L’UOMO DI TALENTO VIENE DAL DESERTO
1.
Facciamo un
salto all’indietro di molti anni. La prima immagine della storia è una piccola
lucertola verde che si scalda immobile. Sdraiata sulla sua roccia piatta fissa
qualcosa: un convoglio militare romano. La fila di cavalli con sopra i soldati
attraversava il deserto calma, senza alzare sabbia. I grandi animali erano
costanti nel loro passo. Anche i cavalieri erano concentrati sul loro compito,
ne andava seriamente della vita. Gli ordini del centurione erano stati chiari
quella mattina: dosare al meglio le proprie energie e far tenere un passo
regolare ai cavalli. Era un consiglio saggio, non solo un ordine. La distesa di
sabbia e polvere poteva in poco tempo diventare un inferno, non ci si poteva
fermare per nessun motivo. Il convoglio, come una processione silenziosa,
attraversava il deserto arido della Samaria senza mai rallentare il ritmo. Si
udiva solo il rumore degli zoccoli.
In fondo
alla fila arrancava, cercando di mantenere la loro andatura, un tipico carro
romano trainato da due larghi e robusti buoi orientali, con dentro all’ombra
spezie e merci varie per il mercato di Sichar, oltre a barili di acqua dolce da
consumare nelle pause. Il piccolo gruppo, neanche una ventina di legionari a
cavallo con il carro, avanzava in silenzio, lasciando dietro di sé un forte
odore di sudore e cuoio.
Mancava
ancora un bel pezzo di strada per arrivare a Sichar. A capo della colonna si
distingueva un centurione sulla cinquantina, il grado riconoscibile dalle piume
porpora dell’elmo, che come caposcorta determinava la velocità di tutta la
colonna. Il suo nome completo era Manlio Lelio Calpurnio, ma tutti, anche i
novellini, lo chiamavano sempre e solo Manlio. Non si deve per questo presumere
complicità o confusione tra lui e i sottoposti. Manlio, pur di natura cordiale
e cameratesco (nessuno sapeva più canzonacce di lui), era ben cosciente del
ruolo superiore e sapeva tenere le dovute distanze con i soldati. Non aveva
bisogno di ricorrere a strepiti o inutili minacce, gli bastava uno sguardo.
Perché tutti imparavano subito che nel punire l’irascibile Manlio era
severissimo, e la sua frusta non colpiva leggera. Nel bene e nel male, giusto o
sbagliato, il comandante indiscusso era lui.
La rapidità
nell’essere ubbidito è indispensabile per sopravvivere in battaglia, è il
cardine della disciplina che porta alla vittoria, il fondamento della
brutalità. Ma Manlio sapeva anche che per ottenere quella prontezza era
necessario ogni giorno dimostrarsi un capo, fermo pur senza sconfinare
nell’ottusità. O peggio ancora nell’arroganza.
Era un
equilibrio difficile, nessuno gliel’aveva insegnato, ma ormai dopo tanti anni
di comando gli veniva piuttosto naturale. E poi, nonostante il suo innegabile
valore durante i combattimenti, non era uno che rischiava per vanità o
imprudenza la vita dei suoi soldati. Non giudicava saggio esporli ad azzardi
inutili, con il rischio di ridurre le forze. I soldati capivano questo suo
atteggiamento e malgrado la sua severità lo rispettavano e gli affidavano con
fiducia il loro destino.
Manlio voltò
la schiena per guardare alle sue spalle il gruppo, a controllare che tutto
procedesse regolarmente. Poi riportò lo sguardo in avanti e scacciando una
mosca si rimise a scrutare la strada, una semplice striscia sulla sabbia. Come
era diverso quel luogo dalla sua terra di origine, come era difficile
ritrovarsi. Va bene, Manlio, sei uscito anche da situazioni più difficili,
resisti. E poi malgrado la lentezza nella partenza sinora stava andando tutto
liscio, senza intoppi. Ma solo sabbia arida in quella vastità, nemmeno una
goccia d’acqua e un cielo sconfinato. La lucertola finalmente si mosse e si
infilò rapida sotto la roccia, disturbata dal tremito causato dalla pattuglia.
A Manlio
mancavano ormai pochi anni al congedo, era la quarta volta che percorreva con
un convoglio militare quella strada, se poteva chiamarsi così un solco nel
terreno largo qualche metro. A fatica tre cavalli potevano cavalcare
affiancati, e il carro –che non era certo uno dei più grandi-, occupava la
strada per tutta la larghezza. Molto, molto diversa dalle ampie, lastricate e
ben congegnate vie che univano il resto del mondo civile, formidabili arterie
dell’Impero con ponti, acquedotti, laghetti, stazioni di ristoro per i cavalli.
Che nostalgia. Ma qui si era in Oriente, in una provincia turbolenta e non
ancora del tutto sottomessa. Una strada costruita con tutti i crismi era
prematura.
In compenso,
ad intervalli costanti, previdenti pellegrini prima di loro avevano piantato
alti legni, difficili da seppellire tutti con una tempesta di sabbia. Alcuni
pali rinsecchiti sembravano vecchissimi, piantati da più di cento anni, e ogni
tanto una solitaria colonna romana di granito indicava in latino le miglia
percorse. Erano già a buon punto. In fondo, rifletteva Manlio, anche in una
desolazione come quella non era difficile orientarsi.
Non avevano
incontrato nessuno dalla loro partenza quella mattina. Niente di strano, chi si
avventurava in un deserto? Tutto ciò malgrado si fosse verso la fine di marzo,
con temperature di giorno ancora sopportabili, non quelle roventi dell’estate
che rendevano pazzi uomini e animali. Tutti i soldati romani avevano comunque
legato alla schiena, in maniera tale da sovrastarli, i grandi scudi in
dotazione, per portarli senza ingombro e farsi un poco di ombra. Sembrava che i
cavalli non trasportassero uomini, ma enormi insetti. Il dio Sole brucia chi
non si protegge. Come precauzione i soldati indossavano comunque gli elmi
estivi e sopra i loro panni la tipica corazza segmentata, l’armatura leggera
della cavalleria romana. Manlio non ammetteva sciatterie.
L’armatura
sfavillante indossata dal giovane Lucio Anneo Seneca però era diversa da tutte
le altre. Nuovissima, palesemente forgiata su misura e con lo stemma imperiale
sbalzato in metallo, raffinatezza di cui il ragazzo andava molto orgoglioso. Un
mantello di broccato svolazzante alle spalle completava il quadro. Era fiero
dei suoi abiti e degli ornamenti della cavalcatura, Seneca si sentiva nobile di
nome e di fatto. Pur consapevole che si trattava solo di fronzoli e orpelli
senza un reale significato, in fondo al cuore ne era comunque lieto. Lo
innalzavano dal resto della compagnia, lo distinguevano dagli altri. Come un
prescelto dagli dei e dal destino. Vanità certo, forse superbia, ma il giovane
aveva una età in cui questi sentimenti erano giustificati.
Seneca si
presentava allora come un ragazzo biondo di circa venticinque anni, con un
taglio degli occhi che rivelava le origini spagnole. Le guance perfettamente
rasate, non molto alto ma armonioso e prestante nel fisico. Un bel ragazzo,
insomma. Gli occhi vivaci e sempre in movimento denotavano pure una intelligenza
acuta, e sorrideva come sorridono i giovani, un sorriso che nasceva da dentro,
gli illuminava il volto e apriva il cuore in chi lo guardava. Era una gioia
vedere un giovane sorridere così.
Gli era
stato assegnato un incarico di responsabilità, consegnare un dispaccio al
Prefetto Valerio Grato a Sichar, dove il Prefetto si era recato in visita per
qualche giorno, e riportare accompagnato dalla scorta l’eventuale risposta. Va
da sé che il giovane voleva compiere quel suo piccolo dovere con scrupolo e zelo,
si sentiva orgoglioso di partecipare alla grande rete di comunicazioni
dell'Impero, di esserne parte viva. Era un semplice viaggio di una giornata
dall’accampamento da dove erano partiti, ma il giovane non vedeva l’ora di
tornare indietro. Non solo la missione occupava la sua mente.
Accarezzò il
suo puledro bianco e poi con il palmo diede un colpetto di incoraggiamento. Gli
voleva bene, anche solo per il fatto che doveva ricondurlo indietro. Che bel
purosangue aveva acquistato un mese fa, robusto, elegante, veloce. Prima o poi
l’avrebbe lanciato in una bella cavalcata, sentiva con l’istinto dei cavalieri
che a volte i muscoli dell’animale scalpitavano, quel cavallino aveva una
voglia matta di lasciarsi andare, di sfogarsi.
Tornare
indietro? Sì, e presto. Seneca stava fantasticando su una ragazza bruna e dagli
occhi nocciola con cui aveva passato la notte, e assaporava con la mente ogni
istante di quelle ore. “Non te ne andare, ti prego”.
Alcuni
momenti di quella magica notte erano già di diritto tra i più intensi ed
entusiasmanti della sua vita. Nei suoi rari momenti di lucidità, quando il
cavallo perdeva per un attimo il passo, si accorgeva con languore di quanto era
stato catturato dal fascino per Lavinia. Era perfetta. Era la ragazza più
incantevole che avesse mai incontrato. Ed era innamorata di lui, e lui di lei.
Che occhi, che capelli. Quale dea l’aveva fatta entrare nel mondo? Certo la dea
più bella, Venere. Non capiva bene cosa era successo, ma ne era felice. Ma sì Seneca, è semplice, ti sei innamorato.
Il suo
maestro di filosofia anni prima l’aveva messo in guardia da un amore simile.
“E’ una follia –sentenziava alzando il dito-, che rende gli uomini ridicoli e
sciocchi. Un mulo selvaggio ed indomabile, da cui stare lontani, e che scalcia
tutti i pensieri di onore e grandezza. Ricordati di Antonio, ricordati: non fu
sconfitto dalla flotta di Augusto, ma dalla sua indecorosa passione per
Cleopatra. Quella donna l’ha perduto!” Storie passate, ascoltate sorridendo, e
che all’epoca non aveva capito neanche molto bene ad essere sincero. E poi
anche il maestro nei suoi anni migliori si era dato da fare, l’aveva scoperto
durante una cena da un suo vecchio amico.
Ma allora
perché tutto quell’astio, tutta quella ipocrisia velata da moralismo? Forse la
verità che il maestro non poteva confessare è che tutti nella loro vita
dovevano provarla questa follia, questo sciogliersi dentro, in cui lui adesso
spasimava di inoltrarsi sino in fondo. Qualcuno riusciva a farlo bene, e
qualcun altro invece non era fortunato. Ma alla fine come poteva essere
pericolosa una sensazione così dolce, così delicata? Si trattano così i
sentimenti intimi, le cose belle? Qualcosa che rende l’esistenza più intensa,
degna di essere vissuta in ogni attimo, che offre un significato nuovo a tutto?
Desiderio.
Quel giorno per il giovane tutto era desiderio. La sabbia del deserto, l’aria
calda, la pista diritta che si perdeva all’orizzonte e sembrava non finire mai.
Nella sua mente giovane il sentiero si riempiva di curve, si trasformava nel corpo
morbido di Lavinia. Un incantesimo d’amore, una dea aveva scelto di amarlo. E
il mondo, anche quando così inospitale e arido come quel deserto, gli appariva
meraviglioso. Anzi era meglio, perché la solitudine di quei luoghi non lo
distraeva dal suo innocuo fantasticare.
Sì, voglio pensare ancora a lei. Percepiva la luce intensa del
deserto che diventava una candela tremolante, il rumore dei cavalli che si
annullava in un sussurro, un gemito femminile che svaniva nel sottofondo mentre
ripensava agli occhi umidi di lei, che gli sorrideva a bocca chiusa. Ragazza
innamorata, vivrò per te, per renderti felice. Che passione provava. Una notte
d’amore, di amore vero, superiore ai tanti libri, ai viaggi in terre esotiche,
alle feste, agli onori. Per Seneca solo lei adesso era veramente desiderabile.
La gloria, il potere… quelli sì che si rivelavano una follia.
Ma perché
preoccuparsi? Il ragazzo si sentiva talmente sereno che perdonava con uno dei
suoi sorrisi tutti e tutto. Che importa se il mondo è sciocco, e insegue il
fumo della gloria? Lui amava, percepiva lo stupore del mondo, la sua vera
essenza. Quel giorno il giovane Seneca si sentiva come un santo, come il re
Numa quando aveva amato la ninfa Egeria nei boschi intorno a Roma. E Numa, uomo
felice, vivendo con lei comunicava con gli Dei.
Gli unici
suoni che si udivano erano lo scalpiccio continuo dei cavalli, il loro sbuffare
e il cigolare del carro. Il cielo monotono e vasto intanto sfumava sul
rossastro. Stava arrivando la sera.
Il ragazzo
guardò alla destra il profilo di montagne sconosciute, colorate dal tramonto.
Che sfumature, che bellezza. Come vorrei
che lei fosse qui con me. Amo, io amo. Ammettilo Lucio Anneo Seneca, questa
notte ti è capitata una novità sorprendente. Sì, era la prima volta. Il giovane
Seneca aveva spalancato la porta dell’amore profondo, del vero amore, una porta
che non si sarebbe più richiusa per tutta la vita. Io amo. Io ti amerò sempre.
Guardava gli orizzonti del mondo con occhi nuovi.
Seneca
allora non poteva saperlo, ma raramente nella sua lunga vita sarebbe stato più
felice di quel giorno, avrebbe provato la piacevole armonia del vivere più
intensamente. E per sua fortuna il caposcorta sapeva come orientarsi, e
lasciava il ragazzo libero di cavalcare e ritornare su ogni momento della
notte.
Tornare,
tornare presto. Seneca fremeva di sbrigare la missione, recarsi veloce al
palazzo imperiale di Sichar, consegnare la lettera al Prefetto e rientrare con
la risposta, appena le convenzioni e la burocrazia lo avessero permesso.
Maledizione a lui quando aveva accettato. “Ma sì, è solo una giornata di
viaggio, che ci vuole? Mercurio mi metterà le ali ai piedi.” All’epoca nella
sua stupida superbia era stato anzi contento che finalmente dopo tanto ozio gli
venisse affidata una missione di responsabilità. Ma ancora non l’aveva
conosciuta.
Il
centurione in cima alla colonna alzò la mano e disse qualche parola ai soldati
dietro di lui. I cavalieri subito frenarono i cavalli e iniziarono a smontare.
Cosa succede? Il giovane vedeva il loro superiore impartire ordini e i soldati
che immediatamente eseguivano, smontando e allontanandosi a piedi dai loro
cavalli, come se non aspettassero altro. L’onda dei suoi ordini attraversò
rapida tutta la colonna, che rallentò la marcia. Il giovane realizzò quanto
fosse definitiva la fermata quando vide anche il carro arrestarsi. Furioso e
stupito, Seneca spronò il cavallo per fiondarsi sul centurione. Si bloccò solo
a pochi centimetri.
“Che succede
centurione? Perché ha dato l’ordine di fermarsi? Che accade? Non noto nulla di
pericoloso o inquietante qui intorno. Cos’è questa storia? Mi sembrava di
essere stato chiaro stamattina, dobbiamo arrivare a Sichar prima di sera e
ripartire al più presto. Non possiamo fermarci!”
“Principe
–rispose con calma Manlio togliendosi l’elmo, la sua faccia abbronzata e rugosa
sembrava colorata con la terra-, non è più conveniente avanzare. La notte scende
rapidamente in questi luoghi, siamo ancora lontani dalla città e il posto mi
sembra un luogo adatto per accamparci. Gli uomini e i cavalli iniziano ad
essere stanchi. So che si può anche trovare un buon kella, come chiamano i pozzi da queste parti, poco distante da qui
con acqua fresca. Meglio sistemarci sinché c’è una buona luce. Aspetti che
ordino agli uomini di preparare il campo. Il territorio è isolato e da
parecchio tempo non arrivano notizie di predoni da queste parti. Del resto non
è una pista mo…”
“Ma mi ha
sentito o no? –gridò incredulo Seneca, che non voleva capire- Le ho ordinato di
proseguire! Si rimetta in marcia il convoglio. Subito! Manlio, non voglio
sentire storie!”
“Principe…”
“Ora!”
“Principe
–il centurione non si scompose, chissà quante ne aveva viste nella sua vita-,
siamo partiti troppo tardi questa mattina. E il reggimento è sotto la mia
personale responsabilità. Abbiamo ricevuto l’ordine di scortarla da Valerio
Gracco, ma non a tutti i costi entro oggi. Non si preoccupi per stanotte, i
miei uomini sono espertissimi e sanno il fatto loro.”
Quel
coglioncello si era attardato troppo stamattina. Erano già tutti pronti e lui
ancora non si vedeva. E il motivo era ovvio, si vede proprio che alla sua età
ragionava ancora con l’uccello. Per un momento anzi Manlio aveva anche pensato
di andarsene. Si era trattenuto solo per non fare uno sgarbo al Decurione. Si
era imbavagliato come adesso, cercava di tenere a bada gli occhi mentre
ascoltava il suo starnazzare. Lo stimava poco, molto poco: cresciuto nella
bambagia, viziato, abituato ad essere servito. Diciotto uomini che avevano
dovuto aspettare i suoi comodi, come se anche loro non avessero
nell’accampamento una famiglia da cui tornare. Quanta pazienza. Calma, Manlio,
stai calmo. Se questo al ritorno si arrabbiava con la zia avrebbe passato dei
guai.
“Non si
preoccupi un corno! Il mio dispaccio è urgentissimo, e deve arrivare entro
stasera a destinazione! Ma lei sa a chi sta parlando così, con tanta
leggerezza? Evidentemente no. Dobbiamo volare, altro che fermarci! Rimetta in
marcia gli uomini! E’ un ordine! E stia tranquillo che non finisce qui: ne
parlerò personalmente con il Prefetto di questo suo arrogante e inqualificabile
comportamento!”
“Domani
mattina ci rimetteremo in marcia pre…”
“Adesso!
Immediatamente!”
“Perdonate,
ma i cavalli sono stanchi e sta arrivando una notte con solo un quarto di luna.
Se marciamo al buio, perdiamo la strada o un cavallo si azzoppa, rischiamo
veramente di non arrivare più. Si tranquillizzi, principe. Non è una tragedia
fermarsi per riposare, è anzi doveroso in queste condizioni. Il deserto esige
prudenza. Domani partiremo presto. Nel carro ci sono viveri, tende e coperte
per tutti.”
Lucio Anneo
Seneca si guardò intorno. I soldati aspettavano immobili e apparentemente
indifferenti l’esito della discussione. Le loro facce però non erano benevole e
non si muovevano. Gli occhi di tutti lo evitavano. Seneca si sentì in trappola.
L’idea di passare una notte senza Lavinia lo colpì con la forza bruta della
realtà, la fantasia dell’amore volò via da lui come un alato sogno. Lavinia, amore mio… E tutto per la
stupida paura di azzoppare un cavallo! Ma che scorta incompetente gli avevano
affibbiato? Idioti! Ci sarebbero state conseguenze gravissime! Dovevano ancora
scoprire con chi avevano a che fare! Divenne furibondo, una rabbia
incontrollabile e bollente saliva dalle visceri, gli arrossava il viso e
gonfiava la voce. La lasciò traboccare.
“Incompetenti!
Rinnegati! Mi avete disobbedito! Avete disobbedito agli ordini di un superiore!
Agli ordini del vostro Imperatore! Al ritorno faremo i conti! Ci saranno delle
conseguenze per tutti voi!”
Girò iroso
il cavallo che nitriva, disturbato dal tono alto della sua voce, e partì al
galoppo.
Grida grida,
che i demoni ballano nella tua testa e se vai avanti così il tuo bel cavallino
ti disarciona. Il centurione guardò eloquente Liborio, il legionario a lui più
vicino, un uomo tarchiato e dallo sguardo miope.
“Brutta
storia, Manlio –rispose il sottoposto sistemandosi bene sul suo baio-, quello
rischia di farci passare dei guai col Decurione.” Il ragazzo intanto era
partito, per andare chissà dove.
“Non ti
preoccupare Liborio, tornerà. C’è qualcosa di semplice nel carattere di quel
ragazzo. Si accorge tardi degli errori commessi, ma è anche intelligente e li
capirà presto. E poi ho ricevuto ordini chiari dal Decurione, un uomo
avveduto.”
“Ma forse il
messaggio è veramente urgente.”
“Non direi.
So di cosa parla la lettera, sono storie senza importanza, aggiornamenti. Solo
le cattive notizie devono volare presto, le buone non interessano a nessuno. E
stai tranquillo, che se erano parole serie non le affidavano certo a quel
ragazzino.”
“Sai che
cosa c’è scritto? Ma come hai fat…”
“Zitto, per
Diana! Non dire niente. Vuoi che si sappia che so ascoltare i discorsi tra il
ragazzo e la zia? Non lo sai che sono un mago? E accendi il fuoco per la sera,
e sbrigati. Guarda che ti stanno già portando la legna. Appicca un bel falò,
che abbiamo tutti una fame da lupi.”
“Sì sì,
subito”, rispose pronto Liborio, scendendo dal cavallo e dirigendosi verso la
catasta di legna a passo lesto. Dopo un breve cedimento di carattere, Manlio
aveva ripreso il suo ruolo consueto. Meglio non sostare troppo nella sua
visuale e tornare rapidi alle proprie mansioni. Che per il legionario Liborio,
miope maestro di fiamma, consisteva nell’accendere il fuoco per la truppa, e
produrre la brace a cui poi ognuno scaldava la cena. Farro e pane questa sera.
E per sé aveva delle belle noci secche, Liborio si tastò con fiducia la tasca
interna mentre camminava.
Il compito
che Liborio si era scelto, o a cui l’avevano destinato, non era semplice
(accendere un fuoco sotto la pioggia o tra la neve, con tutti che ti guardano
severi, era una prova per cuori di pietra, come quelle volte in Armenia), e
aveva dovuto imparare una tecnica complicata, ma portava a dei privilegi.
