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mercoledì 9 agosto 2017

LETTERA AL MIO PSICHIATRA

2 marzo 1961

Caro Dottore,
Ho appena guardato fuori dalla finestra dell'ospedale dove mi hanno ricoverata e ormai, laddove la neve aveva ricoperto tutto, tutto è un po' verde: l'erba e i piccoli germogli, quelli che non perdono mai le foglie (anche se gli alberi non sono ancora molto incoraggianti), i rami nudi e lugubri annunciano forse la primavera e sono forse segno di speranza. Da quando ho cominciato a scrivere questa lettera, ho pianto quattro lacrime silenziose. Non so veramente perché.

Alla clinica manca del tutto l'empatia, il che mi ha fatto molto male. Sono stata interrogata dopo essere stata messa in una cella (una vera cella in cemento e tutto il resto) per persone veramente disturbate, i grandi depressi, (solo che avevo l'impressione di essere dentro una sorta di prigione per un crimine che non avevo commesso). Ho trovato questa mancanza di umanità peggio ancora che barbara.

Mi hanno chiesto perché non stavo bene qui (tutto nella stanza era chiuso a chiave: le lampade elettriche, i cassetti, il bagno, gli armadietti, c'erano delle sbarre alle finestre... le porte delle celle erano come finestre così che i pazienti fossero sempre visibili, si vedevano sui muri le tracce delle violenze dei pazienti precedenti).

Ho risposto: "Eh beh, dovrei essere svitata per farmelo piacere."

Mi hanno domandato di mescolarmi agli altri pazienti, di fare terapia di gruppo. "E per fare cosa?" ho domandato loro. "Potrà cucire, giocare a dama, o a carte, o fare la maglia". Ho provato a spiegargli che il giorno in cui io farò delle cose simili, avranno veramente una svitata in più tra le braccia.

La sola cosa che avevo in testa nell'ascoltarli era il ritornello di una canzone: "Mescolatevi gli uni agli altri fratelli miei, a meno che non siate nati solitari"

Alla fine, gli uomini cercano di raggiungere la luna ma non sembrano molto interessati al cuore che batte nell'essere umano. Quand'anche potessimo cambiare, non per forza, si dovrebbe volerlo.

M. M.

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