LETTERA AL MIO PSICHIATRA
2 marzo 1961
Caro Dottore,
Ho appena guardato fuori dalla finestra dell'ospedale dove mi hanno
ricoverata e ormai, laddove la neve aveva ricoperto tutto, tutto è un
po' verde: l'erba e i piccoli germogli, quelli che non perdono mai le
foglie (anche se gli alberi non sono ancora molto incoraggianti), i rami
nudi e lugubri annunciano forse la primavera e sono forse segno di
speranza. Da quando ho cominciato a scrivere questa lettera, ho pianto
quattro lacrime silenziose. Non so veramente perché.
Alla
clinica manca del tutto l'empatia, il che mi ha fatto molto male. Sono
stata interrogata dopo essere stata messa in una cella (una vera cella
in cemento e tutto il resto) per persone veramente disturbate, i grandi
depressi, (solo che avevo l'impressione di essere dentro una sorta di
prigione per un crimine che non avevo commesso). Ho trovato questa
mancanza di umanità peggio ancora che barbara.
Mi hanno
chiesto perché non stavo bene qui (tutto nella stanza era chiuso a
chiave: le lampade elettriche, i cassetti, il bagno, gli armadietti,
c'erano delle sbarre alle finestre... le porte delle celle erano come
finestre così che i pazienti fossero sempre visibili, si vedevano sui
muri le tracce delle violenze dei pazienti precedenti).
Ho risposto: "Eh beh, dovrei essere svitata per farmelo piacere."
Mi hanno domandato di mescolarmi agli altri pazienti, di fare terapia
di gruppo. "E per fare cosa?" ho domandato loro. "Potrà cucire, giocare a
dama, o a carte, o fare la maglia". Ho provato a spiegargli che il
giorno in cui io farò delle cose simili, avranno veramente una svitata
in più tra le braccia.
La sola cosa che avevo in testa
nell'ascoltarli era il ritornello di una canzone: "Mescolatevi gli uni
agli altri fratelli miei, a meno che non siate nati solitari"
Alla fine, gli uomini cercano di raggiungere la luna ma non sembrano
molto interessati al cuore che batte nell'essere umano. Quand'anche
potessimo cambiare, non per forza, si dovrebbe volerlo.
M. M.
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