Scegliersi un posticino vicino al fuoco senza nessuno davanti, essere ben
considerato e, cosa per lui non trascurabile, quello di non andare in giro la
sera a raccattare legna, magari col pericolo di imbattersi in qualche scorpione
nervoso. Comunque è vero che bisognava sbrigarsi, la luce naturale se ne stava
già andando.
Si tolse
l’elmo, scavò una piccola buca nella sabbia e scelse alcuni legnetti sottili e
secchi, quelli più adatti per la prima fiamma. Con perizia, mentre i suoi
compagni accatastavano al suo fianco rami e radici secche, Liborio estrasse
dalla sacca di tela tutto l’armamentario: l’acciarino, dei fili di paglia secca
e per ultima la pietra focaia, una sottile lamina di ossidiana.
Usando in
maniera incredibilmente leggera le sue manone appoggiò pochi fili di paglia
secca sopra la pietra focaia. Una preparazione più delicata di quanto
sembrasse, bastava una folata di vento storto e si scombinava tutto, era un
momento intenso e degno di concentrazione, quasi un rito. Chissà quanti fuochi
aveva acceso, ma ogni volta per lui era un portento, poco meno che un miracolo.
Mentre
sistemava i filuzzi di paglia, Liborio rifletteva sul fatto che non aveva mai
veramente capito come ci riusciva, e alla fine aveva concluso semplicemente che
Vulcano, il dio del fuoco, lo guardava e proteggeva benevolo, e a lui si
rivolgeva quando era in difficoltà. Quando arrivava in una città il soldato si
informava sempre dove era la sua statua, e passava a ringraziarlo ogni volta.
Come tutti quelli che lavorano col fuoco, anche Liborio era sensibile agli
aspetti mistici dell’esistenza. Non si sarebbe altrimenti mai abituato a quella
luce che nel buio nasceva dalle sue mani, a sgominare la notte insensata del
mondo.
Basta
crogiolarsi in vani pensieri, Liborio, concentrati sul tuo lavoro. Diede con
l’acciarino di metallo dei colpi secchi ed esperti alla lamina di ossidiana.
Scintille rosse volarono dappertutto. Dopo qualche colpo ben aggiustato la
paglia in un punto divenne ardente. Ecco. Ci appoggiò sopra altra paglia secca
e soffiò con esperienza, proteggendola dal vento. Iniziò ad aleggiare del fumo.
La paglia prese fuoco all’improvviso, una bella fiamma viva. Grazie, Vulcano.
C’era voluto
poco questa volta, l’aria asciutta di questo deserto è veramente ottima.
Liborio aggiunse dei ramoscelli, che vennero mangiati dal fuoco con gioia.
Dalla estremità spezzata di uno di loro usciva un suono sibilante, che presto
si tramutava in gorgoglio. Quasi una voce, un messaggio di Diana, regina dei
boschi. Il calore della fiamma viva gli fece allontanare il viso. Ce l’aveva
fatta.
Un forte
rumore al suo fianco lo scosse dai pensieri. Una delle sentinelle mandate in
avanscoperta era ritornata, e con un grugnito aveva lasciato cadere
pesantemente una grossa fascina di legna. Liborio tastò con mano esperta i rami
più vicini a lui.
“Bella
secca, bravo. Questa poi è del tipo che non fa fumo, splendido.”
“Non ho
portato solo questa –il legionario appena arrivato ne approfittava per
riprendere fiato e asciugarsi la fronte, poi piegò un poco la schiena
appoggiando le mani sulle cosce-, ma anche una informazione. C’è un piccolo
accampamento a tre miglia verso nord.” Il legionario indicò per un attimo la
direzione, poi si rimise la mano sulla gamba.
“Strano, sai
chi è che si è messo in viaggio? Altri romani? Sadducei? Mercanti? Credevo non
ci fosse nessuno nel raggio di cinquanta miglia. Non abbiamo informazioni su
altri viaggiatori.”
“Bah, non ho
capito, però hanno più l’aspetto di Eubioniti, o Esseni. Non lo so, non me ne
intendo tanto. Li abbiamo visti da lontano, sembrano più che altro dei
pellegrini. Uno di quei gruppi itineranti che si spostano a piedi da una
regione all’altra. Forse si sono persi, o sbandati. Non hanno cavalli, domani
mattina li avremmo incontrati e superati.”
“Che
seccatura però. Magari non c’è da preoccuparsi, ma vai a dirlo al centurione.”
“Tranquillo,
lo sa già. Figurati che li abbiamo sentiti prima che visti. Stavano cantando un
inno nel deserto, all’inizio abbiamo seguito le loro voci.”
Liborio alzò
lo sguardo oltre il fuoco, e tra i vapori e le scintille del falò gli sembrò di
intravedere l’altra guida mentre informava Manlio, che annuiva pensieroso.
Quando ebbe finito di ascoltare, il centurione alzò la testa, diede una
occhiata in giro e fece un gesto a Marcello, il legionario più alto della
pattuglia. Marcello si avvicinò alla svelta, gli venne ordinato qualcosa, annuì
e se ne andò. Poi Manlio scrutò i legionari, lo riconobbe e si mosse deciso
verso di lui. Possibile? No, non si sbagliava, Manlio veniva proprio verso di
lui!
Liborio si
sentì improvvisamente nervoso e vulnerabile. Il fuoco l’aveva già acceso e di
legna da ardere ce n’era un bel mucchio, che avesse combinato qualche guaio
senza accorgersi?
Il carattere
di Liborio, si sarà capito, era molto prudente. Sin troppo, malgrado la mole
non era certo un guerriero spavaldo, anzi era piuttosto impacciato. Da quando
poi la vista gli era calata era diventato ancora più guardingo, quasi timoroso.
Per fortuna era grande e grosso, e nessuno si azzardava ad importunarlo
facilmente. Però il suo dovere di soldato di Roma voleva svolgerlo al meglio.
Gli piaceva sentirsi utile. Ma con quel capo non si sapeva mai, era
difficilissimo intuire cosa gli passava per la testa. Era talmente
impenetrabile che non si capiva a cosa pensava. Cosa voleva da lui? La sua
figura indistinta ora era sempre più vicina, era vicinissima.
“Dai,
smettila di strizzare gli occhi Liborio, sono io –Manlio sorrise-. Allora, come
va? Hai finito di accendere il fuoco?”
“Sì, è bello
robusto. Per la prossima ora penso che andrà da solo. Basterà aggiungere un
ciocco ogni tanto. C’è bisogno che faccia qualcosa?”
“Bravo.
Senti, che ne dici di accompagnarmi? Andiamo ad ispezionare un accampamento di
pellegrini a nord. Vengono con noi Fabio e Marcello, nel caso capitasse di
doverci scambiare qualche parola, sai che Marcello conosce bene il dialetto di
questa gente. Te la senti di venire con noi?”
Liborio tirò
interiormente un tiro di sollievo. Era raro che lo si chiamasse per partecipare
ad un giro di ricognizione. Non ci avrebbe mai pensato: in quelle circostanze
serviva una vista acuta e lui da tempo era fuori dai giochi. Lo visse come un
premio da parte di Manlio, che come spesso faceva nascondeva un ordine a cui
non si poteva sottrarsi sotto una richiesta cortese. “Oh sì grazie, volentieri.
Ho proprio bisogno di una bella cavalcata. E’ tutto il giorno che mangio la
polvere del carro. Prendo le armi.”
“Poca roba,
mi raccomando. Staremo via poco, spero. Torneremo presto per cenare. E’ solo
una perlustrazione nel deserto, niente di impegnativo. Tanto per stare
tranquilli.”
In pochi
minuti i quattro uomini erano pronti a cavallo. La consapevolezza di essere
stati chiamati per una missione facile e poco pericolosa metteva i legionari di
buon umore. Era l’occasione giusta per fare bella figura di fronte al capo, e
avevano trovato tutti nuove energie da spendere. Peccato per la poca luce, ma
si riusciva a notare comunque tutto. Nemmeno una nuvola, il sorriso del quarto
di luna splendeva luminoso nel cielo. E anche nell’accampamento aspettavano
solo che il centurione si levasse dai piedi per stare più tranquilli.
Il
centurione diede gli ordini ad alta voce e partì per primo. L’andatura imposta
al suo cavallo era un rilassato trotto, e i tre uomini di scorta lo seguirono
ubbidienti, dirigendo a bassa voce i loro cavalli. Presto furono lontani e nel
giro di pochi minuti erano tutti spariti nel buio.
2.
Erano
partiti da poco quando Fabio, un novellino al primo anno di ferma, scorse in
lontananza qualcosa che si muoveva. Si irrigidì sulla sella, grattandosi la
barba, già folta per uno della sua età. Non rallentò l’andatura e non si
azzardò a dire nulla, continuando a scrutare il punto in movimento. Forse un
semplice sciacallo, o forse no. Quando fu sicuro che non si trattava di un
falso allarme si rivolse a Manlio.
“Centurione…”
“Dimmi,
ragazzo.”
“Nuove
seccature all’orizzonte.”
Spronando il
suo cavallo, il giovane Seneca si dirigeva verso di loro. La figura bianca del
suo cavallo si faceva sempre più vicina e riconoscibile. Era proprio lui. Si
fermarono tutti ad aspettarlo.
“Ahi ahi
–disse uno- chissà che cosa vuole? Ha finito presto il suo giro di riflessione.”
“E’ un
idiota. Avete notato che ringrazia sempre tutti?”
“Uh, che
signorino! Lasciamolo in mezzo al deserto, così impara un po’ di vita.”
“Speriamo
che gli sia sbollita la rabbia. Se si lamenta ancora giuro che gli pianto
questo pilum nella sua bella corazzina.”
“Non toccare
il giavellotto, scemo. E state zitti voi –intimò Manlio-. Lasciate parlare solo
me. Chiudete quella boccaccia, che entrano le mosche. E’ un ordine.” Manlio
sospirò mentre aspettava che gli arrivasse vicino, prima era uscito di persona
dall’accampamento soprattutto per rintracciare il ragazzo, la perlustrazione
era solo un pretesto. Era preoccupato, e meno male che l’avevano ritrovato
subito, tante complicazioni in meno. I soldati però mugugnavano.
“Zitti ho
detto!” Preziosi Dei, perché ieri aveva
accettato quell’incarico?
“Centurione!
Centurione! Sono io, Lucio Anneo Seneca!”
“Salute, o
principe. Piano, faccia piano. L’avevo riconosciuta. Noi abbiamo ricevuto una
segnalazione e stiamo andando a controllare un gruppo di pellegrini a nord. E’
distante solo qualche minuto a cavallo, un semplice giro di ricognizione.”
“Vi dispiace
se mi aggrego anch’io?”
“Certamente
no, principe. Anzi, un cavaliere in più è sempre un dono degli dei. Noto però
che il suo bel destriero è molto sudato per la corsa. Così accaldato con questo
fresco rischia di prendersi un malanno. Occorre asciugarlo. –Manlio scese da
cavallo e si volse indietro- Fabio e Liborio!”
“Agli
ordini”, risposero lesti i legionari.
“Prendete
delle coperte e strigliate il cavallo del principe che è tutto sudato. Dategli
anche biada e acqua, ma poca. Attenti che si può ingozzare.”
“Subito.”
Fabio e Liborio smontarono da cavallo, presero delle coperte grezze e
iniziarono con cura ad asciugare il corpo del puledro ansimante. Intanto anche
Seneca era sceso a terra.
Mentre i due
legionari si affaccendavano, Seneca diede una pacca affettuosa all’animale, poi
si incamminò verso Manlio, come per dirgli qualcosa. Manlio, pronto a qualsiasi
evenienza e discussione, si avvicinò a sua volta. I tratti del volto del
giovane però sembravano benevoli.
“Grazie per
le sue premure, centurione. A proposito –il giovane abbassò un poco occhi e
voce, i capelli biondi gli coprivano la fronte-, approfitto di questo momento
di pausa anche per chiederle scusa per prima. Il mio scatto d’ira è stato
imperdonabile, e ho lasciato uscire delle parole… poco piacevoli. Ci ho
ripensato mentre cavalcavo e presto in me i vapori dell’ira si sono dissolti ed
è subentrato il pentimento. Sono stato veramente uno sciocco. Avevo dimenticato
quanto mi era stato insegnato con cura: non ho considerato il contesto, e ho
lasciato che le mie passioni… il mio zelo mi velasse la mente.”
“Non ha
nulla da rimproverarsi principe –disse Manlio, che conosceva gli uomini-,
contrasti come quello che ha ricordato sono eventi normali in una missione come
la nostra. Io me ne ero già dimenticato. Si unisca a noi piuttosto, ci farà
solo piacere.”
“Volentieri.
E grazie, speravo in questo esito. Sapevo che lei, oltre ad essere un uomo
esperto, è anche ragionevole e intelligente. Ha fatto bene il Decurione a
incaricarla di guidarci nel deserto. Bene.” Manlio aveva ascoltato le scuse del
giovane con cortesia.
Troppa
cortesia. Il centurione gli fece un cenno di assenso con la testa, senza
rispondere nulla. Non c’era bisogno di tante parole in quei momenti, e
l’esperienza aveva insegnato a Manlio di non fidarsi troppo dei complimenti dei
nobili. Intanto aveva notato che Fabio e Liborio avevano finito di frizionare
il cavallo ed erano ritornati sulle loro selle.
I due fecero
un segno al centurione che si rivolse a Seneca.
“Il suo
puledro è pronto e ristorato, principe.”
“Magnifico!
-con leggerezza giovanile Seneca corse verso il suo cavallino, saltò in sella e
afferrò saldamente le redini- Sono pronto allora. Dove andiamo?”
“Verso nord
–spiegò Manlio salendo a sua volta-, in poco tempo dovremmo arrivare
all’accampamento segnalato. Attento a dove il suo cavallo posa gli zoccoli. Che
il potente Mitra ci accompagni! Andiamo! Per il coraggio!”
“Per il
coraggio!”, risposero tutti insieme spronando i cavalli.
La cavalcata
fu breve e piacevole. La distesa di sabbia era liscia e compatta, e anche con
poca luce le pietre nel terreno potevano essere evitate facilmente. Spirava un
vento fresco, vero refrigerio per tutti dopo una giornata passata al sole. Gli
occhi si erano abituati al buio e prestissimo giunsero in vista del gruppo di
pellegrini.
Fu Marcello
a vederli per primo. “Laggiù!”. E’ vero che di notte un fuoco nel deserto non
si può nascondere, ma Seneca si accorse che in quella vastità i suoi sensi
erano acuti come non mai. Forse era la trasparenza dell’aria, il clima
asciutto, la sabbia fine, e chi lo sa. Non aveva ancora mangiato, anche
l’appetito lo rendeva più lucido. Malgrado il fuoco fosse ancora lontano, riusciva
a scorgerlo bene, addirittura riconosceva i contorni delle persone sedute
intorno.
Manlio, al
centro del gruppetto di cavalieri, man mano che si avvicinava rallentava
l’andatura, e tutti si adeguavano. Il centurione non perdeva di vista il gruppo
intorno al fuoco, e ogni tanto guardava ai lati. Era evidente la sua cautela.
Alzò la mano quando furono quasi arrivati, e ordinò a voce bassa di fermare i
cavalli.
Si
bloccarono tutti ad una breve distanza, saranno stati una ventina di passi. Ora
agli occhi dei soldati risaltava tutto chiaramente. Il gruppo di persone era
una compagnia consistente, ad occhio e croce almeno trenta individui. Il loro
ammontare preoccupava Manlio. Erano più numerosi del previsto e loro erano
troppo pochi. Una situazione rischiosa, al suo ritorno una lavata di capo alle
avanguardie non la levava nessuno. Intanto però loro erano lì.
Gente di
quella terra probabilmente, si distinguevano uomini e donne, vestiti con
tuniche e mantelli, ma di che tribù erano? Amici o nemici? Perché si trovavano
in quel luogo disabitato? Dove stavano andando? Stando attenti ad ogni cosa,
guardinghi e aprendosi a ventaglio, i romani si accostarono più vicini al
gruppo. A pochi metri Manlio fermò definitivamente tutti, e aspettò.
Seguì una
scena quasi surreale. Nessuna delle persone sedute intorno al falò si alzò per
venire loro incontro e salutarli, o fece il minimo gesto di averli notati.
Sembrava che non li avessero nemmeno visti emergere dal buio. I soldati
parevano invisibili, e i pellegrini continuavano a discutere tra di loro come
se nulla fosse. Non c’erano cani che abbaiassero, e i romani ai confini del
cerchio di luce ascoltavano i loro cavalli sbuffare.
Non si erano
annunciati, né avevano portato trombe o sonagli o torce, ma un falò nel deserto
si sa che attira inevitabile i forestieri. I pellegrini dovevano aspettarsi
visite, dovevano essersi accorti di loro. Seneca, non a conoscenza di quelle
situazioni, era il più a disagio. Fece per dire qualcosa, un saluto, ma poi
rimase zitto a osservare. Se loro li ignoravano, e anche Manlio stava zitto,
certo c’erano dei motivi.
Nel cerchio
di persone si riconoscevano alcune donne, ma per la maggioranza era composto da
uomini. Non c’erano bambini. Con l’occhio del militare, Manlio aveva notato
anche la mancanza di armi. Nessuna spada o arco, al massimo ci sarà qualche
fionda o pugnale nascosto sotto le tuniche. Stiamo
comunque attenti. Pellegrini, che si spostavano a piedi per la regione da
un paese all’altro, vivendo di elemosine e offerte.
Brutta razza
quella, gente fanatica, esaltati da cui stare lontani. Ma non sembravano latrones, non ne avevano i mezzi.
Neanche un mulo avevano. Era già un miracolo che fossero riusciti ad accendere
il fuoco. Probabilmente stavano dirigendosi a piedi verso il fiume, forse per
qualche rito dei loro, avranno qualche ricorrenza, qualche astrusa cerimonia.
Chi li capisce questi qua. Ne hanno da marciare in ogni caso, ancora per
qualche giorno minimo.
Tutti
stavano discutendo animosamente, a gruppetti separati. Qualcuno era infervorato
e prendeva la parola a voce alta. Manlio però non capiva nulla del loro
dialetto. Dopo un po’ si rivolse al legionario originario di quei posti, quello
alto e ossuto, e lo chiamò a sé. Lo sapeva che sarebbe tornato utile. Si faceva
chiamare Marcello, avendo latinizzato il suo barbaro nome originale. Era
provvisto di una carnagione piuttosto scura e anche se giovane i capelli ricci
oramai gli stavano cadendo dalla sommità del cranio, diceva sempre scherzando
che il sangue faceva fatica ad arrivare così in alto.
“Marcello
–disse serio Manlio-, vieni qui. Capisci di cosa stanno parlando? Sai a che
tribù appartengono?”
“Non lo so
centurione, ma parlano un dialetto familiare. Sono lontani ma qualcosa afferro.
Posso avvicinarmi?”
“No, rimani
qua e riferisci quello che puoi. Fai del tuo meglio.”
Il
legionario aguzzò i sensi e rimase in silenzio per un minuto, concentrato. Poi
tradusse a bassa voce.
“Sembra… se
ho ben capito stanno discutendo a chi devono andare stasera due pagnotte di
pane, sono rimaste solo quelle per tutti. Oltre a delle locuste selvatiche che
hanno trovato oggi sotto i sassi e alcune radici amare, ma non possiedono
altro. E’ da dieci giorni che marciano, le provviste sono finite. Solo domani
sera sperano di arrivare in un nuovo paese.”
“Siamo
generosi, mi sembrano allo stremo, diamogli un poco delle nostre. Grazie al
cielo ne abbiamo in abbondanza”, si intromise Seneca.
“No no, per
gli Dei! –il legionario si voltò verso di lui sbarrando gli occhi-. Vi prego,
non lo faccia principe. La scongiuro, per i nostri antenati. Lei non ha idea di
quanto sono orgogliosi questi… Non accetteranno nulla da noi, anche se stanno
morendo di fame. Considerano i romani sempre nemici, invasori senza fede.”
“Addirittura!”
“Mi scusi se
le espongo queste notizie sgradevoli, principe, magari le conosce già, ma per
loro i conquistatori restano ancora oggi spiriti sanguinari, che hanno portato
nel loro paese solo disgrazie e violenza.”
“Vero. Forse
non lo diranno apertamente –mormorò Manlio-, ma lo pensano tutti.”
“…Stranieri
piombati su di loro –Marcello continuava infervorato- anni fa per espiare
qualche grave peccato. Se uno di loro accettasse qualcosa verrebbe subito
isolato e cacciato nel deserto da solo, come un traditore. Non sto esagerando:
la mia famiglia è stata allontanata dal paese per la mia scelta di entrare
nell’esercito romano.”
“Vero anche
questo –confermò Manlio che conosceva tutta la storia-. Purtroppo Marcello ha
ragione.”
“E’ già un
miracolo –continuò il legionario- che abbiano tollerato la nostra presenza
senza protestare. Ma le assicuro che, anche se non sembra, ci stanno tenendo
d’occhio. Bisogna avere molta cautela con loro, sono permalosi e basta una
parola sbagliata, un gesto fatto male, e ce li ritroviamo tutti contro.
Prudenza, principe.”
“Ci odiano o
ci temono? Sapevo che qualcuno di noi non era ben visto, ma pensavo..."
"A
bassa voce, principe, parli a bassa voce.”
Il
legionario spilungone era veramente imbarazzato. Continuava a muoversi, come i
bagliori del fuoco sulla sua armatura. Si intuiva in lui il conflitto tra
l’obbedire ai superiori e la conoscenza dei suoi conterranei. In battaglia però
si era dimostrato un elemento di valore. Forse valeva la pena ascoltarlo.
“E sia, ma
solo perché sono curioso di vedere come finisce questa pazzia. Legionario,
almeno puoi tradurre quello che dicono o li disturbiamo anche così?”
“Principe,
non si alteri –Manlio intervenne cercando di smorzare la tensione-. E tu cosa
aspetti a tradurre al signor principe?”
“Sì subito,
stanno discutendo sempre del pane. Vedete? Quelle due forme scure sulla sabbia,
sulla destra del fuoco.”
