1099
Non è
sempre facile raccontare la verità. Voi, Altissima Maestà, volete meglio
conoscere il nostro nemico e perciò io, Rinaldo di Torre Mozza, Principe di
Acri, sono stato autorizzato dallo stesso Goffredo di Buglione a raccontarvi un
episodio mai descritto prima sulla nostra Crociata, episodio sul quale si è
sempre mantenuto il più rigoroso riserbo. Voi sapete che, secondo le sante
parole del nostro Papa Urbano II, lo scontro doveva essere totale e che nessun
accordo poteva mai essere raggiunto con i miscredenti turchi, emissari del
demonio.
Ma
questo non è vero. Un tentativo di accordo ci fu. E noi giurammo solennemente
su Sant’Andrea che non ne avremmo mai fatta menzione.
Dopo
tre anni di cammino all’inizio del mese di giugno del 1099 eravamo finalmente accampati
sotto le mura di Gerusalemme, ma in un terreno arido e sotto un sole cocente. Il
caldo era intollerabile e si viveva giorno per giorno. I numerosi pellegrini
che erano al nostro seguito morivano come le mosche e anche se gli abitanti
all’interno della città dovevano soffrire non poco. Ma l’esercito turco
resisteva comunque ai nostri attacchi e i loro guardiani parevano
incorruttibili. L’arsura ci torturava peggio della sabbia e solo la fede in Nostro
Signore, costantemente rinnovata da Frate Pietro Desiderio, ci era di conforto.
Un
pomeriggio assolato, con gran strepito di catenacci e chiavistelli, si aprì una
porticina nel lato sud delle mura, quella meno controllata. Ne uscì un loro
ambasciatore con un piccolo seguito, che in un latino rudimentale spiegò che
portava un messaggio dal Gran Visir. Venne condotto a mio avviso assai
sgarbatamente (ma non erano temi semplici) nella tenda centrale. L’uomo, dalla
pelle olivastra come i suoi simili, si ripulì dalle ferite e ci parlò: la città
e gli abitanti di Gerusalemme erano allo stremo, il calore cocente aveva
ridotto le scorte d’acqua (l’acqua è l’annoso problema della città) e si erano
verificati molti…episodi spiacevoli. Sapevamo dai nostri informatori che la
situazione del piccolo popolo era oltre la disperazione. A tutte le donne, per
ordine del sultano, era stata tagliata una natica per nutrire soldati e
sentinelle. E in verità, l’aspetto stesso dell’ambasciatore, smunto e
sofferente, era il miglior segnale di verità nelle sue parole.
Occorreva
raggiungere una tregua e il sultano proponeva per questo di incontrarsi la sera
dopo in una petraia fuori le mura della città a est, un terreno pieno di
serpenti che non interessava a nessuno. L’ambasciatore venne rispedito indietro
e nella tenda la discussione si fece subito durissima. I crociati erano persone
forgiate nel miglior ferro della cristianità, più avvezzi all’azione che ai
discorsi. Il più contrario ad ogni compromesso sembrava Buscario di Assisi, che
poi sarebbe perito nell’assalto finale, uomo dalla grande energia ma sin troppo
impetuoso: menava gran fendenti nell’aria e diceva che avrebbe sbudellato il
primo figlio di madre sconsacrata che parlasse di tregua.
Senza
saperlo l’ambasciatore dei turchi era giunto in un momento delicato: poche ore
prima l’ordigno della catapulta, nostra unica speranza di risolvere presto
l’assedio, si era rotta nel collaudo. Il legno di queste parti non è come
quello cui siamo abituati, si piega troppo. E il pensiero di un altro assedio
di otto mesi come ad Antiochia era intollerabile.
Dopo
tre anni di marce e pericoli la nostra meta, pur a portata di mano, pareva
ancora irraggiungibile. I nostri sguardi si volsero allora verso Goffredo da
Buglione, che insieme a Raimondo di Aguilers comandava le nostre truppe. Ci fu
un attimo di silenzio, poi Goffredo parlò: “Il tempo non è dalla nostra parte.
Uomini e animali stanno morendo, la metà del nostro esercito è malata. Abbiamo
condiviso il pane in questi anni di marcia ma non possiamo fermarci proprio
adesso, altrimenti come Mosè non entreremo nella Terra Promessa -si alzò in
piedi e notai alla luce delle candele che era il più alto di tutti-. E io non
sono venuto qui per guardare, voglio esplorare ogni minima possibilità.
Andremo. Siamo in una posizione di forza, ma aspettare ancora costerebbe altre
vite. Forse come per Betlemme riusciremo a conquistare la città santa senza
spargere altro sangue e sarebbe bello.”
Entrando
mano sulla spada la sera dopo nella gran tenda del sultano rabbrividii, Dio
perdoni il mio debole cuore. Le pareti erano tutte imbrattate con i loro ricami
che sembrano opera del demonio, stregonesche pitture. Sul sultano, che ci
aspettava dentro la tenda, erano già fiorite molte leggende: si raccontava come
fosse un uomo crudele, che si divertiva a torturare e poi divorare i cristiani
su cui riusciva a mettere le mani. Sono un peccatore –mi dicevo- sono solo un
peccatore, Signore pietà, abbi pietà del tuo servo Rinaldo. Ammetto che lo temevo,
inutilmente mi ripetevo che era solo un uomo che moriva con il ferro della
spada. Lo temevo meno di quanto amassi la Croce di Nostro Signore, ma
abbastanza da confondermi la mente.
Non
ci furono formalità inutili. Rifiutammo ogni offerta di cibo e ogni cuscino,
rimanendo in piedi. Gli ordini erano stati precisi, nessuno doveva accettare
alcunché. La tenda era molto grande e aperta in più parti da ogni lato, così
che dall’esterno si potesse vedere dentro. Notavo che ogni più piccolo ordine
del sultano, vestito con una tunica dorata, veniva immediatamente eseguito da
servi e notabili con la testa bassa. Aveva il potere.
