gli infermieri fanno fatica a contenerli, sembra di essere a Londra nel 1945 durante la Parata della Vittoria.
E moltissimi di loro passeranno il resto della settimana catatonici a letto, in stato stuporoso e senza riconoscere nemmeno la loro faccia quando passano davanti allo specchio (negli ospizi gli specchi sono stati del resto levati tutti).

Insomma, questa storia fa capire che in fondo al mio di cuore si trova qualche canzone e quando toccherà a me diventare vecchio e rincoglionito (manca poco, a proposito ho già il mio pupazzo) basterà canticchiarmela per rendermi felice.
Quali canzoni? Scavando dentro i ricordi ho scoperto che… vabbè, ognuno di noi avrà le sue personali, certo diverse dalle canzoni di guerra inglesi anni ‘40. Non sottovalutate la musica.



lunedì 15 gennaio 2018


DEVO ANDARE

Giulietta ha avuto una partenza terribile. All’età di due anni si ammalò di poliomielite (anche se per fortuna non in maniera grave) e venne praticamente lasciata dai genitori in un collegio di suore, dove rimase sino alla maggiore età. Brutto il destino dei figli difettosi. “Non esiste amore tra le suore, sono poche e noi bambine eravamo troppe. Quando ero malata ricordo quei cameroni con 20 letti dove mi sentivo abbandonata. E quando a 18 anni uscii dal collegio ero timidissima, non avevo il coraggio di alzare gli occhi e guardare nessuno in faccia.”

Eppure, nonostante questo partire dal basso, Giulietta era riuscita a realizzare negli anni una vita quasi normale (una casa, due bambini, un lavoro…), anche se non sempre era andato tutto liscio, intendiamoci. Le ferite del passato si ripresentavano e non erano state dimenticate. Aveva per esempio molti incubi che la facevano piangere tutta la notte, tanto che ci scherzava sopra: “oh, se stanotte mi sentite piangere non vi spaventate”.

Conobbi Giulietta a casa di amici e incontrai una donna simpatica, tutta gasata dal fatto che sarebbe diventata presto nonna. Uno dei suoi desideri più autentici si realizzava. Rimanemmo a parlottare a lungo, quel sabato sera si fece tardi e decisi di dormire sul divano.

A notte fonda venni svegliato da qualcuno che piangeva e mi alzai nel buio. Devo andare.

Da ragazzo tenevo un cagnolino che talvolta aveva brutti sogni, scalciava e mugolava. In quei casi mi avvicinavo e iniziavo ad accarezzarlo in silenzio. In poco tempo il cagnolino si calmava e riprendeva a dormire tranquillo. 
Da quella esperienza, accarezzare un animale addormentato, imparai che non bisogna svegliare (svegliare chi dorme è un atto terribile, soprattutto in questi momenti di crisi), ora non è importante capire o interpretare, la cosa migliore è semmai rassicurare e “richiudere” i varchi dell’inconscio. Capiremo dopo.

Camminai sino alla camera di Giulietta ed entrai, stava piangendo nel sonno e intanto diceva qualcosa che non si capiva in pieno: “no, lasciatemi stare…vi prego…no, il dottore no!...no, no, no…” e giù lacrime. Mi sedetti sul bordo del letto e le presi la mano, accarezzandola e rassicurandola. Non avere paura Giulietta, è tutto finito, calma.
Ci vollero 10 minuti e alla fine Giulietta, che non si era mai svegliata dal suo incubo e non aveva mai aperto gli occhi, smise di piangere e si calmò. Quando vidi che la situazione era tranquilla, le lasciai la mano e ritornai sul divano.

Il giorno dopo davanti al caffè Giulietta ascoltò con stupore il mio resoconto, lei non si ricordava nulla