“Sono
piccole. Dovrebbero bastare per tutti?”
“Purtroppo
sì. Stanno discutendo del modo migliore per suddividerlo.”
“Interessante
–Seneca si sistemò sulla sella-, un dilemma antico. Chi ha diritto al pane?”
Il gruppo
dei pellegrini intanto si era animato, apparentemente dimentico dei soldati che
li guardava. La tensione cresceva in maniera incontrollata. Si notava che era
gente abituata a mettersi in discussione e ad alzare la voce, ma questo non
sembrava un semplice dibattito. Si stava trasformando in un litigio. In
particolare tre di loro si stavano quasi accapigliando con toni sempre più
alti, lanciandosi l’un l’altro dei gesti che i romani non capivano. Ma il
significato generale era chiaro, volavano insulti.
“Ci sono
varie soluzioni, tutte contrastate –disse sottovoce Marcello-. Suddividerli in
alcune parti e darle ai più meritevoli, o tutte ai più forti, ai più affamati,
consegnarli alle donne, ai più anziani, al più… scusate, non riesco a
seguirli.”
“Sì sì, non
fa niente, ho capito.”
Se siamo fortunati questi barbari si
scanneranno da soli, si augurò
Manlio.
In effetti
adesso stavano parlando quasi tutti insieme. Qualcuno si era definitivamente
arrabbiato, e mostrava i pugni minaccioso. Via via che i contrasti crescevano
Manlio stava sempre sul chi vive, la mano sulla spada. Queste discussioni non
si sa mai come vanno a finire. Brutta bestia la fame, vuoi vedere che alla fine
se la prendevano con loro?
Ci fu un
attimo di silenzio, come a volte accade nelle controversie. Tutti si voltarono
a guardare uno del gruppo che non aveva parlato mai. Seneca non riusciva a
vederlo bene, gli dava le spalle ed era seduto tra lui e il fuoco. Con voce
pacata e nel silenzio, l’uomo disse qualcosa, che il soldato subito tradusse a
bassa voce.
“Quel tipo
ha detto che si divideranno le pagnotte in tante minuscole porzioni, e ciascuno
ne otterrà una parte.”
Uno del
gruppo protestò immediatamente, alzandosi e gesticolando, al che l’uomo dopo
qualche secondo di tensione rispose qualcosa.
“Ma così
tutti soffriremo la fame, dice quello che si è alzato, e forse qualcuno morirà,
mentre se lo diamo a pochi siamo sicuri che almeno quelli vivranno! No, ha
risposto l’uomo, sopravviveranno tutti quanti, perché oltre al pane si
nutriranno dell’idea divina della vera giustizia.”
A queste
ultime parole tutti stettero zitti. Poi qualcuno cominciò a cantare, e ben
presto si unirono tutti gli altri. L’armonia era ristabilita.
“Un uomo che
ragiona così –pensò Seneca-, o è uno sciocco o è un uomo vicino agli Dei.”
Mentre tutti
cantavano e le donne distribuivano uguali bocconi a tutti, Seneca scese da
cavallo.
“Principe,
cosa fa? –Manlio ringhiò a denti stretti-. Rimonti subito a cavallo! Principe!
Non sappiamo nemmeno chi sono! Non c’è da fidarsi di questi! Torni indietro!”
“Voglio
andare da colui che ha parlato.”
“Principe,
la scongiuro, torni indietro! Per la saggezza di Minerva, ritorni in sé. Li sta
provocando!”
Tardi. Lucio
Anneo Seneca era sceso da cavallo e si era incamminato verso il gruppo. Si mise
l’elmo sotto il braccio e con un gesto della mano intimò ai quattro soldati
dietro di lui di stare calmi e non fare nulla. Manlio stava sudando freddo;
ritornare il giorno seguente era un rischio calcolato, ma se succedeva qualcosa
all’amato nipote finiva nei guai con la zia. Quella matrona era potentissima.
Non poteva crederci che quel ragazzo ficcasse la sua testa stupida così in
mezzo ai guai. Ottuso spagnolo! Deficiente di un ragazzino! E mentecatto lui
che aveva accettato quell’incarico! Se lo sentiva, se lo sentiva sin dalla
mattina che qualcosa sarebbe andato storto.
Seneca
intanto era arrivato al limitare del cerchio di luce, vestito con la sua
raffinata armatura da viaggio che lasciava libere le cosce. Continuò sereno a
camminare, senza pensare al pericolo, e comparve in mezzo a quegli uomini in
tunica grezza, ma come un invitato fuori posto e non gradito.
Qualcuno
anzi dava finalmente segno di averlo notato, e sibilava qualcosa, indicando la
sua spada. Seneca si era dimenticato di lasciarla sul cavallo. Un uomo
fissandolo negli occhi sputò con disprezzo nel fuoco. Il romano se ne accorse,
e ne fu turbato. Forse prima Marcello aveva proprio ragione, erano comunque
sempre mal disposti verso di loro. Tutti lo guardavano ostili, era sceso un
silenzio carico di tensione.
Si avvicinò
senza dire nulla all’uomo che aveva parlato per ultimo e che lo interessava.
Stava ancora seduto per terra e c’era una donna vicina a lui che gli teneva il
braccio, forse la moglie. Era un giovane dagli occhi intelligenti, con neanche
tanta barba. Quasi della sua età.
Quando fu
davanti a lui si rese conto che non sapeva bene cosa dirgli e che lingua usare.
Parlare in latino era inutile, e della lingua locale sapeva solo qualche
parolaccia. Perché non si era portato dietro Marcello? Non sapeva che fare.
Cominciò balbettando e dicendo “Ave”,
ma si sentì stupido.
Fu il
giovane seduto per terra a rompere il suo evidente imbarazzo. Tese la mano
verso Seneca. Tirami su, aiutami. Seneca lo aiutò ad alzarsi. Senza fatica,
quell’uomo era magro. Quei pellegrini erano tutti magri. Quando fu in piedi
vide che erano quasi della stessa altezza. I suoi occhi sorridevano, e Seneca
si sentì confortato.
Seneca si
fece conoscere, toccava a lui presentarsi, parlò in latino: “Ave, sono Lucio
Anneo Seneca, figlio di Seneca il vecchio.” Poi sorrise, attendendo dal giovane
una risposta.
Il ragazzo
con la barba rispose dicendo qualcosa, ma furono interrotti da un brusìo. Cosa
stava succedendo? Seneca girò la testa e vide Manlio e gli altri romani entrare
nel campo con passo marziale. Oddio, no.
L’imponente figura di Manlio incuteva timore e reverenza. Indossava l’elmo
piumato di guerra, e sembrava ancora più alto, con la sua collana di grossi
denti di orso. Ma era soprattutto l’espressione degli occhi a fare paura,
sembrava che volesse mangiare il primo che gli fermava la strada. Il suo
sguardo duro spinse l’odio che li avvolgeva a trasformarsi in timore. Dominando
la situazione, mentre tutti guardavano per terra, il centurione romano scorse
Seneca e si diresse deciso verso di lui.
3.
Ogni suo
movimento rivelava energia trattenuta, un uomo di guerra dalla grande forza
vitale, una persona da cui stare lontani. Quando fu vicino a Seneca si arrestò
e fece il saluto militare.
“Principe,
siamo venuti per portarla indietro.”
Seneca tentò
di reagire. “Ma sono appena arrivato!”
“Per favore
non discuta ulteriormente. Qui è in grave pericolo e la sua nobile persona è
sotto la mia responsabilità. Mi segua.”
“Stia calmo,
centurione. Si guardi intorno, non c’è alcun pericolo. Sono solo pellegrini e
volevo stare un poco con loro. Si guardi intorno, le ripeto, non c’è nulla di
cui preoccuparsi.”
Manlio non
degnò di una occhiata il gruppo, teneva lo sguardo fisso su Seneca.
“A questa
feccia piace catturare i romani per poi torturarli. Sua zia non sopporterebbe
questa infamia al suo onore. Andiamo.”
“No. Qui ci
resto sino a quando voglio io, e ricordi che non sono uno dei suoi soldati.
Appartengo al ceto dei Cavalieri, Manlio, ed esigo rispetto. Non mi dia ordini,
e stia al suo posto.”
Il contenuto
della conversazione tra i due era teso, ma il tono restava basso, anche se il
centurione era furente. Al rifiuto del ragazzo avrebbe voluto sguainare il
gladio e puntarglielo alla gola, basta con queste scempiaggini. Ma doveva
dominarsi. Si limitò a lisciare pensoso il suo mantello, poi rialzò gli occhi.
In silenzio fissava il ragazzo con occhi cattivi. Voleva intimorirlo. Nessuno
parlava o si muoveva, si sentiva solo il rumore dei ciocchi che bruciavano nel
fuoco.
Seneca
riuscì a sostenere quello sguardo truce. Ne andava del suo onore. Cercò di non
pensare a niente, per non far trapelare nulla del suo animo.
Manlio alla
fine parlò. “Non posso obbligarla, ma se potessi lo farei volentieri.”
“Lei non ne
ha il diritto!”
“Ma ho la
forza, e questo mi basta. Allora, viene?”
“No!”
“Principe,
sia ragionevole, non faccia il bambino. Ci pensi bene. Mi segua.”
“No!”
“St… -Manlio
stava per dire parole di cui si sarebbe pentito, ma si controllò in tempo.
Facendo appello alle sue ultime briciole di pazienza il centurione cambiò
tattica-. Va bene, faccia come preferisce. Lei è più testardo di Ares, ma poi
non dica che non l’avevo avvisato. Qui è in pericolo, se ne accorgerà –si
rivolse poi a Liborio e Marcello-. Restate con il principe. Non abbandonatelo
per nessun motivo. E tornate tutti al campo il prima possibile.”
Manlio
guardò severo per l’ultima volta Seneca, che continuava a non muoversi. Poi il
centurione gli voltò le spalle e fece un urlo imperioso a Fabio. I due si
diressero verso i cavalli e uscirono dal campo visivo. Sparirono nel buio, si
udì che salivano rumorosamente sulle cavalcature e partivano spronando i
cavalli.
Se ne erano
andati. Li avevano lasciati soli. Appena fu certo della loro partenza Seneca
provò una angoscia crescente. Quasi si sarebbe messo a correre dietro di loro.
Aveva fatto bene a restare? E se Manlio aveva ragione? In effetti aveva udito
anche lui storie terribili. Stava rischiando la vita? Liborio e Marcello
l’avrebbero protetto? No, erano troppo pochi. Dei, perché non si poteva tutti
vivere in armonia?
Ma si
rendeva anche conto che se correva dietro a Manlio sarebbe diventato lo
zimbello di tutto l’accampamento. Già prima aveva fatto una figura poco
dignitosa. Meglio continuare, sarà quel che sarà. Sì, andiamo avanti. Guardò il
gruppo di pellegrini, che aveva osservato la scena perplesso. Non capitava
tutti i giorni di vedere due romani importanti litigare. Adesso aspettavano la
sua prossima mossa.
E sia, andiamo sino in fondo. Bisognava… bisognava fare
qualcosa. A Seneca venne in mente il problema del pane, con sé avevano qualche
cibaria. Si strinse l’elmo al fianco e disse a voce alta: “ho portato delle
provviste, spero le gradirete. Marcello, per favore, traduci a questa gente, e
poi vai a prendere tutte le cibarie negli zaini. A dei romani forse non
basterebbero, ma questa è gente semplice.”
Appoggiandosi
alla lancia Marcello tradusse le parole di Seneca, e le sue parole ebbero un
effetto straordinario. Il gruppo all’inizio ascoltava dubbioso la traduzione di
Marcello (era troppo lunga, ci stava
mettendo del suo, cosa stava dicendo?), ma dopo un momento di esitazione si
levarono voci di felicità e risa. Un uomo venne da lui per baciargli la mano
riconoscente, ma Seneca tirò via la mano imbarazzato.
Gli
offrirono un posto vicino al fuoco, e si sedette in mezzo a loro. In molti,
praticamente la totalità del gruppo, vennero a guardarlo e parlargli. Era forse
il primo romano che li trattava bene? Lucio Anneo Seneca sorrideva a tutti,
anche se non capiva le parole sapeva che quello del sorriso era un linguaggio
universale. C’erano più donne di quel che pensava. Forse con imprudenza ma
seguendo un moto istintivo si levò la sua corazza cesellata, sciogliendo i
lacci che la legavano e appoggiandola con l’elmo sulla sabbia. Ora, inaudita
visione, era vestito praticamente come loro, solo tunica e calzari, con uno
sforzo di fantasia poteva anche assomigliarci, a parte i capelli biondi.
Il giovane
con la barba che lo aveva interessato venne a sedersi accanto a lui. Gli mise
amichevolmente una mano sulla spalla e iniziò un lungo discorso. Aveva una
bella voce e indossava una tunica chiara con frange colorate. Seneca gli
sorrise, ma non capiva nulla delle sue parole. Seneca allora cercò con gli
occhi Marcello. Lo vide che rideva e parlava con due anziani.
“Aspetta,
non capisco, non capisco… Marcello! Marcello, per favore vieni qui!”
Marcello
arrivò quasi di corsa. “Principe, è incredibile, è gente che viene da un paese
vicino al mio! Mi sembrava di conoscere qualcuno!”
“Ah bene,
allora capirai il loro dialetto. Cosa mi sta dicendo quest’uomo?”
Marcello e
il giovane si presentarono nella loro lingua. Poi il giovane disse qualcosa al
legionario, che gli rispose con entusiasmo. Iniziarono a conversare assorti e
Seneca intanto si guardò in giro.
Vide Liborio
poco lontano circondato da alcuni giovani, incuriositi dalla sua armatura e dal
fatto che fosse così grosso. Liborio aveva estratto da una tasca le noci
secche, le frantumava con le mani e offriva la polpa ai ragazzi, che ridevano.
Un pellegrino intanto aveva tirato fuori dalle sue maniche un piccolo
tamburello e iniziò a suonare una musica tribale, ispirato dal fuoco. Era
veramente bravo, con uno strumento povero e modesto sapeva tirare fuori suoni
molto modulati. Presto una ragazza giovane si mise a cantare e ballare in
maniera aggraziata. Una danza sinuosa ma non volgare. Semplice, da restare
incantati.
C’era
un’aria di festa, era bastato poco in fondo. Al di fuori del cerchio
illuminato, il deserto silenzioso circondava il gruppo. Un punto di luce nelle
tenebre. Seneca alzò gli occhi, le stelle costellavano il cielo scuro scuro.
Non ne aveva mai viste tante. Come brillavano intense.
Che pace che c’è qui, pensava Seneca, che serenità. Che vita sana.
Pensò a
Lavinia e gli venne uno struggimento al cuore. Gli uscì piano un sospiro dal
petto. Come vorrei fosse qui con me. La ragazza intorno al fuoco intanto
cantava muovendo le mani sulla testa e rivolgendosi a tutti, quasi implorando.
“Scusa, cosa
significa questa canzone?”, chiese a Marcello, interrompendo per un attimo la
sua conversazione.
“Ah, è una
canzone d’amore delle nostre parti, parla di una giovane che canta ad un
ragazzo che è lontano. In questo momento sta dicendo:
“Ti amo anche se tu non mi conosci
e forse vorresti farlo, ma più
probabilmente no
Ti ho visto passare sotto la mia finestra
E mi alzo ogni giorno per vedere il
tuo sorriso
Allora canto il mio amore questa
notte
perché il vento lo porti presto da
te
Il vento che ti accarezza, l’aria
che respiri
Ti portano la mia voce che entrerà
dentro te
Perché spero tanto che ti innamori
di me
Spero tanto che ti innamori di me”
Dopo la
breve traduzione, Marcello si voltò per riprendere la sua conversazione, mentre
Seneca fissava sempre la ragazza che cantava. Il suo pensiero ritornò presto a
Lavinia. Erano lontani, ma la loro unione era già forte. Forte. Anche Lavinia
aveva una bella voce, che gli faceva pulsare il cuore, e quando si muoveva
sembrava una sirena nel mare.
Non avrebbe
mai dimenticato il movimento naturale del suo corpo, quando stanotte si era
infilata nuda sotto le lenzuola. Era per lui, era soffice e pulita. La sognerò stanotte. Lavinia, come mi
manchi.
Fu Marcello,
mentre la musica cambiava diventando un brano corale, a distoglierlo da questi
pensieri. “Principe, scusate, volevo tradurvi ciò che mi sta dicendo
quest’uomo. Mi ha pregato di porle una domanda nella nostra lingua. Se però mi
permette, io vorrei prima pregarla di… di…”, il legionario esitava. Al suono
della musica si erano unita prima un’altra ragazza, che dai lineamenti simili
sembrava la sorella, poi altri pellegrini. Tutti ballavano intorno al fuoco,
battendo le mani. Incredibile quanta voglia di festa e di divertirsi aveva
questa gente. A Roma, irrigiditi tutti com’erano nell’etichetta, non sarebbe
mai successo.
“Marcello,
cosa c’è? Dai, sputa il rospo.” Seneca non sapeva se essere inquieto o divertito
dal suo imbarazzo. In realtà gli era venuta voglia di partecipare pure lui alla
danza, ballare intorno al fuoco con quella gente. Cosa poteva mai domandargli
quell’uomo di azzardato e antipatico? Proprio adesso? Speriamo non sia nulla
relativo all’arte militare, o ai loro movimenti come truppa.
“Ecco,
principe, non si alteri alle sue parole. E mi perdoni. Costui vuole avanzare
una questione insolita, stramba. Gli ho detto che per me era irriverente e
senza rispetto per la vostra augusta persona, ma lui ha insitito.”
“Sei noioso
Marcello, sbrigati a porre questa domanda. Avanti. Poi vedrò se è il caso di
rispondere o meno.”
“Lui mi ha
spiegato, ecco… che voi siete innamorato, ai suoi occhi è evidente l’invisibile
corona dell’amore sulla vostra testa, avete una luce particolare nello sguardo,
vivete di amore. Ma voleva anche sapere se vivete con amore.”
“Cosa?”
“Sì, questa
è la domanda. Secondo costui, se ho bene inteso, l’amore e il volersi bene sono
una sorta di regola d’oro anche in tempi difficili come questi. Scusate ancora
la mia insolenza, forse la domanda è assurda.”
Seneca
rimase in silenzio per qualche istante, pensieroso. Era così trasparente? No,
aveva avuto l’accortezza di celare i suoi sentimenti. Ma allora come era
riuscito a capire quel pellegrino in così poco tempo il suo stato d’animo? Si
era forse comportato in maniera rivelatrice? Gli era sfuggito qualcosa? No. Ma
allora? Quell’uomo lo stupiva sempre di più.
“Digli che
sono un soldato. Un soldato di Roma.”
Marcello e
l’uomo confabularono per qualche istante, mentre Seneca riportava lo sguardo
alla danza intorno al falò. Poi Marcello scoppiò a ridere. Che succedeva?
Marcello si volse mentre stava ancora ridendo verso Seneca.
“Scusate se
rido, ma mi ha chiesto di domandare se volete bene ai vostri nemici. Quest’uomo
è un pazzo, principe.”
Seneca e il
giovane si guardarono negli occhi, mentre Marcello cercava di soffocare il suo
riso. Il volto del giovane era sereno. A Seneca parve di intravedergli negli
occhi qualcosa che forse era degno di essere conosciuto. E ciò che è degno di essere conosciuto –gli diceva il suo maestro-, è degno di essere conosciuto bene.
“Non lo so
se è pazzo o stolto o un vagabondo. Bisogna investigare, e adesso è il mio
turno di fare domande. Chiedigli chi è e da dove viene. Verrà pure da qualche
posto. Mi raccomando, sii serio.”
“Sì certo,
mi scusi. Qualcosa in ogni caso ve lo posso anticipare io, principe. Ne ho
conosciuti parecchi come lui da ragazzino. Mio nonno quando ne parlava diceva
sempre che “l’uomo di talento viene dal deserto”.”
“E cosa
significa?”
“Era il suo
modo di trattare le novità. Affermava sempre che per quanto ci sforziamo, per
quanto insegniamo con le migliori intenzioni ai nostri figli, per quanto ci
ingegniamo, alla fine otteniamo spesso tanti prodotti banali. Poi arriva un
ragazzo sconosciuto, si siede e suona delle cose nuove, bellissime. Chi è? Da
dove viene? Non lo sappiamo, è venuto dal deserto. Magari dopo lo scopriremo,
ma all’inizio è uno stupore.”
“Uomo
saggio, tuo nonno. Ma allora costui –Seneca indicò discretamente il giovane con
la barba- chi sarebbe?”
“E’ uno di
quei predicatori erranti che girano per le campagne e i paesi, vivendo delle
offerte dei fedeli e predicando il loro libro sacro.”
“Ah, allora
sa leggere. Chiedigli dove ha imparato.”
Marcello si
rivolse ancora al giovane, e questa volta il loro dialogare fu breve. Seneca
notò che comunque, anche se prima l’aveva chiamato pazzo, Marcello lo trattava
con rispetto.
“Dice che è
il figlio di un falegname. Ma da bambino è stato portato in Egitto per qualche
anno, e lì ha imparato a leggere e scrivere da un vecchio scriba, come dice
lui. Io non so di chi stia parlando. Poi…”
“In Egitto?
–Seneca fece uno dei suoi famosi sorrisi-. Chiedigli dove, conosco bene quel
paese. Oh, che bello!”
Lucio Anneo
Seneca, desideroso di conoscere meglio il giovane, era contento di aver trovato
qualche spunto in comune. Proprio per curare una fastidiosa malattia ai polmoni
sei anni prima infatti era sbarcato in Egitto, nella speranza che il clima
salubre di quella terra lo aiutasse a stare meglio. Il medico di famiglia
allora era stato chiaro: ancora un paio di inverni e la sua tubercolosi sarebbe
divenuta irrecuperabile. E così aveva raggiunto la zia in Egitto, dove gli
inverni quasi non esistono tanto sono caldi, e il clima è sempre asciutto. Il
luminare aveva avuto ragione, per lui era stato un vero toccasana, e si era
ristabilito. Forse già l’anno prossimo sarebbe tornato nella magione di
famiglia in Spagna o addirittura a Roma. Aveva già ricevuto varie offerte di
educatore per ragazzini ricchi.