Padre
Pietro intanto diffondeva fumi di incenso nella tenda, mormorando devoto il miserere
a cui noi crociati rispondemmo in coro con un poderoso Amen! Il sultano intanto
guardava beffardo l’operazione, non so cosa gli passasse per la mente. Poi
Boemondo di Tolosa fece un passo avanti e lesse a voce alta il documento di
sottomissione in latino, in cui si intimava al sultano di riconoscere e
accettare il Cristianesimo come unica religione e accettare il Papa Urbano II°
di Roma come sola fonte per la legge umana. “E se qualcuno non è d’accordo
–aggiunse perentorio Buglione- si faccia avanti che lo affronterò con le mie
armi!”
“Siamo
noi dunque pronti a morire per Cristo Nostro Signore?”, esclamò Padre Pietro.
“LO
SIAMO!”, rispondemmo in coro.
“Sia
dunque così nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.”
“AMEN!!”
“Inginocchiatevi,
infedeli! Abbracciate la nostra fede, servi del demonio, e avrete salva la
vostra anima!”
Il
sultano non perdeva una sillaba di quanto detto, facendosi ripetere tutto dal suo
traduttore. Man mano che Boemondo leggeva l’atto di sottomissione si era fatto
più cupo ma davanti alle nostre grida era rimasto impassibile. Poi si alzò e
iniziò a parlare in tono mellifluo, e anche da questo riconobbi il demonio
tentatore che era in lui.
“Avete
coraggio e forza, cristiani, ma non è una sorpresa per me. Vi invito però a
lasciar riposare le armi e ascoltare la mia proposta per una soluzione
pacifica. I pellegrini potranno venire a visitare la Basilica del Santo
Sepolcro liberamente e in ogni periodo dell’anno, anche se ovvio dietro un
modesto compenso. In fondo sapete bene che le nostre armi e le vostre sono di
pari qualità e che un combattimento prolungato garantisce sicura sofferenza ma
non sicura vittoria. Non siete ancora entrati in Gerusalemme.”
“Di
pari qualità? Di pari qualità?” L’impetuoso Buscario intervenne rabbioso e
offeso. La tensione saliva ed eravamo tutti pronti a combattere. Goffredo,
certo illuminato dal Signore, fece un cenno deciso a Buscario che uscì dalla
tenda imprecando, dirigendosi verso un palo che sorreggeva una vicina tenda. Un
grosso palo, che vedo ancora adesso con la mia mente, più grande della coscia
di un uomo. Il franco estrasse il suo spadone, lo fece roteare e con un urlo
inferse al palo un terribile fendente. Certo fu Cristo Re a guidare le sue
mani, perché il colpo fu spaventoso e la sabbia sembrò tremare sotto i nostri
piedi. Ma il nero tronco si spezzò in due. Con un colpo solo!
Come
un miracolo la tenda, non più sorretta da quel pagano palo, si afflosciò in una
nube di polvere, dalla quale emerse la figura tozza ma possente di Buscario,
che ancora impugnava la spada. Mentre la rimetteva sicura nel fodero aveva due
occhi azzurri e terribili. Ci congratulammo con lui. Con un simile campione la
vittoria era nostra, mai mi son sento più sicuro come in quel momento. Volgemmo
gli occhi verso gli arabi, sicuri di averli impressionati con questa dimostrazione
di fede e forza. Dio è con noi!
Ma il
sultano, al contrario dei suoi cortigiani che avevano seguito la scena e ora
mormoravano mute preghiere, non sembrava affatto stupito. Il suo sguardo era
beffardo come quando Padre Pietro aveva sparso per la tenda l’incenso.
Con
un gesto silenzioso prese dalla manica un fazzoletto di seta e lo lanciò per
aria. Usando l’altra mano estrasse la sua affilata scimitarra e con un soffio
tagliò il fazzoletto mentre ancora volteggiava in aria. Due lembi di tela
sottile caddero lenti per terra mentre il sultano rimetteva la sua scimitarra a
posto. Noi eravamo ammutoliti dallo stupore, non avevo mai visto un portento
simile. Il sultano rivolse delle parole al suo interprete che subito le
tradusse.
“Allora,
cristiano, qual è la spada che taglia di più?”
Questa
volta fu Goffredo da Buglione ad uscire dalla tenda e tutti noi gli andammo dietro.
Inutile dire che non venimmo mai a patti con i saraceni. E fu un bene: quale
meschino risultato per la cristianità! Veramente sarebbe stata una vergogna,
dopo così tanto cammino, entrare in tal guisa in Gerusalemme!
E l’unica
macchia, se così si può dire, della nostra strepitosa vittoria di un mese dopo,
che tanto tripudio ha portato alla Cristianità intera, e della strage di
infedeli che ne seguì, è che non riuscimmo a catturare il sultano, che non ho
mai più rivisto. Quando raggiungemmo le sue stanze io stesso riuscii a
catturare un suo servo che con un ghigno disse che non l’avremmo mai preso. Poi
si lanciò in avanti verso la mia spada sguainata e si tolse la vita, mormorando
oscure parole di odio. Non dimenticherò mai la sua smorfia.
Ormai
è calata la sera, sto scrivendo al lume delle candele. Da tempo non scrivevo
una lettera così lunga e qui c’è sempre molto da fare. Abbiamo un intero regno
cristiano da costruire qui in Terra Santa, per la gloria di Dio, del Papa e di
Vostra Altezza.
Dio
ci protegga
il
suo umile servitore Rinaldo di Torre Mozza, principe di Acri
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