Marcello
riferì il nome di un paesotto di mare sulla costa occidentale, in cui da
bambino aveva vissuto il giovane. Seneca non lo conosceva, probabilmente era
troppo minuscolo, però gli era venuto in mente un altro particolare.
“Aspetta,
ora che ci penso. Quasi tutti gli ebrei che ho incontrato nell’Egitto orientale
sapevano e parlavano il greco. Forse lo conosce anche lui. Voglio provare a
parlarci direttamente. Kalispèra.” Il
giovane con la barba sorrise e rispose in greco alla buonasera. Il contatto era
stato stabilito.
4.
Incoraggiato
da quell’inizio, Seneca si presentò con un gran sorriso, sempre in quella
lingua: “emoù ònoma Lucio Anneo Seneca
estì”, ma successe un fatto incomprensibile.
Il romano
non ottenne la reazione prevista. Dopo la presentazione del nome di Lucio Anneo
Seneca, il giovane barbuto annui e, volgendo la testa, si rivolse agli amici
che stavano dietro di lui. Li interrogò pacato nel suo dialetto, senza più
badare al suo interlocutore.
Perplesso,
Seneca chiese a Marcello la spiegazione di quel gesto in apparenza scortese e
irritante. Aveva detto qualcosa di sbagliato? Si era esposto troppo? L’armonia
era già incrinata? Appena iniziato era già tutto finito? E dopo quello che
aveva rischiato per loro… che irriconoscenza, che voglia di andarsene via.
Seneca desiderava in cuor suo mantenere sempre il controllo della situazione.
Altrimenti diventava diffidente. Fremendo, dopo un momento di stupore fece
l’unica cosa ragionevole in quelle circostanze, chiese spiegazioni a Marcello.
“Ma
co…Marcello, cosa sta dicendo costui? Cosa? In fretta, per favore.”
Marcello
stette ad ascoltare, poi rispose ad un Seneca impaziente: “ha chiesto ai suoi
amici cosa è meglio rispondere per presentarsi a voi. Anzi no, letteralmente ha
domandato “voi chi credete che io sia?”, o qualcosa del genere.”
Fu la donna
che gli stava accanto, quella che a Seneca era parsa la moglie, a rispondere
liberamente per lui. Sorrise ai due romani, strinse il braccio al compagno e
affermò decisa in greco: “autòs emeròs
rabbi estì”.
“Rabbi…”, confermò uno del gruppo.
“Rabbi…”, ribadivano gli altri. Erano
tutti d’accordo, senza incertezze.
Un irritato
Seneca scrutò la giovane donna, quasi una ragazza, e le parlò in greco,
sorpreso che anche lei sapesse quella lingua. “Cosa vuol dire, donna, lui è il nostro rabbi? Non conosco
questa parola. E poi tu chi sei per intervenire così sfacciata in una
discussione tra uomini? Rispetta se vuoi essere rispettata.”
“Rabbi
significa maestro nella nostra lingua. Io sono sua moglie, e lui è il mio amato
sposo.”
Seneca si
scoprì visibilmente seccato. “Se sei sua moglie onore a te, ma –il romano
indurì lo sguardo, come aveva mille volte visto fare da suo padre- ti invito a
lasciarmi parlare con lui senza interferire.”
“Ti prego,
ti prego, non essere così crudo con lei –intervenne il giovane rabbi sempre in
greco-, mi sbaglierò ma non penso che i vostri dei comandino di stimare poco le
donne o di non amarle. Forse da voi le femmine devono trasformarsi in maschi
per essere ascoltate?”
“Niente
affatto –Seneca si scoprì sulla difensiva-. E’ pur vero che bisogna avere
fiducia nella propria consorte, e che la vita di un uomo è incompleta senza una
donna al suo fianco, ma una moglie a Roma rispetta con la dovuta educazione la
sua posizione sociale, che è di deferenza nei confronti del marito.”
“Forse voi
romani avete scritto da qualche parte che amare è un peccato, o è contro le
vostre leggi. Siete un popolo forte, magari per voi è solo una sciocchezza.”
“No no
–rispose Seneca, che capì di essere stato troppo brusco con la moglie del
giovane rabbi; non aveva tenuto conto delle usanze del luogo, meglio venire
incontro a questi barbari-. Non c’è scritto di non amare, trattare male le
proprie donne o essere sprezzanti. Semmai il contrario. Proprio oggi
pomeriggio, anzi –decise di essere accomodante, in fondo quel giovane gli era
simpatico- riflettevo su come il mio spirito possieda una tendenza naturale ad
amare; così come percepisce, intende, ricorda, così ama. L’ho scoperta in me
recentemente, e immagino si tratti di una tendenza universale. Anzi, deve
essere proprio così se il matrimonio tra uomo e donna a Roma è benedetto dal
nostro grande imperatore Tiberio, sempre sia lodato. Ma da noi nessuna donna
interviene quando gli uomini stanno discutendo.”
“Ma tu ami
intensamente, e allora mi avrai capito. Non c’è bisogno di dire molto altro.”
Seneca
decise di cambiare discorso. “Come te ne sei accorto di questo?”
“Dai tuoi
occhi. Bisogna pur che qualcuno tra noi si occupi di questi aspetti della vita,
e stia attento alle impronte dello spirito. L’amore è per il nostro popolo un
segno importante della divinità. Nel nostro libro sacro l’amore umano tra due
giovani, anche se spesso viene degradato e profanato, è l’espressione più pura
di Dio sulla terra. Al centro di ogni trono c’è un ricamo d’amore.”
“Parole
molto belle –Seneca sorrise con amarezza-. Peccato siano una illusione, dolce
ma pur sempre ingannevole. La forza di Roma comanda il mondo, non l’amore. Il mio
maestro di retorica mi esortava sempre a diffidare di questo sentimento di cui
hai appena discusso, perché è contrario alla virtù. Porta un uomo alla follia,
nei casi meno gravi all’ipocrisia, o alla meschinità.”
“Il tuo
maestro aveva ragione, io però non stavo parlando della follia o altro, ma del
volersi bene. Che tristezza però, lasciamelo dire, essere fraintesi su questo
punto, essere costretti a spiegarsi meglio –il rabbi fece un gesto con la mano,
come un fiore che faticava ad aprirsi-. E comunque un regno su questa terra
fondato sul terrore e sulla forza svanisce presto, basta attendere. Ma il regno
nei cieli è fondato sull’amore, e durerà a lungo.”
In quel
momento alcuni uomini arrivarono alle spalle del rabbi, gli sussurrarono
qualcosa e attesero una risposta. Un paio ne approfittarono per lanciare uno
sguardo malevolo a Seneca. Ci fu uno scambio di battute nella loro lingua, ma
dopo una sua brusca risposta se ne andarono. Marcello, che li aveva ascoltati e
capiva tutto, voltò la faccia per non far vedere che rideva, tossì un paio di
volte e si coprì la bocca. Seneca se ne accorse e lo interrogò in latino.
“Cosa hanno
detto di tanto spiritoso, Marcello? Spiegalo anche a me.”
“Ah
principe, i suoi discepoli gli hanno chiesto se voleva venire con loro a
pregare e digiunare, piuttosto che stare a discutere con un pagano. Gliel’ho
detto che non tutti sono amichevoli. Ma lui ha risposto “non dite sciocchezze,
e non fate ciò che non vi sentite di fare”. Aldilà dei suoi modi un poco
selvatici, pare un uomo ragionevole. Siamo stati fortunati ad incontrarlo.”
“Sì –pensò a
voce alta Seneca-, si può parlare con lui, al contrario di qualche fanatico del
suo seguito. Ma quella è una malapianta che cresce ovunque, caro Marcello.
Anche i palazzi migliori di Roma ne sono infestati. –Seneca stava pensando a
qualcosa, poi si riprese e ricominciò a parlare in greco- Rabbi, a proposito…”
“Dimmi.” Si
vedeva che era abituato a sentirsi chiamare così.
“Il mio
compagno mi ha tradotto quello che vi siete detti poco fa –Seneca avvertì che
doveva aggiungere qualcosa per dare completezza alla frase-. Sento che devo
ringraziarti per la tua disponibilità. E’ un fiore raro in questa terra. I
nostri popoli non sempre sono stati amici.”
“Oh,
praticamente mai, soldato di Roma, però anche il deserto fiorisce. E poi perché
dovrei –rabbi sorrise- rinunciare a questa occasione per conoscervi? E’ solo
una coincidenza che siete venuti qui stanotte? No, non credo. E nemmeno che sia
bene rifiutare i doni imprevisti del cielo. Quando le coincidenze risuonano
dentro il cuore, come stasera è accaduto a me, allora vuol dire che proprio
casuali forse non sono.”
“Un discorso
quasi da poeta. Ma i poeti purtroppo non ho mai capito bene a cosa servono.”
“Romano,
tutti noi amiamo i poeti, come i lattanti che trovano negli occhi della madre
la loro vita e che stanno imparando a vivere –rabbi guardò con affetto la sua
compagna, che rispose con un sorriso indefinito. Tra loro due c’era un segreto,
come nelle vere coppie. Poi si voltò ancora verso Seneca-. Loro si fidano, e
sono sopravvissuti. Perché non dovrei fidarmi io, io che sono più cresciuto di
loro? Non tutto succede per caso.” La moglie del rabbi annuì con a testa.
“Il mio
sposo a volte si lascia prendere e parla assai, romano –disse la donna mentre
gli accarezzava il braccio-. Mi sa che deve ancora imparare a dominarsi, quando
ci riuscirà sarà veramente grande –rabbi le sorrise e le baciò affettuoso la
mano-. Parlaci tu per favore della tua vita e della tua gente. Non sappiamo
nulla di voi. Siete venuti da lontano e avete conquistato la regione,
suppliziando chi si ribellava.”
“Solo chi si
opponeva alla luce di Roma”, chiarì Seneca, che sentì subito serpeggiare dei
mugugni tra gli ascoltatori.
“Sin da
quando ero bambina –continuò a voce alta la moglie del rabbi, sovrastando i
malumori- vi ho visti sfilare in assetto di guerra per le strade. Ma chi
siete?”
“Come il
santo Aronne, quando si trovava al cospetto del Faraone e si esprimeva per
conto dell’impacciato fratello Mosè, veramente tu sei la mia lingua, sposa
adorata –mormorò il rabbi-. Ma forse è meglio non caricare le spalle di
quest’uomo di un compito troppo impegnativo. Chiediamo allora, tu chi sei?”
Tutti lo
stavano guardando. Ma con curiosità, senza malizia, pendevano dalle sue labbra.
Lucio Anneo Seneca era indeciso se parlare della sua vita in maniera retorica e
ufficiale, come era abituato, o presentarsi in maniera più semplice. In fondo
cosa importava a quella gente dei suoi titoli, delle cariche pubbliche, delle
sue conoscenze? Bene che andasse, vista la loro ignoranza del mondo romano, non
lo avrebbero capito. Scelse quindi una forma più discorsiva, non si trovava al
foro, non doveva convincere o impressionare chicchessia. Aveva solo degli
ascoltatori intorno ad un fuoco. Un momento sereno, non guastiamolo con la
vanità.
“Mi chiamo
Lucio Anneo Seneca, ho ventisei anni e sono un cittadino romano. Mio padre era
Seneca il vecchio, un grande letterato. Sono nato a Cordova, nella provincia
iberica dell’Impero –Seneca notò negli occhi dei suoi ascoltatori il vuoto-.
Molto, molto lontano da qui, una regione chiamata Spagna, aldilà del grande
mare.”
“Ahhh…”
“Sin da
piccolo mi piaceva studiare e conversare, e ho ben presto rivelato un talento e
un interesse, a quanto mi hanno detto non comuni, per lo studio. Mio padre ne
era felice, e per assecondare questa mia passione aveva costruito con le sue
mani una piccola casetta in giardino, con una lavagnetta di ardesia e alcuni
giochi di legno. Io e i miei fratelli potevamo stare tranquilli in questo posticino
tutto nostro, e ogni tanto lui veniva ad insegnarci le lettere. Poi un giorno
ci annunciò che saremmo andati tutti a Roma. Siete mai stati a Roma?”
“Io sono
stato a Sion.”
“Anch’io.”
“Io a
Damasco.”
“Roma è
fastosa come tutte queste e altre città messe insieme, e molto più grande.”
“Più grande
di Sion?”
“Sì. Lo
posso dire perché le ho visitate entrambe. Una volta che siete stati a Roma non
la dimenticate più. Da bambino, quando vi arrivai per la prima volta, rimasi
impressionato dall’imponenza dei suoi monumenti, dalle sue strade larghe, dalla
folla innumerevole che vi transitava. Non avevo mai visto tanta gente. Cordova
al confronto era un semplice paese, in cui si conoscevano e si salutavano
tutti. E poi un’altra cosa mi stupì.”
“Cosa?”
“Il suo clima,
che a paragone di tanti altri è meraviglioso, un clima ideale per un essere
umano. Ogni giorno mi pareva di svegliarmi circondato da un vento fresco, un
cielo azzurro, una temperatura tiepida. Da bambino ero convinto di essere
arrivato in un paese con la primavera perenne. E’ veramente un luogo prediletto
dagli Dei.”
“Roma è un
sogno -intervenne Marcello, a sorpresa dato che parlava poco il greco-, come
vorrei vederla.”
Seneca gli
sorrise e gli mise la mano sulla spalla. “Stai con me, Marcello, e la vedrai.
Comunque, tornando a prima, mio padre era anche un nobile con ambizioni
politiche, e voleva assicurare la migliore educazione per i suoi tre figli. Per
questo ho frequentato con i miei fratelli parecchie scuole di retorica e arte
giuridica. I miei maestri sono stati il neopitagorico Sozione e il famoso
Attalo.”
Seneca
lasciò cadere il nome con noncuranza, ben sapendo che avrebbe causato nei suoi
ascoltatori il solito mormorio di sorpresa.
Nulla. I
suoi ascoltatori non reagirono, come se avesse nominato un emerito sconosciuto.
Sembrava quasi che non lo conoscessero, eppure il nome di Attalo era noto anche
in quelle lontane province.
”Non avete
mai sentito parlare di Attalo? Ma dovete conoscerlo, è famosissimo, e i suoi
libri sono veri gioielli. Quel pover'uomo di mio padre, visto che ero un
giovane così promettente, ha speso una fortuna per farmi studiare con lui a
Roma.”
“Scusami
–intervenne il rabbi-, già in altre parti del discorso l’ho notato. Parli
sempre di tuo padre al passato. E’ forse scomparso? Sei molto giovane per
questo.”
“Sì,
purtroppo sì, l’anno stesso in cui arrivai in Egitto per curarmi una malattia
ai bronchi lui, che era già anziano e malandato, venne colto da una febbre
cerebrale e spirò dopo poche settimane. Non riuscii nemmeno a tornare indietro
per il suo funerale, l’ho saputo tardi. Furono giorni molto tristi per me.”
“Proviamo
dispiacere per te, è la perdita forse più importante nella vita di un uomo. Il
tuo dolore è ancora amaro e intenso. Gli volevi molto bene.”
“Mi aggiravo
per le strade sconosciute di una città africana, di cui non capivo la lingua,
senza nessuno con cui parlare –perché gli stava raccontando quelle cose? Perché
apriva il suo lato più intimo?-. Non ho mai provato in vita mia la solitudine
più intensamente, non mi sono mai sentito così straniero in terra straniera
come allora. Era un uomo buono, e non l’ho mai ringraziato abbastanza per
quello che aveva fatto per me.”
“E’ un
grande dolore –disse il rabbi-. A noi è permesso piangere i nostri morti. Anche
a voi?”
Seneca
rimase per qualche istante in silenzio, stupito dalla piega che aveva assunto
la conversazione. Appoggiò la schiena alla corazza. I ricordi gli pungevano il
cuore.
“Anche a
noi, sì. Ma non per questo è conveniente piangere o lamentarsi in pubblico. Fortunatamente
quel periodo è passato, ma ho sofferto molto nel mio letto pensando a lui. Mi
venivano in mente i consigli che mi aveva dato, i momenti belli passati
insieme, e quando mi addormentavo sognavo di incontrarlo, ma senza ci dicessimo
niente. E quando ero sveglio, giorno dopo giorno, iniziai ad avere paura di
dimenticarmi il suo volto, mi chiedevo se l’avrei riconosciuto nei Campi Elisi,
quando ci rincontreremo. A volte ci penso ancora.”
“Non temere
–disse tranquillo il rabbi-. Le anime non hanno età.”
“E’ stato un
uomo importante, mi ha consigliato e guidato in vari momenti critici della mia
vita. Se sono vivo forse è grazie a lui. E non è una frase di circostanza.
–Dopo un attimo di esitazione, Seneca decise di aprirsi ancora un poco di più
senza timori; si sentiva a suo agio, anche se conosceva quella gente da poco-.
Se è il caso infatti sapeva anche intervenire con fermezza. Quando ero
ragazzino, influenzato dal maestro Sozione, studioso molto serio, per un certo
periodo avevo seguito una dieta alimentare così rigorosa, così ascetica, che in
breve mi ero ridotto ad una estrema magrezza, ma possedevo una grande forza di
volontà e potevo sopportare agevolmente ogni difficoltà. Mi sentivo l’anima più
agile e oggi non oserei affermare se fosse realtà o illusione. Però deperivo
sempre di più, sino a quando mi ammalai.”
“Oh,
poverino!”, esclamò la donna del rabbi. Seneca sorrise, gli faceva un po’
impressione essere compatito da quella povera gente, lui che apparteneva al
ceto dei Cavalieri. Ma questa notte il mondo andava alla rovescia. Chi era il
povero?
Non lo
avrebbe ammesso facilmente, ma riconobbe il germoglio della superbia, che sin
da giovane gli si incuneava nell’animo per avvelenarlo. Pensava di essersi
liberato, ma ci era ricascato per l’ennesima volta, e se ne vergognò un poco.
Forse per questo prima era sceso da cavallo, per vedere un mondo nuovo. Seneca
sorrise gentilmente alla donna, una bella ragazza, poi la rassicurò.
“Oh, ma sono
guarito. Sin troppo direi. Mio padre, che non tollerava che in famiglia si
seguisse con fanatismo alcunché, soprattutto pratiche non romane, e preoccupato
per la mia salute, mi pregò di ritornare agli antichi usi. Lo fece in maniera
persuasiva, senza costrizioni, e ottenne ben preso che io ricominciassi a mangiare
meglio. Senonché… ecco, a questo periodo per me diciamo quasi mistico ne
successe ben presto un altro, di cui mi pento ancor oggi. Ma si vede che gli
dei avevano previsto che passassi anche attraverso questa prova.”
“Sei
diventato un gaudente –asserì deciso il rabbi-, da un estremo sei passato
all’altro.”
O dei, il
suo discorso era così trasparente? O era quel ragazzo a possedere un intuito
eccezionale?
“Sì, si può
dire così. Quando mi sentii ristabilito a al meglio delle mie forze, venni
preso da una smania di esperienze. Volevo provare tutto, di tutto. Ero giovane,
incosciente, e il mondo mi sembrava mio. Solo ora capisco quanto fossi svanito.
Andai da mio padre, gli chiesi la mia parte di patrimonio e affittai con quei
soldi una grande villa a Neapolis, una città sul mare vicina a Roma famosa per
i suoi divertimenti. Che vita ho passato in quell’anno! Donne, festini,
banchetti… non mi sono fatto mancare nulla. Frequentavo i posti più rinomati e
avevo molti amici, come capita ai giovani che sono disposti a spendere senza
riflettere tanto. Ebbi molte esperienze, tra le più assurde, e conobbi persone
di ogni ceto. Quando ripenso a quel periodo mi chiedo se certe cose sono
accadute proprio a me. Mi ero ripromesso di divertirmi ogni giorno in un modo
diverso, un’idea bizzarra e che si è rivelata molto dispendiosa. Presto
finirono i soldi e i creditori mi saltarono addosso tutti insieme. Piombai
nella miseria assoluta in poco tempo. Nessuno ebbe pietà di me.”
“Nemmeno i
tuoi amici?”
“Soprattutto
quelli –Seneca fece un riso amaro-. Gli amici dei bei tempi si rivelarono falsi
come volpi e iniziò per me un periodo cupo, che ho cercato di dimenticare.
Persi tutto. Ed è incredibile quanto in fretta si possa perdere anche la
propria dignità. Mangiavo dove potevo e dormivo per terra, dove capitava. Deve
essere stato allora che mi sono ammalato ai bronchi. Mi misi a fare i lavori
più umili, per un certo periodo ho lavorato anche tra i fullones.”
“Chi
sarebbero?”
“Quelli che
raccolgono le pesantissime giare piene di urina che viene poi bollita. Si
ricava una sorta di sapone. E’ un lavoro degradante e umilissimo, che non vuole
fare nessuno, nemmeno gli schiavi. Se devo essere sincero siete i primi con cui
ne parlo, di solito evito anche di accennare a queste cose. Se in futuro
dovessi scrivere la storia della mia vita… lasciamo perdere –Seneca sorrise, ci
stava per ricascare.- Volesse il cielo che abbia di meglio da raccontare. Mi sa
comunque che sorvolerò su questo periodo.”
“Almeno hai
appreso la fatica fisica, il sudore senza aiuto. E’ confortante per noi sapere
che anche un nobile conosce quanto sia penosa.”
“Forse hai
ragione, ogni esperienza ha il suo valore. E’ giusto, vi voglio raccontare
quello che è successo dopo –Seneca fece un respiro e riprese deciso il suo racconto-.
Una notte che sfinito dalla fame e dalla fatica mi ero buttato per terra,
sognai vivissima la casa dei miei genitori, dove c’era pane in abbondanza. Mi
sentivo proprio il più miserabile degli uomini, ridotto a sognare per sfamarsi.
Anche i maiali si nutrivano meglio di me. Mi ero sempre vergognato di tornare
indietro e farmi vedere così, me ne ero andato così orgoglioso… ma alla fine la
fame fu più forte di tutto. Così decisi di far ritorno, anche se ero sicuro che
sarei stato punito. Ero pronto a fare i lavori più umili, a farmi trattare come
uno schiavo, ad essere battuto senza pietà. Me lo meritavo, ero stato arrogante
e irriconoscente. Ma mio padre e mia madre, appena mi videro arrivare da
lontano, uscirono dal cancello e mi vennero incontro piangendo, e ci
abbracciammo sulla via. Non dimenticherò mai quel momento, campassi cent’anni.
Da più di un anno non davo notizie di me e non voglio nemmeno sapere di cosa
erano venuti a conoscenza, perché me ne vergognerei troppo. Troppo.”
“Un uomo che
si vergogna –disse piano il rabbi- ha dentro di sé la possibilità di redimersi.
E un uomo che si esalta quella di perdersi. E poi che è accaduto?”
“Oh, una
cosa fantastica, da non credere. Mio padre era felice di rivedermi, perché si
era rassegnato ad avermi perso per sempre. Mi fece lavare, pulire, mi consegnò
uno degli abiti più belli e mi regalò un anello per restituirmi al mio rango.
Preso dall’euforia fece addirittura uccidere un vitello ben pasciuto per
festeggiare quella sera il mio ritorno.”
“Sei stato
perdonato. Tuo padre era un sant’uomo.”
“Sì, ma mio
fratello maggiore quando lo venne a sapere si arrabbiò moltissimo. Non voleva
nemmeno entrare in casa. Fu mio padre, come ho saputo dopo, ad uscire per
parlare con lui. “Ma come? –gli disse mio fratello- a me che mi sono comportato
sempre bene e che ho lavorato tutti i giorni non hai nemmeno regalato un
capretto per fare festa con i miei amici, e per questo spendaccione, che ha
disonorato la nostra nobile famiglia, uccidi il vitello grasso che tenevamo per
i Saturnalia? Ma allora sei uno
sciocco!” Non ho mai saputo esattamente cosa gli ha risposto mio padre, però si
vede che riuscì a convincerlo, perché mio fratello entrò in casa, mi guardò e
mi abbracciò forte. Io piangevo, e non capivo bene. Però ho compreso quel
giorno che pochi beni sono importanti per un uomo quanto la sua famiglia.”
“Hai proprio
ragione romano –disse la moglie del rabbi-. L’amore di una famiglia fa
miracoli.”
Tutti si
congratularono con me per la fortuna di avere avuto un padre simile, e li
ringraziai. Solo il rabbi stava zitto e mi guardava, assorto nei suoi pensieri.
5.
“Che bella
storia hai raccontato -esclamò un ragazzo-. Ti preghiamo, romano. Parlaci
ancora della tua vita.”
“Sì! E poi?”
In molti si
erano avvicinati ai tre forestieri, incuriositi e superando la paura, e nel
caso facendosi tradurre nella loro lingua i discorsi in greco. Nel frattempo
infatti anche Liborio, finite di distribuire le noci, per precauzione si era
posizionato dietro Seneca e Marcello, con la scusa di appoggiare una coperta
sulle loro spalle. Dopo si era accovacciato su un cumulo di sabbia e lì era
rimasto, senza parlare, apparentemente con noncuranza. Tutti però ne avevano
capito l’intenzione segreta, in realtà li proteggeva con la sua non piccola
mole.
Si capiva
infatti che la diffidenza serpeggiava, in tanti fissavano ancora i romani con
occhio sottile e ogni tanto si coglievano sguardi ostili. Loro facevano parte
pur sempre degli usurpatori, non erano certo vecchi amici. Il centurione li
aveva lasciati in mezzo a serpenti, tranquilli ma pur sempre serpenti.
Comunque, per rispetto del rabbi e del suo atteggiamento amichevole, nessuno di
loro si azzardava a comportarsi in maniera scortese o sgarbata. La curiosità
prevaleva.
“E’ vero che
ora abita nel lontano Egitto? Abbiamo capito bene?”, chiese timido un
pellegrino.
“Certo
–rispose Seneca- da sei anni abito ad Alessandria, la loro capitale, una città
a mio parere seconda solo a Roma per grandezza e regalità. L’Egitto l’ho
visitato in lungo e in largo, anche se certo non tutto. E’ molto grande e
abitato da gente con la pelle dai più svariati colori.”
“Simile alla
nostra?”, chiese il pellegrino di prima.
“Anche.
Soprattutto al nord. Per ordine del Prefetto romano della regione ho esplorato
il corso del fiume Nilo, vero dono degli dei a quel paese. Ho viaggiato sino
alle province più meridionali, in cui vive un popolo dalla pelle scurissima,
più nera del buio. Da loro più le donne sono nere, più sono considerate belle.”
“Per noi
giudei –aggiunse un altro- l’Egitto è una terra quasi leggendaria. Le origini
del nostro popolo affondano in quel paese.”
“Sì, ne ho
sentito parlare. Ho frequentato uno dei vostri templi una volta. Mi pare di
ricordare… quello che chiamate esodo, no?”
“Sì, l’esodo
del popolo ebraico. Ricordiamo ancora oggi i nostri antenati, Giacobbe,
Giuseppe e soprattutto Mosé, che combattendo la fame e la sete guidò il nostro
popolo a questa terra promessa, Eretz Israel come la chiamiamo noi. Rabbi è
stato nella terra dei faraoni da bambino, ma ce ne parla sempre troppo poco, e
il nostro desiderio di conoscerla resta grande.”
“Hanno
ragione –il rabbi prese la parola-. Vorrei nutrire i loro pensieri e
sentimenti, ma è molti anni che vi manco, e i ricordi iniziano a sbiadire, si
trasformano in nostalgia. Tu anche solo per questo sei per noi una
testimonianza importante, romano. Raccontaci per favore del paese del Nilo. La
tua mente è fresca e le tue esperienze certo interessanti. Arricchisci le
nostre anime.”
Seneca si
mise a ridere. “Non pensate che abbia chissà quali doti o raccomandazioni. Ci
ho messo poco a capire perché il governatore aveva mandato me: ero il più
giovane, e forse il più inesperto dei luoghi. Ma sono sempre stato un ingenuo
in queste cose, l’ho compreso dopo il vero motivo. Certo, è affascinante, ma
avventurarsi nelle paludi che corrono lungo il grande fiume è un’esperienza che
non raccomanderei a nessuno, vi abitano troppi animali selvaggi. Per non
parlare poi delle zanzare, un vero tormento. Sei assalito da nugoli di
moscerini ovunque, che quasi ti impediscono di vedere.”
Seneca
raccontò del suo viaggio di qualche anno prima, in cui si era sincerato sul
campo e senza intermediari dello stato di salute del paese. Già che c’era,
nella sua esplorazione ne avrebbe approfittato per cercare di risolvere un
antico mistero: del perché questo fiume inondasse l’Egitto proprio nel periodo
in cui la terra era più bruciata dal sole, rendendola abbondante e fertile in
modo sufficiente ad affrontare la siccità.
“Dunque non
piove in Egitto?”, chiese uno stupito.
“Praticamente
mai, a volte passano anni tra una precipitazione e l’altra. In quella regione
le case vengono costruite senza tetto, tanto le piogge sono assenti. Se il
grano non cresce il contadino sa che è inutile rivolgere gli occhi al cielo,
ripone nel fiume la sua unica speranza: l’annata sarà sterile o fertile a
seconda che le acque del fiume abbiano provocato una inondazione scarsa o
abbondante.”
“E tutto
questo in estate?”
“Sì, quasi
sempre. Nei dintorni della città di Menfi, una volta che sia traboccato dagli
argini, il Nilo è finalmente libero di vagare per le campagne, e si divide in
più rami attraverso canali costruiti nei secoli dagli uomini, in modo da poter
disporre di tutta l’acqua che si vuole. La larghezza delle regioni sulle quali
si estende a destra e sinistra gli fa perdere la violenza della sua corrente
primitiva. Poi quando le sue acque fangose si sono riunite in una distesa
continua, il fiume ristagna, e prende l’aspetto di un mare vasto e torbido, con
delle isole di terra qui e là.”
“Che
desolazione”, commentò un pellegrino.
“Al
contrario, i contadini sono felicissimi quando accade. Più terreno è ricoperto
dall’acqua più si scambiano grida di gioia. Il panorama cambia completamente da
terrestre ad acquatico nel giro di pochi giorni, uno spettacolo straordinario.
E non si tratta solo di acqua: il fiume porta acqua e terra insieme. Scorrendo
intorbidato, lascia il suo fango in luoghi secchi, assetati e pieni di spaccature, e tutto il limo che ha
portato con sé lo deposita su un terreno arido, giovando doppiamente alle
campagne, perché le bagna e le concima.”
“Veramente
Dio Padre –rifletteva il rabbi ad alta voce- ha guardato con favore a quel
popolo, quando creò il cielo e la terra.”
“Per gli
egiziani è proprio il Nilo ad essere considerato un dio.”
“Eresia!
–gridarono in molti- Infedeli!”
“Calma calma
–Seneca cercò di placarli con uno dei suoi sorrisi-, bisogna capirli. Il Nilo
per loro rappresenta l’unica vita, dato che tutti i luoghi che non raggiunge
giacciono sterili e incolti. Se però cresce più del necessario o quell’anno
l’inondazione salta, e una volta è capitato per sette anni di fila, i danni
sono irreparabili.”
“A volte Dio
è violento –mormorò il rabbi-, i suoi schiaffi mettono in ginocchio. Anche noi
conoscevamo la storia dei sette anni.”
“Il grano
egiziano è di vitale importanza per Roma, per cui si capisce di come il Nilo
rappresenti un problema che interessa moltissimo le autorità.”
“Il vero
motivo della tua esplorazione, presumo.”
“Ah certo,
non era solo curiosità. Se si potesse… se si potesse capire da dove e perché
questo fiume inizia a crescere, si potrebbe affrontare al meglio la piena, e
forse rimediare agli anni in cui si fa attendere, o arriva troppo presto. Ma
purtroppo, come tanti altri prima di me, non sono riuscito a svelare questo
mistero che dura dagli inizi del tempo. Risalendo verso le sue origini bisogna
scavalcare cascate colossali, e il fiume diventa via via in certi punti troppo
impetuoso, una enorme massa d’acqua che ribolle e sballotta ogni imbarcazione.
Molte navi sono state affondate dalla forza eccezionale di questo fiume. Del
resto, il Nilo nutre creature altrettanto grandi e altrettanto pericolose di
quelle marine, e si può stimare la sua grandezza dal fatto che contiene animali
mostruosi, ai quali offre il nutrimento e lo spazio per muoversi.”
“Non mostri
–intervenne serio un pellegrino-, ma creature del vero Dio! Nel quinto giorno
della creazione il nostro Signore ha popolato il mare di animali, e nella sua
sapienza tutte le acque del globo.”
“Allora a
lui –aggiunse malizioso Seneca- si devono tra l’altro anche i famosi
coccodrilli, bestie gigantesche e molto pericolose.”
“Quando ero
in Egitto, da bambino –commentò il rabbi-, ne ho visto un esemplare impagliato.
La sua grande bocca era aperta, sembrava stesse per colpire. Era
impressionante, una grossa lucertola con la corazza, grande tre volte un uomo e
con denti affilatissimi.”
“Forse
allora –intervenne un altro pellegrino- poteva trattarsi del Leviatano che ha
inghiottito il nostro profeta Giona.”
“Il
Leviatano!”, il gruppo davanti al pensiero della mitica bestia si era animato.
Tutti discutevano tra loro mentre il fuoco illuminava la scena.
“Il
leggendario mostro marino! E’ vero che ha cento occhi?”
“Cento occhi
forse no –spiegò Seneca, divertito dalla loro curiosità-, ma di sicuro potrebbe
inghiottire un uomo. Dicono che il suo morso sia azionato dai muscoli più
potenti della terra, ma anche lui ha un punto debole –Seneca portò le mani al ventre-.
L’ho visto io stesso. Nel punto dove il Nilo si butta in mare ho potuto
assistere allo spettacolo di delfini di mare che si scontravano con i
coccodrilli del fiume. Ingaggiarono una battaglia come per la sopravvivenza, e
ci credereste? I furiosi coccodrilli furono sconfitti da animali pacifici e dal
morso inoffensivo.”
“Come ci
sono riusciti?”
“I
coccodrilli hanno la parte superiore del corpo dura e impenetrabile anche per i
denti di animali più grossi, ma la parte inferiore è molle e tenera. I delfini
si immergevano e li ferivano con le pinne che si drizzano sul loro dorso, e
facendo forza in direzione opposta li dividevano. Dopo che molti furono fatti a
pezzi in quel modo, gli altri coccodrilli si ritirarono come un esercito in
fuga. E’ un animale propenso a fuggire davanti a chi è audace, pur essendo
implacabile con chi è pauroso! E gli abitanti di quelle zone riescono a
vincerlo non per una dote propria della loro razza o del loro sangue, ma col
disprezzo e l’audacia. Li inseguono, infatti, di propria iniziativa e li
prendono con un semplice laccio mentre fuggono. Così semplici uomini catturano
bestie pericolosissime!”
Ci fu
qualche momento di silenzio alla fine del racconto, ma era un silenzio che
stranamente dava al giovane romano una sensazione non buona. Prima che si
chiedesse il perché, il rabbi intervenne, rivolgendosi sia a lui che ai suoi
confratelli: “una storia interessante, che forse per noi nasconde un
insegnamento. Questi popoli così lontani ci insegnano ad essere audaci e a non
aver paura dei nostri desideri, nemmeno quando sono contrastate da forze che
sembrano superiori, e di molto, alla nostra, dotate di robuste e invincibili
corazze –qualcuno nel gruppo guardò di sfuggita la corazza di Seneca sulla
sabbia-. Così quel popolo ha trasformato la sua siccità in una inondazione.
Perché quando siamo deboli…”
“…è allora
che abbiamo l’occasione di dimostrare la nostra vera forza!”, finirono con
sicurezza la frase alcuni pellegrini.
Marcello
lanciò una occhiata inquieta a Seneca. Nemmeno al soldato semplice era sfuggito
il possibile sottinteso del discorso. E il pericolo. Seneca si rammentò
improvvisamente dove si trovava, e si scoprì molto vulnerabile.
O dei, siamo finiti in una trappola. Maledizione alla sua boccaccia.
Vide il rabbi con occhi diversi, sapeva che per quella gente potere religioso,
militare e politico arrivavano a confondersi. Maledizione a lui quando aveva
pensato a delfini e coccodrilli. Gli era sembrato un racconto interessante, ma
nulla più. Che fare? Se aspettava troppo, lasciava a loro l’iniziativa e poteva
finire male. Scelse la soluzione più immediata, continuare lui in qualche modo
il racconto, nel tentativo di sviare i pensieri e lasciar scorrere il pericolo.
Era il momento buono per accennare ad un episodio personale. Un altro, pensò Seneca, mi sto aprendo con questa gente come non
faccio da anni, chissà se se ne sono accorti.
“Comunque la
mia salute, che sin dagli stravizi di Neapolis è sempre rimasta cagionevole,
alla fine non ce l’ha più fatta. Complice il caldo, l’umidità, le zanzare alla
fine mi sono ammalato. Ho passato vari giorni in deliquio, con una febbre
altissima, in cui non capivo più niente. Straparlavo e a volte credevo di
essere ancora a Roma. Mi sentivo come una tenda agitata dal vento, che non
riesce a fermarsi.”
Rabbi annuì.
“E’ una sensazione che i figli di Sion nel loro peregrinare nel deserto hanno
conosciuto bene. All’inizio siamo forti e riteniamo di poter sopportare tutto,
senza chiedere aiuto a Dio. Ma ben presto, come ha testimoniato il nostro profeta
Geremia, “la mia tenda si è sfasciata, e tutte le mie corde si sono rotte”. Se
tu fossi giudeo, con quella malattia avresti intuito che il nostro Signore ti
stava lanciando un messaggio, forse eri andato troppo avanti, era ora di
tornare.”
“Mmmh… in
parte condivido questo tuo modo di pensare, ma solo in parte. Di certo era ora
di tornare, ma secondo me è pericoloso dare un senso magico e non razionale ai
malesseri fisici.”
“Siamo
diversi, romano. La tua società, da quello che ho capito, è interessata a
sviluppare la forza guerriera e forse non è così attenta al trascendente come
la nostra. Spesso ho sentito i romani chiamare assurdo ciò che per noi è invece
mistero. Non so perché sia così, ma così è. Ognuno abbia ciò che è suo. In ogni
caso, sia noi che voi siamo sottoposti ad una autorità. E quando la tua
comanda, tu ubbidirai.”
Seneca
davanti a questa sicurezza non sapeva cosa rispondere, poi la moglie del rabbi
intervenne sorridendo: “non preoccuparti romano, se non sai cosa dire. Nemmeno
noi che gli stiamo sempre vicini a volte lo comprendiamo.”
O dei, che confusione. Cosa dire? “Per ritornare –continuò Seneca- al
mio racconto, solo dopo essermi
finalmente ristabilito sono tornato. La mia missione era fallita negli
obiettivi ultimi, ma avevo comunque riportato indietro una buona dose di
informazioni, e venni lo stesso premiato dal governatore. Però per molto tempo
ho rifiutato nuovi incarichi. Basta missioni per favore! Per favore!”
Seneca alzò
le mani come per dire “Basta! Basta!” e tutti, anche coloro che non capivano la
lingua, risero osservando il linguaggio dei suoi gesti. Seneca sorridendo si
alzò per andare verso il fuoco, complimentandosi con se stesso per essere
uscito con eleganza da una situazione difficile. I pellegrini intanto circondavano
il rabbi, per discutere con lui sull’Egitto e su quanto era stato appena
raccontato. Spirava un vento sempre più gelido, la sabbia sotto i calzari era
diventata fredda e Seneca pose i palmi delle mani sulle fiamme per scaldarsi.
Ah, che bello il fuoco.
Un ciocco
stava per cadere fuori dai sassi, il giovane romano con la punta della spada lo
rimise tra le fiamme, spruzzando scintille. Nello stesso tempo ripensava a
quella incredibile gente che aveva incontrato. Sì, aveva fatto bene a scendere,
“ogni incontro è bello” gli ripeteva sempre Attalo. Quel rabbi poi. Era poco
più che un mendicante, ma sembrava capire bene il mondo e la gente. Celava
dentro una carica enorme di essenzialità. Seneca osservò una farfalla notturna
avvicinarsi pericolosamente alle fiamme. E poi… e poi Lavinia. Il pensiero alla
fine ritornava sempre da lei, dolce ossessione che gli aveva stregato l’anima.
Che
silenzio. C’era qualcosa di strano. C’era troppo silenzio. Anche il suono del
tamburello si era interrotto, le ragazze non cantavano più. La folla si era
ammutolita.
“Uhh?”,
Lucio Anneo Seneca alzò gli occhi dal fuoco, e vide che tutti lo fissavano in
silenzio sbalorditi. Cos'era quella stranezza?
C’era
tensione. Gli attenti Liborio e Marcello, senza pronunciare parola, si posizionarono
prontamente al suo fianco, appoggiando con cautela le mani sulle spade. Seneca,
sempre più all'oscuro, chiese a loro.
“Cosa è
successo? Come mai nessuno parla più?”
“Non lo
sappiamo principe, è cambiato tutto improvvisamente, ma questa situazione non
ci piace. Cre…”
Un uomo
accecato dall’ira con un urlo si avvicinò, agitando minacciosamente il braccio.
Liborio e Marcello gli puntarono all’unisono le loro spade addosso, Seneca
stava un passo indietro, immobile. Ma l’uomo non si calmava e dalla sua bocca,
anche con la punta di due spade nel petto, usciva un fiotto di parole
arrabbiate e incomprensibili.
“Lo faccio
fuori, principe? Mi dica una sola parola e io…”
“No aspetta,
qui sta succedendo qualcosa. Prima voglio capire.”
L’uomo non
si placava, ora si era voltato per rivolgersi ai compagni. Li stava aizzando, e
il mormorio nel gruppo diventava sempre più forte.
“Ma cosa sta
urlando quell’imbecille, per Giove? Perché li sta istigando? Marcello, riesci a
capire?”
“A quanto
pare lei, principe, prima li ha insultati e disonorati.”
“Io? E come
ho fatto?”
“Ha toccato
con un’arma il loro fuoco, che ora è diventato impuro perché non deve essere
nemmeno sfiorato da armi da guerra. Hanno il metallo insanguinato, e questa
gente ha orrore del sangue. Ha commesso un sacrilegio, è come se avesse
bestemmiato ad alta voce e li ha offesi a morte. E’ colpa mia –disse Marcello
sconsolato-, mi ero dimenticato di avvisarla.”
Seneca
intanto ripensava a quando con la spada aveva rimescolato le braci. Provava un
turbine di emozioni dentro, un miscuglio confuso di esasperazione e timore. Ma
era solo una minuzia! Che barbari selvaggi! Ma che andassero a marcire con i
loro tabù. Però non poteva informarsi prima? Possibile che quella gente fosse
così superstiziosa?
“Sono
stupito, ma io… ma io non lo sapevo! Digli che non volevo offendere nessuno.”
“Mi dia
retta principe, a quello non interessa se lo sapeva o no. L’uomo sta urlando
che lei… anzi, che noi tre siamo degli infedeli, che lei lo ha fatto apposta,
che li disprezziamo, perché noi siamo uomini senza rispetto, siamo romani,
siamo nemici della loro gente. Ha ricordato di quando i romani hanno crocefisso
dei bambini dopo la rivolta di vent’anni fa, adesso sta gridando “abbiamo fatto
male a farli entrare qui dentro, solo con la loro morte potremo purificare il
fuoco.” Che infame. E’ un po’ che lo tenevo d’occhio quello. Mi sa che non
aspettava altro che un pretesto. O dei, e quelle… quelle cosa vogliono?”
“Attenti!”
Un gruppetto
di donne infuriate e urlanti saltarono sul fuoco impuro e lo spensero con
coperte e piedi nudi, incuranti delle braci arroventate. L’azione di
spegnimento era stata talmente rapida e senza preavviso che non ci fu modo di
fermarle. I romani non si mossero di un passo e si limitarono a osservare.
Quando anche l’ultima fiammella fu soffocata, tutte si rituffarono nel folto
del gruppo.
Il buio era
ritornato sul deserto.
Nella luce
della luna i romani videro i pellegrini iniziare ad avvicinarsi minacciosi.
Ancora pochi metri e si sarebbero avventati su di loro. Giungevano da ogni
lato, non c’era via di scampo. I tre si disposero in formazione di difesa,
aspettando in silenzio l'assalto. Anche Seneca aveva estratto deciso la spada.
L’istinto militare era calato su di loro. “Stiamo uniti!” O Lavinia, rischio di non rivederti più. Sono pronto per soffrire? Sono pronto per morire? Quel gruppo di…
di miserabili non avrebbe avuto il sopravvento. Loro erano soldati, avrebbero
versato del sangue. “Vediamo se anche il loro stesso sangue gli fa orrore”
mormorò a se stesso. Vide uno di loro che si chinava a raccogliere un sasso. La
battaglia stava per iniziare.
“NO!!”, si
udì.
Tutti si
voltarono verso il rabbi che aveva parlato. Alla luce della luna la sua tunica
di lana grezza, con la cintura di pelle come unico ornamento, si stagliava
bianca. Rabbi allargò le braccia, con le mani strette a pugni.
Gridò altre
volte, e si rivolse ai suoi confratelli con veemenza. Iniziò a parlare e a
camminare in mezzo a loro, come un leone si aggira in mezzo ad agnelli
immobili. A parte lui nessuno si muoveva e il suo corpo e le parole possedevano
un magnetismo e una fierezza mai provati. Ciò che spesso si dice della potenza
della voce, allora Seneca lo vide. Ognuno era rapito dalla sua passione, dal
suo tono, dal suo viso. Aveva catturato la folla. La teneva in pugno, la
piegava al suo volere. I suoi modi erano diversi dal solito, non ammettevano
repliche, bisognava ascoltare. Anche Seneca, che non capiva nulla della lingua,
ne era affascinato.
Poi il rabbi
cambiò espressione, divenne più gentile. Si mise le mani sul petto e guardò con
intensità tutti. Dalle sue labbra ora pareva uscire del miele che avvolgeva il
cuore, che si scioglieva nell’anima di chi lo ascoltava. Un vento divino
potentissimo, che non si vede e non si tocca ma che circonda ogni cosa. Era un
suono che conquistava come un flauto incantato, aria che scende dalle montagne,
l’acqua che scivola dai tetti. Delle donne si inginocchiarono davanti a lui e
si misero a piangere. Anche gli uomini abbandonarono le loro pose minacciose e voltarono
le spalle ai tre romani. L’incantesimo del rabbi teneva a bada la folla.
Straordinario. Quell’uomo era straordinario, con la sola forza della voce si
faceva ubbidire da chi pochi istanti prima avrebbe voluto trucidarli. La sua
figura al centro della scena sembrava quasi illuminata.
“Principe,
mi aiuti –disse sottovoce Liborio-, cosa sta succedendo? Sento qualcuno che
parla ma non vedo niente, i miei occhi senza luce sono deboli.”
“Non è il
momento, Liborio. Neanch’io capisco molto, ma c’è il rabbi che sta parlando
alla folla. Li sta convincendo a non ammazzarci. O almeno spero. Marcello?”
“Sì
principe, ha ragione. Ha… ha detto… oh, madre mia, scusi…”; Marcello quasi
singhiozzava. Il suo labbro tremava.
“Marcello?
Che succede, anche tu? Controllati, non è il momento di cedere!”
“Sì sì… ha
detto molte cose in aramaico, la nos… la loro lingua. Ripete che nel libro
sacro sta scritto “mia è la vendetta, mia”, ha comandato Dio Padre, e nessuno
può sostituirsi a lui, nessuno. Chi siamo noi solo per pensare di prendere il
posto del Dio dei nostri padri? Adesso sta mormorando che spera di essere
capito, anche da chi prima era pronto ad infliggere sofferenza, e che non
biasima nessuno se anche succederà. Perché noi tutti siamo umani, solo umani, e
siamo per questo vittime della nostra follia, del nostro odio.”
Marcello non
aveva tradotto tutto, era evidente. Non ce la faceva. Era commosso, e
tratteneva a stento le lacrime. Biascicava anche qualcosa nella sua lingua.
Seneca era stupito, perché non l’aveva mai sentito farlo spontaneamente.
Il rabbi ora
additava un pellegrino rimasto ai margini, quello che prima suonava il
tamburello, lo indicava a tutti come fosse una soluzione. Seneca sperò che
fosse così.
“Chi è
quello? –chiese a Marcello- Perché è così importante?”
Marcello si
asciugò occhi e naso, e riprese un tono di voce sicuro. “E’ colui che ha il
compito di accendere il fuoco. Solo creando una nuova fiamma, originata senza
usare le braci di nessun’altra, si potrà superare veramente questa offesa, dice
il rabbi, e sanare il sacrilegio.”
“Forse posso
farlo io –disse Liborio-. Ho con me tutto il neces…”
“Liborio,
stai zitto e fermo, per Cerere. Non capisci che siamo in bilico? Se quel tipo
non vuole o non riesce ad accendere un nuovo fuoco siamo perduti.”
“Con questo
vento gelido non sarà facile. Scappiamo? I cavalli sono vicini.”
“Non ci
arriveremmo mai in tempo. E’ troppo rischioso e siamo solo in tre. Non
provochiamoli. Calma, meglio stare fermi e vedere cosa succede. Poi ci
regoliamo. Marcello, c’è da fidarsi di quello?”
“Non lo so,
non lo so.”
L’uomo
ripose il tamburello ed estrasse tranquillo da una tasca qualcosa. Al buio non
si riusciva a capire bene. I romani guardavano la scena con le spade sguainate.
Accortosi del loro sguardo indagatore, l’uomo voltò le spalle e si nascose alla
vista dei soldati, facendo alcuni gesti misteriosi. Prese della sabbia dal
terreno ed ecco il miracolo. Dalle sue mani nacque subito una vampata e presto
una fiamma viva risplendeva. La folla vide la luce illuminare il buio della notte
e fece un urlo di gioia. Anche Liborio si stupì.
“Ma… ma come
ha fatto così presto e senza legna? E’ forse un mago? E’ bravo come Prometeo.”
“Cattivo
esempio Liborio. Donando il fuoco agli uomini quello è stato punito dagli dei,
ma speriamo che qui nessuno debba soffrire.”
L’uomo, che
aveva la mano destra misteriosamente infiammata, afferrò dei rami secchi con la
sinistra e li accese. In poco tempo un nuovo falò illuminava la scena.
“Spettacolare!
“Ah, siamo
stati fortunati, principe, veramente –disse sollevato Marcello-. Quelle sono
persone speciali. E’ uno zoroastriano. Meno male che in questo gruppo così
piccolo ce n’era uno.”
“Chi
sarebbero? Ribelli? Li conosci?”
“Non bene,
anche perché ne ho visti pochi, ma non sono ribelli. Sono espertissimi nell’arte
del fuoco. Da bambino durante una festa ho visto uno di loro accendere un fuoco
sopra l’acqua del mare. Con un soffio possono attizzare o spegnere una fiamma.
Si dice che riescano anche a mangiare il fuoco, che si nutrano di quello.”
“Ma come
fanno? E che facciamo noi ora?”
6.
Seneca prese
una decisione estrema. “Va bene, adesso appoggiamo le spade a terra e facciamo
un passo indietro. Facciamo capire a tutti che non abbiamo intenzioni ostili.”
Fu il primo a posare la spada e il suo pugnale sulla sabbia, poi indietreggiò
di un passo, come se fosse la cosa più naturale del mondo.
I due
legionari lo guardarono come se fosse impazzito.
“Principe,
senza armi siamo fottuti –disse Liborio-. Io la mia non la lascio.”
“Forza
Liborio, ubbidisci, e fai come me. E senza movimenti bruschi mi raccomando.
Quando ce ne andremo via ce le riprenderemo. Questa gente è spaventata dalle
nostre armi, si sente minacciata. Senza di esse paradossalmente saremo più al
sicuro.”
“Non ne sono
tanto convinto, principe, conosco la mia gente, ma ubbidisco.” Marcello
appoggiò a sua volta la lancia e la spada per terra. Un uomo nel gruppo subito
si accorse dei loro gesti e si avvicinò dapprima timoroso, ma poi vide una
esortazione negli occhi di Seneca e raccattò le armi tra le braccia. Dopo andò
davanti a Liborio, che impugnava ancora la sua. Gli tese la mano e fece segno
di dargli la spada. Liborio sudava.
“No! E’ mia.
Principe, non mi chieda questo. E’ con me da quando avevo quindici anni. Non me
ne sono mai separato.”
“Liborio,
dagliela.”
Liborio
esitava, e più esitava più sudava. Era come paralizzato in un bagno di sudore e
non mollava la sua arma. Era una situazione di stallo. Fu Marcello a parlare
per primo.
“Ho un’idea.
Possiamo fare uno scambio se sono d’accordo. Liborio consegnerà la sua arma se
lo zoroastriano ci rivelerà il segreto del fuoco.”
“Mi pare una
buona idea. Proprio buona. Accetta, Liborio. Dì di sì. Con quel segreto avrai
una vecchiaia garantita e non dovrai più temere nulla. E’ meraviglioso dire sì.
Forza, non so se avremo altre occasioni, poi ce le faremo ridare.”
“Va… va
bene. Ma solo perché me lo comanda lei, principe. Poi la rivoglio subito
indietro, è un disonore troppo grande abbandonare l’arma. Se il centurione
venisse a saperlo…”
“Non lo
saprà nessuno -promise serio Seneca-, hai la mia parola. Marcello, fai la
proposta che avevi detto prima.”
Marcello e
l’uomo confabularono per qualche istante. L’uomo rise e urlò qualcosa allo
zoroastriano, che rispose subito. Marcello tradusse.
“Hanno detto
che va bene, pure loro hanno qualcosa da insegnarci, però Liborio dovrà
mantenere il segreto. In più costui –Marcello indicò l’uomo davanti a loro-
vuole anche il pugnale del principe. Ha il manico d’avorio lavorato, ha l’aria
di essere prezioso e gli piace.”
“Ha l’occhio
da intenditore l’amico. Ma perché prima rideva?”, chiese Seneca.
“Prima si
era messo a ridere perché l’uomo grosso sudava con questo freddo e non capiva
di cosa avesse paura.”
Seneca e
l’uomo si guardarono negli occhi. Agli ebrei era vietato possedere armi, solo i
romani potevano. Se il romano accettava lo scambio sarebbe diventato suo
complice. Ma se rifiutava…
“D’accordo,
restiamo d’accordo così allora –concluse perentorio Seneca-. Mi spiace per il
coltello, è un regalo di mia zia, ma mi sembrano gente di parola e ci ridaranno
le armi quando ce ne andiamo. Liborio, tocca a te, dagli la tua.”
Liborio
baciò la spada e a malincuore la consegnò a lui. Strana visione, un omone che
affidava la sua arma ad un omino molto più basso.
“Trattala
bene, giudeo. Ha visto posti che tu non vedrai mai. L’ho estratta sempre per un
motivo valido e rinfoderata ogni volta con onore. Me la riprenderò e se me lo
impedirai ti ucciderò.”
Con un
inchino e un risolino beffardo l’uomo gli prese la spada e la mise nel fascio
tra le altre, intascandosi rapido il pugnale di Seneca. Poi portò le armi sopra
il vecchio fuoco spento, e ridendo le seppellì sotto le braci che fumavano
ancora, aiutandosi con un grosso ramo.
“Dice che
così questa notte non le useremo.”
“Ah. Forse è
meglio, si vede che era destino. Meno male, avevo temuto il peggio. Liborio,
vai a prendere la tua parte dell’accordo. Marcello per favore, accompagnalo e
aiutalo.”
Mentre
Liborio e Marcello si stavano già incamminando, a Seneca venne in mente una
cosa: “Ah… Marcello! Marcello! Scusa, vieni un attimo qui. Devo dirti una
cosa.”
Lo
spilungone si arrestò e tornò indietro. “Mi dica principe.”
Seneca era
imbarazzato e cercava dentro di sé le parole giuste: “volevo ringraziarti per
prima, quando hai posato le armi per terra dopo di me. Se non era per te
Liborio non si convinceva. E anche rassicurarti, abbiamo fatto la cosa giusta.”
“Sì, lo
penso anch’io. Sono rimasto colpito quando non siamo fuggiti, lei ha dimostrato
un grande coraggio principe, un sangue freddo eccezionale. A me tremano ancora
le gambe. E’ vero poi che questa gente era spaventata dalle nostre armi. Averle
eliminate è stato un altro buon colpo. Io me l’ero vista brutta. Lei diventerà
un grande stratega, principe, me lo sento, la sua fama sarà duratura.”
“Ti
ringrazio ancora, ma la verità è che tu li conosci meglio di chiunque altro.
Sei un buon elemento Marcello, di valore.”
”Grazie
principe.”
“Senti, ma è
vera quella storia che la tua famiglia è stata cacciata dal paese? Mi
dispiace.”
“Sì,
purtroppo sì. Ho dovuto pure cambiare nome, io prima mi chiamavo Omar, poi il
centurione ha iniziato a chiamarmi Marcello, e così è rimasto.”
“Ah, una
nuova vita. Bene, adesso vai che Liborio ti sta aspettando. E ancora grazie.”
“Di niente.
A dopo principe!”
Seneca vide Marcello
raggiungere di corsa Liborio (Marcello non camminava, correva sempre), e
insieme si diressero verso l’uomo del fuoco, chiacchierando tra di loro.
Speriamo che stiano zitti loro col centurione.
Quante
emozioni stanotte. Aveva provato una fitta al cuore ascoltando il soldato. Non
era stato certo coraggio il suo. A lui non l’aveva detto, ma con se stesso non
poteva mentire. Perché prima non aveva accettato di scappare? A dirlo sembrava
quasi ridicolo, ma il fatto è che Seneca non aveva la minima idea di dove
fossero in quel momento. Toccava a lui essere informato, ma non avrebbe saputo
indicare in che punto del deserto si trovavano, nemmeno con davanti le
dettagliatissime mappe militari del Decurione.
Era Manlio a
sapere tutto, era stato lui a decidere la via e il percorso, e soltanto lui
conosceva i punti di riferimento. Seneca, che stamattina non pensava ad altro
che a Lavinia, non si era informato minimamente sul tragitto. E avrebbe dovuto.
Che stolto! Era proprio rimbecillito. Il giovane si rimproverò per la sua
imprudenza e rimpianse di essersi distratto tal punto. Anche se fossero
riusciti a fuggire, dove andare?
Un problema
alla volta però. Erano usciti dai guai, alle armi e alla posizione penseremo
dopo. Se uno sbaglia, almeno abbia la saggezza di imparare dal suo errore.
Errore pagato caro poi: gli dispiacque per il coltello della zia, era di ottimo
acciaio, non perdeva mai il filo e solo il manico era splendido. Va bene, non
ci pensare più, aveva ottenuto la sua vita in cambio. Un buon prezzo. Con la
zia avrebbe inventato una scusa.
Seneca si
guardò in giro. Gli altri pellegrini, dopo aver pregato a voce alta tenendosi
per mano, stavano montando delle tende vicino al nuovo fuoco, che non
alimentato si stava già affievolendo. Erano ripari rudimentali sotto cui
riposare più che tende, ma si vede che a loro bastavano. Se non ci fossero
stati loro tre probabilmente erano già a dormire. Molti erano già avvolti nelle
coperte. La tensione di poco prima si era magicamente dissolta.
Seneca non
sapeva bene cosa fare. Si allontanò per andare a pisciare e mentre faceva acqua
sulla sabbia notò i loro cavalli che stavano brucando un cespuglio lì vicino.
Meglio prepararli, era tempo di andarsene. Ma sì, niente paura, pensò
ricomponendosi, tanto adesso con calma potevano anche chiedere informazioni e
ritrovare insieme la strada. Notò anche il rabbi in disparte e si diresse verso
di lui per ringraziarlo. Avevano rischiato grosso prima, meno male che era
intervenuto. Manlio aveva ragione, aveva sottovalutato il pericolo restando
qua. Questa notte però Seneca si rese conto che era passato attraverso i rischi
come un predestinato. Forse i suoi antenati l’avevano protetto con uno scudo
invisibile e magico. Tornato a casa avrebbe ordinato un grande sacrificio.
La moglie e
il rabbi erano seduti uno in fronte all’altra, ungendosi i capelli a vicenda
come protezione dal freddo. Intanto parlottavano tra di loro. Seneca, quel
giorno sensibile all’amore, rimase a distanza per non turbare l’intimità di
quella scena, ma il rabbi gli sorrise e gli fece cenno di avvicinarsi. Appena
fu abbastanza vicino, Seneca si piegò sulle ginocchia, sedendosi sui talloni, e
gli parlò.
“Tra poco ce
ne andiamo, ma volevo dirti grazie per prima. Ho un debito verso di te.”
Rabbi
continuò a pettinare i capelli della compagna. “Ho esitato a lungo prima di
intervenire, perché non è bene che i figli di Israele vengano disonorati.”
“Hai fatto
bene, domani i miei commilitoni ci avrebbero vendicato. Ma volevo dirti che è
stato tutto un equivoco, non era mia intenzione offendere. Lo giuro su mia
madre.”
Rabbi lo
scrutò, smettendo per un attimo di ungere i capelli della moglie. “Non giurare,
per favore. Se sei sincero non c’è bisogno di giurare. Comunque l’avevo
pensato. Il mio cuore ora è più leggero.”
La moglie
del rabbi gli toccò la veste e gli sussurrò qualcosa all’orecchio. “Vai a
riposarti? –le disse il rabbi-. Fai bene, io starò ancora un poco con costui.”
Il rabbi la baciò teneramente sulla bocca.
Seneca
abbassò gli occhi, imbarazzato da quelle effusioni pubbliche. Che scandalo. A
Roma il bacio era un gesto privato, da consentire solo tra le mura domestiche.
“Perché ti
scandalizzi? Non amo nessuno come lei. Se Dio è un pittore, ha usato con lei le
tinte più delicate. Quando una formica le cammina sulla pelle, lascia il
segno.” Il rabbi le prese una mano e gliela carezzava mentre lei si alzava per
andare nel suo giaciglio.
“E’ misero
un corpo che dipende da un corpo”, disse Lucio.
“Quanta
severità. Ancora più misero è un corpo che non conosce un altro corpo. Non
giudicare, per favore, le nostre usanze con le tue misure. Tutti i rabbi sono
sposati. Hai l’aspetto di una persona sapiente e certo hai molto letto e
girato, ma ti sarai accorto che ovunque i fiori splendono più belli di noi.
Abbiamo tutti bisogno d’amore per splendere. E del riposo donato dagli angeli.
La mia compagna ha avuto una vita dura che l’ha provata e oggi è stata una
giornata estenuante. Giusto che vada a riposarsi.”
Seneca le
diede la buonanotte: “Optime iace et bona
somnia”. La donna rispose qualcosa e si avviò verso il gruppo vicino al
fuoco, ora smorzato.
Gli occhi
del rabbi la seguirono amorosi. Seneca si ricordò di una massima che aveva
ascoltato anni prima e disse sottovoce: “un vero uomo non ha bisogno di una
donna.” Era un poco deluso con il rabbi, ma voleva essere comprensivo.
Rabbi lo
sentì e lo guardò stupito. “Veramente la pensi così? Mi dispiace.”
Seneca si
spiegò meglio: “nella nostra società la donna, essendo debole, ha sempre
bisogno di un uomo che la protegga, ma un uomo è considerato tale solo se può
fare a meno di una donna. Un uomo che sappia rinunciare all’amore fisico e
resistere ai desideri della carne è molto stimato per questo.”
“Che strana
gente che siete –rabbi scosse la testa-. Dobbiamo proprio parlare, conoscerci
meglio. Tu prima hai parlato di tuo padre, ora ti racconterò del mio. O dei
miei, per essere più preciso.”
Rabbi era
tranquillo e aveva voglia di chiacchierare con lui, un coetaneo, ed era
evidente che gli spiaceva che Seneca se ne andasse proprio adesso. “Vuoi
ascoltare la mia storia prima di andartene? Però bisognerà partire da lontano,
come questo vento.”
Curioso come
tutti i giovani, Seneca acconsentì di buon grado. “Certo, mi interessa. Ogni
incontro è bello, diceva il mio maestro.”
Rabbi si
mise con calma a raccontare la sua vita, e Seneca dopo essersi avvolto con una
coperta si mise ad ascoltarlo con piacere. La fretta di prima poco a poco lo
abbandonò. Perché no? Erano loro due soli e Marcello e Liborio erano occupati
altrove. Non c’erano nubi nel cielo, il fuoco era spento e presto gli occhi si
erano adattati alla luce fioca delle braci. Pace.
7.
“Le mie
origini sono alquanto singolari e le tue storie, così piene di particolari
fantastici, me le hanno riportate in mente. Il mio primo padre era il sommo
sacerdote del tempio, ma io non l’ho mai conosciuto, anche se tutti mi dicono
sempre che nello spirito ci assomiglio. Quando da bambino accennavo al fatto
che ero figlio suo vedevo gli occhi dei miei interlocutori illuminarsi e
commuoversi e dopo esprimere un commento benevolo. Doveva essere stato
veramente un uomo buono e giusto, con una conoscenza dei testi sacri notevole,
mi sono fatto questa idea. Mia madre invece viveva il quel luogo sacro, il
tempio, sin da quando aveva tre anni.”
“Ma… tre anni?
Vuoi dire che era stata ordinata sacerdotessa a quell’età? Non sapevo che tra i
giudei anche le donne potessero diventare sacerdoti.”
“Non ancora.
Ma forse mi sono spiegato troppo in fretta. Dio nella sua infinita saggezza
provvide che mia madre abitasse, dalla sua più tenera infanzia sino a quando
fiorì come donna, all’interno del tempio in cui mio padre regolava le
cerimonie. Era una delle pochissime donne ammesse alla parte centrale del
tempio e, date le circostanze, loro due non potevano non conoscersi -Rabbi
sorrise-. Anche questa coincidenza risuona dentro il mio cuore, diventa un
legame inevitabile.”
“A Roma si
può trovare un simile istituto, quello delle Vergini Vestali, ma non ho mai
sentito di bambine entrate così piccole nelle pratiche religiose. Praticamente
doveva essere stata appena svezzata.”
“Ma c’è un
motivo, trattieni il tuo stupore. I miei nonni avevano ricevuto questa bambina
molto tardi, dopo molte preghiere e quando ormai non ci speravano più. Per cui
appena nata, nell’entusiasmo di questo felice evento era stata promessa come
ricompensa al nostro signore Iddio. "Mai smorzare gli entusiasmi”, si
raccomandava mio nonno. Nonno, caro nonno. Così mia madre quando compì tre anni
entrò nel tempio e ben presto imparò a servire i sacerdoti. Era devota, gentile
e candida come una colomba. Per farla breve, tali erano le sue virtù e la sua
bellezza che appena divenne donna il sommo sacerdote, malgrado fosse sposato,
si innamorò perdutamente di lei.”
“Ma era
possibile?”
Rabbi rise.
“Che importa? L’amore vince ogni cosa, e forse tu ne sai qualcosa.”
Seneca
arrossì al buio.
“Rimase
incinta ma, come ti ho detto, quel sommo sacerdote era un uomo giusto, un vero
credente. Si preoccupò che avesse una vera famiglia e non fosse additata dalle
maldicenze né vivesse in povertà. Per evitare quindi ogni chiacchiera e
insolenza, venne data in sposa ad un uomo anziano, il falegname del paese, da
poco rimasto vedovo e con ancora dei figli piccoli. Mia madre accettò di buon
grado di trasferirsi dal tempio e venne nella sua casa, e solo Dio sa cosa
provava nel cuore nel lasciare quelle mura dove aveva sempre vissuto. Arrivata
nella nuova casa, trovò in una stanza il figlio più piccolo del falegname
piangente, con il cuore spezzato per via della recente scomparsa della madre.
Lo consolò tra le sue braccia e il bambino si affezionò per sempre a lei. Il
falegname, all’inizio riluttante ad accoglierla…”
“Come mai?”
“Sai, mia
madre all’epoca era molto giovane e lui già avanti con l’età. Aveva figli
addirittura più vecchi di lei e inoltre gli garbava poco che questa moglie gli
fosse stata imposta già incinta, ma quando la vide consolare il figlioletto fu
commosso dalla sua grazia e la accolse con affetto. Era un uomo semplice ma dai
sentimenti profondi. E ciò fu un bene
per mia madre e per il figlio nel suo grembo, che ero io, perché il sommo
sacerdote morì poco dopo. Una morte violenta.”
Seneca
sorrise amaramente: “come mai sono addolorato ma non stupito? Questa è una
terra tormentata, che non conosce ancora la pace. Ho girato il mondo, ma non ho
mai visto un popolo così litigioso. Sai, se posso chiedertelo, come è
successo?”
“Il
sacerdote venne ucciso dai sicari del re, per via di una profezia.”
“Una
profezia? Si può uccidere un uomo per una profezia?”
“Fu mia
madre un giorno a raccontarmi tutto. In quei giorni apparve nel cielo una
stella cometa e secondo il nostro libro era il segnale che un futuro re sarebbe
nato proprio allora. Il re in vigore la conosceva bene e dato che dopo di lui
voleva insediare il figlio, cercava in ogni modo di prevenirla, massacrando
tutti i nati in quel periodo. Il sommo sacerdote aveva già nascosto la sua
legittima moglie e suo figlio in un posto sicuro, ma il re, avendo saputo che
anche con mia madre aveva avuto un figlio, mandò qualcuno ad interrogarlo su
dove fosse. Gli emissari del re volevano farlo confessare, ma lui rifiutò di
rivelare alcunché, forte anche della sua condizione di prestigio. Appena gli
scagnozzi se ne andarono inviò un messaggio a mia madre e al suo vecchio
marito. Dovevano scappare subito. Subito. Io stesso nacqui nel tragitto, mentre
stavano fuggendo. Per questo motivo siamo rimasti in Egitto per qualche anno,
sino a quando il vecchio re è morto e il figlio si è insediato al suo posto.”
“A quanto
pare, l’Egitto a entrambi ha salvato la vita.”
“Così pare.
Così pare.”
“La profezia
era fasulla, allora.”
“Io non ne
sarei così sicuro. Questi tempi confusi non sono ancora finiti e nessuno
conosce i piani di Dio. Forse un nuovo re sta già arrivando.”
Il vento
freddo soffiava forte e una raffica violenta colpì le braci. Scintille volarono
in tutte le direzioni. Loro due si coprirono meglio, Seneca notò che tra le
frange della tunica del rabbi erano intrecciati del fili color porpora, o forse
erano solo scuri. Non c’era luce sufficiente a distinguere i colori. Il rabbi
continuò.
“Il giorno
dopo la nostra fuga i sicari del re tornarono per interrogarlo nuovamente e con
maggior durezza. Lui si rifiutò ancora di confessare e, sommo sacrilegio, venne
ucciso nel tempio. E’ morto per me. E’ morto per difendermi. Non so nemmeno
dove lo hanno seppellito ed è passato tanto, tanto tempo.” Rabbi chinò il capo.
“E’ molto che non ci pensavo. Prego per un uomo che non ho mai conosciuto. Non
l’ho mai conosciuto. Non lo conoscerò mai.”
Restò in silenzio.
Poi Seneca udì che si era messo a piangere.
Seneca gli
mise una mano sulla spalla. “Coraggio, fatti coraggio.” Non erano più un romano
e un giudeo adesso, ma due ragazzi a cui era mancato il padre, e che non
trovavano le parole. Un insettino zampettava sulla sabbia e aveva quasi
raggiunto i sandali del rabbi.
Rabbi rialzò
gli occhi umidi. Ripercorrere l’assassinio del padre l’aveva turbato, ma ora il
suo sguardo era diventato duro.
“Ma verrà
vendicato. I suoi assassini non la passeranno liscia. Lunghi tormenti e il buio
eterno li attendono per la profanazione di aver versato sangue innocente in un
luogo sacro. E la vendetta per avere ucciso un uomo di Dio li aspetta nel
giorno del giudizio. E sarà implacabile.”
“Sai come si
chiamava tuo padre, questo sommo sacerdote?”
“Sì, si
chiamava Zaccaria, che nella nostra lingua significa Colui che si ricorda di Dio. E veramente il ricordo è l’essenza
della nostra anima, del nostro spirito. Ricordare vuol dire capire,
comprendere, vivere pienamente. Anche le cose ricordano mio padre: nel tempio
una lastra di pietra si è impregnata del suo sangue ed è diventata sanguigna.
Malgrado sia stata lavata più volte il colore non se ne va. E non se ne andrà,
io dico in verità.”
“Ma perché
hai parlato di due padri?”
“Perché sono
cresciuto con il falegname, che mi trattò sempre con amore, come se fossi
veramente suo figlio. E lui era veramente mio padre, e l’ho amato e rispettato
e ho subito i suoi rimproveri, perché erano giusti e affettuosi. Aveva avuto
altri figli prima di me e sapeva come si trattano i bambini. E dell’affetto di
cui hanno bisogno per crescere.”
“Ma tu lo
sapevi che non era tuo padre?”
“Certo. E da
lui ho imparato una cosa importantissima, di amare e provare affetto anche per
chi non è come te. Volere bene anche ad un bambino che non è il tuo, non è
sangue del tuo sangue, come mia madre del resto aveva fatto con suo figlio. E
se ci pensi bene non è cosa da poco. Dare da mangiare a tutti, anche a chi non
conosci. Perché se vogliamo bene e nutriamo solo chi ci ama, che merito ne
abbiamo? Tutti sono capaci di questo. Ma provare affetto anche per chi non hai
mai visto prima, questo avvicina alla santità.”
“Forse hai
ragione, ma è difficile in questo mondo.”
“Il mondo
può cambiare, alzati e cambia il mondo.”
Seneca
annuì. Era proprio un uomo vicino agli dei. Che coraggio aveva. Voleva ancora
sentire come continuava la sua storia. “E poi? Sei stato un piccolo falegname
anche tu, immagino.”
“Lo aiutavo
nel suo mestiere, a fabbricare porte e mobili. E poi giravo per le strade
polverose del paese portandoli sulle spalle per la consegna. Conosco ogni casa
di quel paese. Ancora oggi ti saprei costruire un tavolo senza usare un chiodo.
Spesso anzi devo dire che sopperivo alle mancanze di mio padre. Era un
brav’uomo, ma nel suo mestiere di carpentiere non molto capace –rabbi sorrise-.
Mi reputava quasi un mago quando lo aiutavo, anche se poi non facevo nulla di
eccezionale, però mi faceva comodo farglielo credere. Non possedeva abilità
particolari, e i suoi letti erano tutti sgangherati!” Rabbi rise, e Seneca con
lui, lieto che fosse passato il momento di tristezza. Aveva dei denti
bianchissimi.
“Comunque
–continuò il rabbi- non scordavo di avere nelle vene la passione per i testi
sacri e lo studio. Avevo imparato a leggere molto presto. Quando tornammo
dall’Egitto partecipavo sempre alle riunioni del sabato nel tempio. Mi
emozionava entrare in quei posti dove il mio primo padre aveva vissuto e amato
mia madre. Mi sembrava di entrare veramente in un luogo sacro, diverso da tutti
gli altri.”
“E’ così che
sei diventato rabbi?”
“No no
–rabbi sorrise-, la strada per diventare rabbi è lunga. Un sacerdote, che
conosceva la mia storia e intuiva le mie potenzialità, convinse i miei genitori
a lasciarmi andare in una scuola lontana da casa. All’età di tredici anni, dopo
un lungo viaggio, entrai in un monastero tra le montagne. Fortuna che ero già
abituato a viaggiare, così non mi sentii troppo spaesato. In ogni caso non ero
solo, sai chi c’era con me?”
“Non ne ho
idea. Chi?”
“Quel figlio
che Zaccaria aveva avuto dalla moglie legittima, e che era vissuto anche lui
nascosto per qualche anno. Pochi mesi di vita ci separavano, avevamo in comune
un padre e la passione per lo studio. Presto diventammo grandi amici, facendo a
gara nella conoscenza delle regole e dei libri della legge. Ho passato anni
sereni, studiando e crescendo. Era una scuola severa, ma come figli di Zaccaria
eravamo trattati con riguardo e potevamo accedere anche a zone e libri di
solito non accessibili. Presto giungemmo ad una tale conoscenza delle sacre
scritture e delle loro cerimonie che fummo proclamati rabbi. Anzi, se i tuoi
superiori vogliono sapere dove ci stiamo dirigendo, stiamo andando a trovare
quel mio fratello.”
Davanti a
tanta trasparenza Seneca fu quasi commosso. Ma voleva ancora sapere. “Senti,
visto che ne hai parlato, per curiosità che cosa hai imparato? Forse qualche
materia l’ho studiata pure io.”
“Ah, molte
cose, i nostri maestri erano acuti e la loro conoscenza del mondo penetrante.
Tu prima hai citato i tuoi, ma anche con loro, pur non essendo famosi, ci siamo
abbeverati al sapere. Imparammo a guarire i mali del corpo, a cacciare i demoni
e a parlare con franchezza. Apprendemmo i principali esorcismi, a sopportare il
digiuno e studiammo la legge e la nostra storia. Tante cose, insomma. Quando si
cammina nel deserto della vita, un bicchiere d’acqua vale più di mille tesori e
per noi loro erano una fonte inesauribile.”
“No
–rifletté Seneca-, non penso di avere mai approfondito gli argomenti che hai
citato. Il mare della conoscenza è troppo vasto. Ma quando parli di acqua a
cosa ti riferisci? E’ un bene raro da queste parti.”
“La nostra
scuola era situata dentro un monastero antichissimo, scavato nella roccia e
pieno di grotte. E’ situato in un luogo quasi inaccessibile, anche se volessi
non potrei dirti dove si trova. Magari un giorno verrà scoperto, ma immagino
non tanto presto, quei monaci sono dei veri eremiti. Ti posso dire che era
disseminato di vasche di pietra, in modo da raccogliere e conservare l’acqua
piovana. Dio, ciò che immerge lo immerge nell’acqua, ma ci sarà acqua solo se
Lui lo vorrà.”
“Cosa?
Scusa, non ho capito.”
“E’ una
frase che ripetevano sempre i maestri. Però ora, a pensarci bene, è meglio che
nella mia descrizione non vada oltre. Ci sono dei misteri che richiedono
preparazione. Tanto più che, appena ordinato rabbi, dovetti abbandonare quel
luogo sacro e ritornare a casa.”
“Come mai?”
“Anche mio
padre era anziano, come il tuo. Stava ormai morendo, e aveva chiesto di vedermi
un’ultima volta. Era gravemente malato, come mai lo era stato dal giorno della
sua nascita. L’oro iniziò a perdere il suo magnifico splendore e l’argento ad
essere sciupato dall’uso, mi riferisco alla sua conoscenza e al suo intelletto.
Cibo e bevande gli davano fastidio, e quando entrai nella sua camera lo vidi
terribilmente agitato. Ma quel vecchio benedetto mi riconobbe e si rasserenò,
anche se non aveva più la forza per parlarmi ed emetteva molti sospiri. Verso
la fine si mise a vaneggiare e tenni le sue mani per tutto il tempo, recitando
le preghiere, sino a quando passò alla pace perpetua. Che tu sia benedetto nei
secoli, padre mio.”
Il silenzio
e la solitudine regnavano sul deserto. Se non fosse stato per il lontano e
quasi indistinto gruppetto con Liborio e Marcello, sembrava che i due giovani
fossero le uniche anime al mondo. Il buio oltre l’accampamento era totale.
“Dopo, ho
chiuso i suoi occhi e la sua bocca. Chiamai i miei fratelli e dissi loro di
preparare il sudario. Mi venne allora in mente il giorno in cui andò con me in
Egitto e i grandissimi disagi sostenuti per causa mia, e piansi per lungo
tempo. Quando si addormentò era molto vecchio, ma non gli aveva mai fatto male
un dente, né si era incurvata la sua persona. Esercitò anzi il suo mestiere di
falegname sino all’ultimo.”
“Purtroppo
la morte non ha pietà di alcuno.”
Rabbi
sospirò. “Non è così semplice, romano. Per noi chi è pagano non muore.”
Seneca
rimase come folgorato da quella stranezza. “Cosa stai dicendo? Noi siamo uomini
come tutti gli altri, fatti di carne e sangue. Non ti capisco.“
“Per
noialtri la vita, la vera vita, è data dalla conoscenza di Dio. Chi non lo
conosce non ha mai vissuto veramente, e dato che egli non è mai vissuto non può
morire. Solo colui che ha creduto nella Verità ha trovato la vita, e quest’uomo
può correre il pericolo di morire, poiché è vivo.”
“Ti sbagli.
Noi viviamo e il tempo ha su di noi gli stessi diritti che ha su ogni essere
vivente.”
“Sei così
sicuro di essere vivo, romano? Che stai vivendo la tua vita? Per noi, voi siete
simili ad un mulo bendato che girava una macina e che fece cento miglia,
camminando e camminando. Quando fu slegato e gli fu tolta la benda, si stupì
nel trovarsi ancora nello stesso posto. Ci sono uomini, come i pagani, che
camminano molto e non avanzano affatto. Credono di vivere, ma stanno solamente
girando su se stessi.”
“E come si
fa, come dici tu, a vivere veramente?”
La voce di
rabbi esitò un attimo. “Anche tu cerchi la verità e la vita, e ti voglio bene
per questo. Simile ad un ubriaco che va alla ricerca della sua casa,
confusamente consapevole di averla. Sinora l’hai cercata nel mondo, ma seguire
la gloria del mondo è come dissetarsi bevendo acqua marina, prima o poi ti
ucciderà. Eppure riuscirai a vedere l’invisibile se lo vuoi… aspetta…”
Rabbi
esitava. Seneca aveva intuito che il rabbi pensava a qualcosa, ma era titubante
se farlo o meno. Poi ruppe gli indugi.
“E’ proprio
vero –continuò più deciso-, quando si va a pescare nessuno sa cosa riuscirà a
prendere quel giorno. Chi è certo al mattino di cosa accadrà la sera? Non avrei
mai immaginato che stanotte avrei parlato di questi argomenti con un romano. Ma
imperscrutabili sono i piani di Dio.”
Rabbi
estrasse da una tasca un piccolo pezzo di pane e glielo mostrò alla luce della
luna. “E’ il pane che è stato dato a tutti. Io l’ho tenuto perché pensavo di
consumarlo dopo. Ma quale occasione migliore che dividerlo con te adesso?”
Seneca frugò
a sua volta nella sua bisaccia. “Anch’io allora ho qualcosa. Ho con me un po’
di vino, però è poco. Il recipiente è quasi vuoto.”
“Non ha
importanza. Mangiamo e beviamo insieme, romano.”
Rabbi
dapprima lo benedisse, poi addentò un boccone del suo pane secco e diede il
resto a Seneca, che prima aveva bevuto un sorso. Poi, mentre prendeva il pane
dalle sue mani, Seneca consegnò il piccolo otre al rabbi perché lo finisse.
Consumarono il loro piccolo pasto in silenzio. Il romano sentiva confusamente
che per il rabbi era un momento importante, da non guastare con parole vane.
Rabbi mormorava delle preghiere nella sua lingua, poi guardò Seneca e gli
disse: “ogni volta che berrai del vino e mangerai del pane ricordati di me.
Perché non ci rivedremo presto, e solo il ricordo ci unirà.”
Il vento ora
si era calmato. “Come vuoi, me ne ricorderò. Hai ragione comunque, mangiare
insieme ha un significato che va oltre il semplice nutrirsi.”
“E
condividere lo stesso cibo ancora di più. Questa è una delle cerimonie
insegnate nel monastero. Con il cibo in comune diventiamo uno. E lo facciamo
attraverso una cosa morta, che entra in noi e diventa viva. Che grande mistero,
fare parte del mondo.”
“Sì, un
mistero.”
“Guarda,
stanno ritornando i tuoi compagni.”
Seneca girò
la testa e vide Marcello e Liborio venire verso di loro. Anche a distanza, si
notava che il grosso Liborio era felicissimo ed eccitato. Teneva in mano
qualcosa con grande cura, e la guardava estasiato.
“Principe!
Principe –disse appena fu a portata di voce-, guardi! Guardi cosa mi hanno
dato!”
Si
inginocchiò davanti a lui e aprì le mani. Seneca intravide un ammasso di peli,
una sorta di gomitolo selvatico dal colore chiaro.
“Che roba
è?”
“E’ il loro
segreto! Con questa lanina si può accendere il fuoco anche sotto la neve. E’
straordinaria! Cresce sotto la pancia di certe loro capre, fine fine ma molto
grassa, unta al punto giusto. Quel tipo mi ha dato quasi tutta quella che
aveva. Ha spiegato che i pastori la mettono in budelli impermeabili alla
pioggia per conservarli, e così farò io.”
“E’ così
particolare? A me non sembra nulla di speciale.”
“E invece
questa è una lanetta che non si trova da nessun’altra parte, principe, le
assicuro. Con un ciuffetto di questa peluria accendere il fuoco diventa uno
scherzo, bastano due colpi con l’acciarino, non di più. Si può anche sfregarla
con della sabbia secca, come aveva fatto prima quell’uomo. E brucia a lungo, ci
mette molto a consumarsi. Il dio Vulcano ama gli uomini e l’ha portata nel
mondo.”
“Non l’ho
mai vista nemmeno io –disse Marcello-, deve essere davvero rara. E preziosa.
Ma, Liborio, non dovevi mantenere il segreto?”
“Guardi,
guardi quanta me ne hanno data! E’ la cosa più preziosa che ho. Devo trovare
una saccoccia impermeabile, subito. Aveva ragione principe, la mia vecchiaia
ora è assicurata. Con l’aiuto di quella lanina diventerò un mago! Verranno
tutti da Liborio e si stupiranno!”
Tutti si
misero a ridere all’idea. Anche uno dei cavalli nitrì.
Liborio alzò
la testa. “Cosa succede? Perché i cavalli sono nervosi?”
La morte
arrivò silenziosa.
8.
Ci fu un
rumore duro e Liborio cadde pesante in braccio a Seneca, che lo afferrò
istintivamente. Un fiotto caldo uscì dalla testa del legionario e lo inondò,
bagnandogli la tunica chiara. Seneca alla poca luce non capiva. Poi guardò
meglio e con stupore scorse una freccia penetrata nell’occhio destro di
Liborio. L’aveva perforato da una parte all’altra del cranio. Il grosso
legionario era morto sul colpo, con un grido strozzato. Un’altra freccia
sibilante gli trapassò la gamba. Seneca continuava a tenerlo immobile tra le
braccia, il corpo pesantissimo, inzuppato dal suo sangue. Sentiva rapido
crescere in lui l’orrore e improvvisamente ritrovò la voce.
“Aiutatemi!
Datemi una mano! Sta sanguinando!”
Ma nessuno
lo aiutava. Tutti si erano alzati in piedi, con gli occhi fissi nel buio.
Marcello aveva gli occhi sgranati dal terrore. Rumori sempre più nervosi, come
tante ali che sbattono al vento. Stava arrivando una moltitudine al galoppo, li
stavano caricando e non si vedeva nulla!
Pieno di
spavento, Seneca vide il buio intorno a lui muoversi, e cavalieri urlanti
sbucare con le spade puntate verso di loro. Grida selvagge nella notte.
Sconosciuti a cavallo li circondarono prima che avessero il tempo di muoversi.
I latrones! Si intuivano riflessi di
spade lunghe, mazze agitate, archi e vestiti neri, neri. Facce cattive.
“Bisogna combattere, presto! Organizzare una difesa”. Bisognava opporsi in
qualche modo! Seneca lasciò cadere il corpo di Liborio e portò la mano al suo
fianco. Nulla! Trovò il vuoto.
Le spade!
Maledizione! Si sentì perduto e le parole di prima morirono in gola. Era sicuro
che entro pochi istanti sarebbe morto. Seneca si preparò a lasciare il mondo.
Il gruppo di
predoni circondò tutti i pellegrini, ammassati intorno alle braci spente. Molti
si erano alzati in piedi sotto le tende ma restavano fermi, come uccellini
paralizzati davanti ai serpenti. L’unico che cercava di fuggire venne inseguito
da un predone a cavallo, che lo raggiunse e tra le grida di incitamento degli
altri con un fendente terribile quasi gli tagliò la testa. Il pellegrino morì
con grandissimo strepito, stramazzando sulla sabbia. Pieni di paura tutti si
stringevano stretti l’uno all’altro, spaventatissimi. Quando la tensione
raggiunse il culmine comparve lento dal buio il capo dei briganti.
Era l’unico
del gruppo a non urlare, e con un gesto zittì tutti quanti. Con uno sguardo
compiaciuto dominò la situazione. Montava un cavallo nero e dava ordini secchi.
Si capiva subito che il capo era lui. Avanzava lento verso di loro. Arrivò
talmente vicino che quasi Seneca avrebbe potuto toccare i finimenti del suo cavallo.
Improvvisamente lo stallone si bloccò. Il capo aveva intravisto Seneca e
Marcello e si era fermato, squadrandoli.
“Guarda
guarda. Soldati romani. Ecco di chi sono i cavalli. Legateli!”
Nel giro di
pochi secondi Seneca e Marcello furono legati insieme da nodi dolorosi, schiena
contro schiena. Erano prigionieri. Malgrado la loro altezza così diversa una
corda univa i loro colli, e Seneca quando la strinsero si sentì quasi
impiccato. Anche le funi sul corpo erano legate così strette che quasi non si
poteva respirare.
Il capo
scese da cavallo e dopo aver dato sprezzante un calcio al cadavere di Liborio
si diresse verso di loro. Seneca lo percepiva con la coda dell’occhio. Stava
arrivando l’inferno, era questa la morte? Qualcuno colpì forte i due soldati all’altezza
delle ginocchia. Caddero insieme. Ci furono altri colpi e rotolarono sulla
sabbia per un paio di giri. I briganti ridevano. Il ginocchio non si era rotto
ma il dolore era crudele. Seneca ora vedeva il capo dal basso. La mancanza di
aria lo faceva quasi svenire, ma con suo stupore malgrado tutto restava vigile.
Perché non svengo? Non voglio vedere più.
Perché non svengo?
“Tu… tu che
sei senza armatura. Tu bel biondino. Tu mi sembri un nobile. La tua faccia non
mi è nuova. Dov’è che ti ho visto? Forse l’anno scorso sul palco delle
autorità, mentre impiccavano mio fratello eh… Eri tu? Eri tu?” Gridò ad uno con
una torcia che si avvicinasse. Quando la luce arrivò lo scrutò a lungo.
Seneca non
parlava. Avrebbe voluto scomparire nel nulla quando il predone estrasse la
spada dal fodero, la paura fu più forte del dolore. Temeva gli avrebbe tagliato
la testa. La sabbia sulle labbra lo fece tossire, ma per le corde strette ebbe
un conato dolorosissimo. Si contorse sul terreno. Il capo per bloccarlo gli appoggiò
la spada aguzza sulla guancia. Poi iniziò a roteare la punta lentamente,
bucandogli la pelle. Il sangue iniziò a colare e si mescolava al terriccio.
Seneca si impose di non gemere, voleva comportarsi con onore in quegli ultimi
momenti, però chiuse gli occhi.
“Eri tu? Sì…
sì… tu sei un nobile… grandi soldi chiederò. Grandi soldi. Con questa notte
guadagneremo un grande tesoro. Cercavamo nuovi schiavi, abbiamo trovato una
fortuna. I vostri compagni vi hanno abbandonato qui eh? O siete disertori? Chi
siete, per il demonio? Chi siete?” Il capo appesantì la pressione della spada e
la punta gli trapassò la guancia, tagliandogli le gengive. Seneca non poté fare
a meno di emettere un grugnito. Che
dolore. Porterò il segno per sempre. O dei, sto per morire.
Marcello alle
sue spalle gridò: “pietà! Lasciateci andare! Non fateci del male, siamo soldati
romani!”
“Zitto
cane!” Marcello venne percosso duramente mentre era a terra e urlò di dolore.
Seneca non vide il colpo, ma la testa di Marcello lo colpì. Poi il soldato
semplice doveva essere svenuto, perché non si muoveva più. O Giove, e se fosse
morto? Seneca sentì qualcosa di caldo tra le gambe, Marcello si era pisciato
addosso. No, non era morto. Udì gli scagnozzi ridere. Toccava a lui adesso? La
sua guancia continuava a sanguinare e il sangue caldo gli era entrato
nell’occhio, cominciava a raggrumarsi. Tutto, tutto pur di sopravvivere. Gli
venne da vomitare. Cosa posso fare? Era sconvolto, cercò di ricordare qualche
esempio per sapere come comportarsi, ma non gli venne in mente nulla. Tutto,
voglio vivere, vivere.
“Siamo
ricchi! –sentì urlare il capo- Questo prigioniero è un nobile romano! Il suo
riscatto e la vendita degli altri schiavi ci renderanno ricchi! Il dio Ahura è
con noi!” Urlò qualcos’altro di incomprensibile e il gruppo di briganti rispose
con un clamore di gioia esagerata, sbattendo le armi sugli scudi. Erano soli in
mezzo al deserto, chi avrebbe potuto salvarli? Nel cuore di Seneca si agitavano
sentimenti contrastanti. Vivrò! Vivrò, ma
come? Diventerò uno schiavo?
Il capo
ordinò qualcosa e i due romani vennero rimessi in piedi. Cosa mi succederà adesso? Seneca dovette fare uno sforzo tremendo
per restare alzato, dovendo reggere anche il peso morto del corpo di Marcello
svenuto. Poi non ce la fece più e cadde di schianto in ginocchio davanti al
capo. Padre mio aiutami.
Il capo gli
sputò addosso con disprezzo. Il catarro lo colpì sui capelli biondi e gli colò
sulla pelle. “Romani… vi credete di essere i padroni del mondo, ma vedremo come
reagirà la tua famiglia quando saprà che sei in mano nostra. Era da tempo che
volevo rapire un romano. Manderemo domani un tuo pezzo di carne, così si
convincono prima a pagare il riscatto. Dimmi –gli tirò su la faccia con
violenza-, quanto vale il tuo bel faccino?” Si guardarono negli occhi.
Seneca
scorse di lato un altro predone tirare fuori un’ascia. Il capo dei banditi si
mise a ridere, poi abbassò lo sguardo. “Invieremo il tuo naso… anzi no, una
delle tue belle mani con anelli, così lo sapranno con sicurezza. Questa o
quella?”
Seneca era
terrorizzato. Riusciva solo a mormorare “No! No!” Era legato così stretto che
soffocava e non riusciva a parlare. Sentì la voce del rabbi che interveniva, e
si aggrappò a quella voce come un naufrago a un pezzo di legno.
“Rabbi!
Aiutami, salvami!”
“Zitto!!”,
il capo gli diede un pugno sulla testa. Seneca cadde faccia a terra. Udì un
breve dialogo tra il rabbi e il capo dei briganti, ma le parole del rabbi
questa volta ebbero l’effetto di infuriare i predoni. Arrabbiatissimi, due di
loro si diressero verso colui che aveva osato parlare. Tutto il gruppo di
pellegrini si strinse intorno al rabbi per difenderlo. I due scagnozzi presero
con violenza una donna in prima fila, la schiaffeggiarono e le strapparono i
vestiti, lasciandola nuda e impaurita. Il capo nel vedere questa scena si mise
a ridere sguaiatamente, seguito dagli altri. “Basta con le parole! Siete tutti
nostri prigionieri! Tutti schiavi! Violenteremo queste femmine e ci
divertiremo! Inizia la festa, basta con le parole!”
Vide il capo
ridere come un pazzo e incitare tutta la sua banda. E poi improvvisamente non
ridere più, e portarsi le mani al ventre. Una punta ferrosa di giavellotto gli
fuoriusciva dalla pancia.
“Cosa? C…”
Una macchia di sangue si allargava sui vestiti. Il capo dei briganti stramazzò
al suolo con una bestemmia. Dietro di lui Seneca vide stagliarsi una figura
familiare.
“Manlio!”
Il
centurione fece un fischio e poi diede un tremendo ruggito. Con spaventosi urli
di guerra i legionari romani irruppero nell’accampamento dai quattro lati.
Vorticando le affilatissime spade corte, fecero grande strage dei predoni.
Micidiali frecce colpirono al petto molti briganti. I cacciatori erano
diventati prede. Approfittando dell’effetto sorpresa e della perfetta
disciplina romana i banditi furono sbaragliati in brevissimo tempo, e chi tentò
di fuggire venne raggiunto dalle frecce inesorabili degli arcieri. Quei pochi
che scamparono alla battaglia vennero fatti tutti prigionieri. Anche i
pellegrini reagirono a loro volta, qualcuno aveva estratto rapido dei coltelli
dagli abiti e aveva pugnalato i nemici più vicini, che improvvisamente si erano
ritrovati avversari armati ovunque. Fu una carneficina. La sabbia si colorò di
sangue nero. I cacciatori vennero uccisi dalle prede.
Nel giro di
pochi secondi il destino era cambiato. Seneca era incredulo.
“Ah, allora
le avevano le armi –affermò Manlio mentre tagliava vigoroso le corde di Seneca
e Marcello-. Tutto bene, principe? E’ insanguinato.” Marcello gli porse uno
straccio per pulirsi il volto.
“No no,
niente di grave. Mi hanno bucato la guancia ma mi farò crescere la barba.
Grazie Manlio. Grazie. Ci ha salvati.”
“Eravamo
dietro a quelle rocce laggiù. Stavamo venendo a riprenderla quando ci siamo
accorti dell’incursione di quei latrones e
ci siamo nascosti. Siamo intervenuti appena possibile. Si ricordi di mettere
del miele sulla ferita, così cicatrizza meglio, ne abbiamo di purissimo
nell’accampamento.”
“Me la sono
vista brutta. Bastardi!”
“Spero che
non le sia successo nient’altro.”
“Nient’altro,
grazie, nient’altro –disse ancora Seneca levandosi le corde e strofinandosi i
polsi. Si alzò in piedi dolorante per il colpo di prima alle ginocchia. Ma che
bello respirare. Il corpo di Marcello alle sue spalle scivolò pesantemente a
terra. Si era dimenticato che fosse ancora svenuto-. Questa banda di
delinquenti voleva rapirmi e far pagare un riscatto alla mia famiglia! Volevano
tagliarmi la mano! Bisogna ammazzarli! Ammazzarli tutti!”
Il
centurione annuì ma non commentò, afferrò il pezzo di tela con cui Seneca si
era pulito il volto e asciugò accuratamente il sangue sulla lama della spada.
Lì vicino un cavallo ferito nitriva orribilmente, in maniera straziante. Manlio
fece un gesto ad un legionario, che si avvicinò alla bestia e gli affondò una
spada nel cuore. Il cavallo smise di nitrire. Poi Manlio ritornò a dedicarsi
alla sua spada. Quando ebbe finito la rimise nel fodero, poi controllò la
ferita sulla testa di Marcello.
“E’ morto?”,
chiese Seneca.
“No no, è
vivo. L’hanno colpito con un calcio alla tempia, pare. Un brutto colpo, ma si
riprenderà presto. Le ossa del cranio non si sono rotte. Questi ragazzi hanno
la testa dura. Principe –chiese Manlio mentre versava aceto freddo sulla faccia
di Marcello-, ora si è convinto di tornare indietro al campo? Sarebbe più
sicuro lei e saremmo più tranquilli noi.”
“Sì, subito,
torniamo subito.”
“A proposito
principe, dove sono le sue armi? E la sua armatura?”
“Io non… non
ricordo.”
Intanto
Marcello aveva aperto gli occhi con un gemito. Si muoveva con movimenti lenti e
storditi, però si riprendeva dal colpo. Meno male. Si toccava gemendo la testa
con la mano. Vide Manlio e si stupì.
“Centurione!
Grazie a Mitra, siete arrivati! Principe… principe!”
“Sono qui,
Marcello.”
“E’ vivo! E’
vivo! Siamo vivi!”
“Buono,
Marcello, Buono, siamo qui noi, è tutto finito. I predoni sono stati sconfitti.
Hai una piccola ferita, fatti curare –Manlio intanto fasciava la testa di
Marcello, poi scrutò Seneca-. Lei ha rischiato un po’ troppo questa notte,
principe.”
“Sì, ha
ragione Manlio. Accetto il suo rimprovero. E’ giusto, dovevo ascoltarla e
tornare subito all’accampamento.”
Manlio
decise di non proseguire oltre la discussione. I briganti erano stati
sconfitti, il ragazzo era sano e salvo ed erano riusciti, dettaglio importante,
a catturare ancora vivi dei prigionieri. Ci sarebbe stato da lavorare nei
prossimi tempi. Magari avrebbero stanato il loro covo sulle montagne.
Finalmente. L’importante comunque è che per ora tutto si fosse concluso nel
migliore dei modi. A parte Liborio…
“Ho perso un
uomo stasera –ammise con tristezza Manlio-. Era da tempo che non mi succedeva.”
Seneca rimase in silenzio.
Quando ebbe
finito di fasciare Marcello, Manlio si alzò, diede una occhiata in giro e si
diresse, seguito da Seneca, verso il cadavere del suo soldato. Ma era stato
preceduto.
“Chi è
quell’uomo vicino al corpo di Liborio? E cosa stanno facendo gli altri lì
intorno?”
Il tono di
Manlio era quello del comando, e Seneca si affrettò a rispondere.
“E’ il loro
rabbi, Manlio. E’ una figura religiosa. Tranquillo, non c’è niente da temere.
Si vede che stanno pregando.”
“Non mi
piace, li farò mandar via. Mi sa che vogliono depredarlo. Ne ho abbastanza di
questa gente!” Marcello li seguiva a distanza, frastornato e un po’
barcollando.
“No, aspetta
–Seneca cercò di rabbonire Manlio-. E’ un brav’uomo. Mi ha salvato prima.
Lascialo pregare.”
Manlio gli
lanciò un’occhiata irritata, ma non aggiunse altro. Si limitò ad accorrere con
la mano sulla spada presso il cadavere di Liborio. Accanto al corpo morto del
legionario era distesa pure la salma ricomposta del pellegrino a cui avevano
quasi tagliato la testa. Intorno ai due corpi, allungati uno di fianco
all’altro, uomini e donne piangevano, muovendo avanti e indietro i loro corpi.
Manlio e
Seneca giunsero appena in tempo per sentire le ultime parole della preghiera
del rabbi, con le mani al cielo. I suoi occhi erano rivolti verso le stelle.
“…C’era un
grumo di sangue prima che noi respirassimo, un Dio prima che iniziasse la
nostra vita, solo Ieri siete stati generati ed ecco il vostro Oggi. Possiate
voi Domani attraversare la Via Lattea e le vostre anime volare leggere tra le
stelle verso il padre nostro.”
I pellegrini
risposero in coro. I ragazzini a cui Liborio aveva dato le noci, e questo colpì
Seneca, sembravano i più addolorati. Piangevano in ginocchio accanto al suo
corpo, mormorando qualcosa che i romani non capivano.
“Hanno
iniziato ad intonare il canto funebre, il kaddish, è lunghissimo“, spiegò
Marcello quando li raggiunse. Intanto si teneva con una mano la fasciatura.
“Non
possiamo aspettare oltre –Manlio si rivolse a dei soldati e indicò il corpo di
Liborio-. Prendetelo e caricatelo su un cavallo. Lo riportiamo indietro.”
“E i
cadaveri dei briganti?”
“Accendete
un falò e bruciateli. Prima però mozzate le loro teste, soprattutto quella del
loro capo. Le esporremo domani in piazza.”
“E le armi?”
“Giusto.
Togliete loro tutte le armi. Requisite pure quelle dei pellegrini, sanno bene
che non è permesso possederle. Perquisiteli bene. E’ probabile che ci sia ben
poco di valore ma meglio non rischiare. Siate accurati.”
Mentre
Manlio discuteva con i soldati che ubbidivano, Seneca e Marcello si guardarono
muti, senza dire una parola. Seneca avrebbe dovuto rimanere con chi perquisiva,
in modo da recuperare il suo pugnale, ma prima c’era un’altra faccenda da
eseguire.
Il campo era
pieno di agitazione, forse era il momento giusto. Fu Marcello il primo a
muoversi, toccandosi la testa fasciata, Seneca lo seguì. Si diressero dove
l’uomo prima aveva seppellito le loro armi. Scansando dei soldati che stavano
perquisendo dei riottosi pellegrini, quando furono arrivati al falò spento
frugarono tra le braci sino a ritrovarle. Erano ancora roventi, bisognava
maneggiarle con cura. Pensavano nella confusione di essere rimasti inosservati
ma Manlio, mentre impartiva ordini ai soldati, con i suoi occhi come fessure
non li aveva persi di vista.
Seneca
ritrovò abbandonati anche elmo e armatura poco lontani e se li infilò,
sistemandosi bene corpetto e spada. Era come indossare un vecchio abito,
conosciuto e comodo. Spazzolò via la sabbia dallo stemma sbalzato e sentì di
essere ritornato un soldato. Un soldato, con una cicatrice in più adesso.
Tornarono indietro ad aiutare i commilitoni.
Non voleva
far parte del gruppo che tagliava le teste e issava poi i cadaveri sulla pira.
I romani incaricati del compito gridavano oscenità mentre appoggiavano i corpi
morti sui massi e davano rumorosi colpi d’ascia. Sembrava si divertissero. Era
una scena infernale. No, non voleva tagliare teste.
Decise di collaborare
con quelli che stavano trasportando il cadavere di Liborio. Aiutò i due soldati
ad appoggiarlo di traverso sul suo cavallo. Anche in tre non fu una impresa
semplice. Poi legarono bene la pesante salma del legionario perché non cadesse
nel tragitto.
Arrivò
Marcello. “Aspettate, aspettate un momento –disse-, questa è sua, gli era
caduta durante la battaglia.” Marcello ripose la spada di Liborio nel suo
fodero, poi gli accarezzò il viso. “Accenderò io il fuoco per la truppa da ora
in poi, te lo prometto. Sarai ricordato ogni sera.” Gli aprì la mano stretta a
pugno, ormai irrigidita dalla morte, e vi prese la lana che serrava.
Il mucchio
ardente dei cadaveri decapitati illuminava quasi a giorno la scena. Le fiamme
erano altissime e la puzza di carne bruciata terribile. I soldati romani,
conclusi gli ordini, montarono tutti a cavallo, desiderosi di andarsene.
Seneca, con un fazzoletto sul naso per contrastare la nausea, salì sul suo
puledro, portatogli da un soldato. Via, via da qui.
Era la prima
volta che un uomo moriva così vicino a lui. Non aveva mai visto tanta ferocia.
Sì, avrebbe organizzato un grande sacrificio per lo scampato pericolo. Nemmeno
quando la barca si era rovesciata nel Nilo si era sentito tanto vulnerabile. Un
sacrificio con gli animali più preziosi e puri, non era mai stato così vicino
alla morte. Tutto ciò gli aveva destato un sentimento sacro nel cuore, lui che
non era mai stato molto fervente. Sua madre sarebbe stata contenta. Sì, un
grande sacrificio.
Si rivolse
al suo cavallino. “Andiamo bello, questa lunga notte finalmente sta finendo,
torniamo a casa.” Mancava ormai poco all’alba. Prima aveva detto a Manlio che
aveva sbagliato a non tornare subito all’accampamento, ma in cuor suo sapeva
che non era del tutto vero. Si accarezzò il buco sulla guancia, aveva smesso di
sanguinare ma gli bruciava. E ora che sapeva che sarebbe sopravvissuto, con
solo uno sfregio per ricordo, non era veramente pentito. E’ questo che si prova
a diventare uomini? Le esperienze di
questa notte un giorno mi torneranno utili. Ho un segno fuori e una ricchezza
dentro. Andranno bene nei momenti difficili.
Guardò per
un attimo la pira illuminata dei cadaveri. Un sacrificio grande.
“Andiamocene!”,
ordinò ad alta voce Manlio. I soldati diedero sprone ai loro cavalli e
partirono, portandosi dietro una fila di prigionieri legati e bendati, che si
lamentavano ad alta voce. Anche Seneca spronò il suo puledro, e rapidamente
superarono il gruppo di pellegrini, che li videro andar via al galoppo.
Seneca in
mezzo a loro per l’ultima volta vide il rabbi. Stava consolando la moglie
singhiozzante, la teneva tra le braccia e le baciava gli occhi, mormorando
qualcosa. Lavinia, sto tornando da te.
Gli sguardi
dei due uomini si incrociarono e rabbi fece a Seneca un gesto con la mano. Nel
suo gesto c’era tutto. Addio, comprensione, tristezza, forza. Ricordati di me.
Io mi ricorderò di te, un legame intenso ora ci unisce. Vivere con amore.
Volersi bene. Seneca, mentre si allontanava con gli altri, si ricordò di ciò
che si erano detti, ed era un ricordo che mescolato all’intensità dell’amore
per Lavinia lo commuoveva e gli faceva quasi venire da piangere.
Quella notte
aveva avuto la consistenza di un sogno. Impalpabile, misterioso, intenso,
eppure stava già sfumando nella luce delicata dell’alba, un nuovo giorno stava
nascendo. Ogni cosa sembrava più chiara adesso. Chissà se lo avrebbe rivisto.
Stai attento a non cadere da cavallo, stai diritto.
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