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sabato 26 novembre 2016

CHE DUE COGLIONI!

“Sì pronto, ciao, sono io…senti, ti ho telefonato per quella cosa ….sì sì, tranquillo sono stata fortunata ho trovato parcheggio vicino….in un posto per handicappati…non ti preoccupare, era vuoto… senti per quella situazione…ma allora, chi è che rompe le palle?...aspetta c’è uno che si è affiancato con la macchina e mi vuole parlare, aspetta che tiro giù il finestrino… CHE CAVOLO VUOLE LEI?”
“Mi scusi, dovrei parcheggiare lì.”
“No no, son parcheggiata io. Se ne vada.”
“Guardi che il posto è riservato a me. Ho delle difficoltà, vede la stampella?”
“Ah va bene. Tra 5 minuti me ne vado. Si faccia un giro intanto.”
“Se non le dispiace preferirei aspettare qui, così appena se ne va mi metto io.”
“MA COSA FA? MI METTE FRETTA?....che due coglioni…scusa, c’è un handicappato che vuole il posto… ma sì ma sì hanno rotto i coglioni…era mezzora che cercavo un buco… ECCO, ME NE VADO, CONTENTO?”
“La ringrazio.”
“Sì sì, grazie al cazzo.”

“Buona serata!”
Cubano: "Qui possiamo vedere il Che e Fidel che giocano a golf."
Intervistatore: "Chi ha vinto?"
Cubano: "Il Che. Ma Fidel l'ha lasciato vincere."

venerdì 25 novembre 2016

LO DICA ALLE SUE AMICHE

“Buongiorno signora, da dove  viene?”
“Dalla Bolivia, segnor.”
“Lei sa perché oggi l’abbiamo chiamata qui in Tribunale?”
“Por la mia bambina?”
“Certo, nel suo caso è coinvolta anche una minorenne ma non è il motivo esatto per cui l’abbiamo convocata qui. Qualche giorno fa ho ascoltato il suo ex con un Avvocato agguerrito. Oggi però volevo sentire la sua versione, dopo aver sentito quella del suo ex compagno..”
“Pedro?”
“Sì. Mi tolga prima una curiosità, cosa ha fatto alla guancia?”
“…Una sera mesi fa è tornato  casa muy borracho…”
“Ubriaco?”
“Sì. Era ubriaco de birra, che è terrible. Io non lo volevo far entrare, quando è così diventa violento e mi picchia sempre. Gli ho detto cento volte che ubriaco in casa non lo voglio. Allora lui…ha sfondato la porta, è andato in cucina, ha preso un coltello e….mi ha tagliato la faccia…”
“Davanti alla bambina?”
“No, Elizabeth dormiva nell’altra stanza. O espero che dormiva.”
“Lui mi ha raccontato che è stata lei a tagliarsi da sola perché era ubriaca anche lei.”
“Fatemi tutti gli esami che volete (mostra le braccia). Vedrete che io non bevo.”
“E poi cosa è successo?”
“Sono andata in Hospital donde me hanno ricucito, anche se una cicatrice è rimasta. Da allora non riesco più a muovere la guancia destra, è paralizzata.”
“Poi lo ha denunciato, signora?”
“….no…no…la dottoressa al Pronto Soccorso ha insistito mucho ma io non volevo.”
“Perché?”
“Ho detto che mi ero fatta male da sola. Tenevo paura.”
“Di cosa?”
“Avevo paura che arrivavano i Servizi Social e mi toglievano mia figlia. Ma non c’entra nulla la mia nina, segnor. Non portatemela via.”
“Aveva paura di lui?”
“No, poi quando gli passa l’alcool si sveglia, mi chiede scusa y se disculpa. Non l’ho mai denunciato, lo perdono siempre.”
“Il perdono è un’altra cosa, signora.”
“Yo soy catolica. Perdono, come Jesus mia luz.”
“Signora, anche Gesù si è arrabbiato. Bisogna reagire, è doveroso. Si ricordi, anche Gesù ha usato la frusta. Ah, perché non ha mai denunciato Pedro? Adesso avremmo qualcosa con cui accusarlo.”
“Disculpeme.”
“Non si scusi, signora, non c’è bisogno, stavo pensando ad altri casi simili. In quei momenti lei aveva paura. Poi cosa ha fatto?”
“Son tornata a mia casa e mentre lui dormiva ho preso la bimba e sono andata da una amica in un posto segreto. Lui è impazzito, mi mandava i messaggi di morte al cellulare.“
“Posso vedere questi messaggi?”
“…li ho cancellati, segnor.”
“Stiamo calmi. Ci sono dei vicini che possono testimoniare che la picchiava?”
“Sono tutti clandestini, segnor, non verrà nessuno.”
“La sua amica da cui è andata?”
“Lei se vuole viene, è mia primera cugina.”
“…Una parente. E così alla fine è la parola di uno contro quella dell’altro. Uno dice bianco e l’altro nero.”
“Ma io non voglio che mia figlia passi quello che ho passato io.”
“Lo dica allora alle sue amiche signora, che non si può perdonare sempre tutto. Quando subiscono un torto alla loro dignità bisogna reagire, denunciare. Altrimenti i nostri figli cosa penseranno di noi?”




mercoledì 23 novembre 2016

PROBABILMENTE

“Perché esiti?”
“Ho timore di qualcosa di spiacevole.”
“E’ da qualche minuto che osservi la doccia calda senza entrare, di che hai paura?”
“Lo sa anche tu. I primi secondi si prova sempre una sensazione di gelo.”
“Ma è acqua calda!”
“Non ha importanza. Lo sai anche tu. L’impatto con l’acqua risveglia tutti i nervi della pelle in automatico e i nervi del freddo, più numerosi di quelli del caldo, si attivano per qualche istante. Presto si accorgono che la faccenda non li riguarda e si riaddormentano. Però per qualche secondo si prova una sensazione di ghiaccio, ecco perché esito.”
“Stai parlando del freddo paradossale, come quello che si prova tuffandosi in mare? Beh, io mi immergo piano pianino, un pezzo alla volta. Così evito il falso allarme del freddo o perlomeno ci provo.”
“Io invece preferisco entrare in modo diretto nell’acqua, tanto ho imparato che questa sensazione illusoria per quanto spiacevole dura pochissimo. E’ un meccanismo di difesa pronto a scattare ma che rientra presto nei ranghi.”
“Insomma le sentinelle del freddo aprono l’occhio ma poi si riaddormentano. Scusa la mia spiegazione da cartone animato, alla Siamo Fatti Così, ahahaha!”
“Si vede che da bambino hai ricevuto l’imprinting. Io ho studiato questo freddo paradossale, come lo chiami tu, all’Università ma il pensiero mi sembra identico.”
“Oh yeah. E toglimi una curiosità, anche per quella cicatrice che hai sul petto vale lo stesso discorso? Anche per lei provi il freddo nella doccia?”
“Ah questa. E’ quella esperienza che mi ha lasciato una cicatrice, te ne ho già parlato. Sì, il freddo paradossale ho notato che vale anche per lei. Anzi probabilmente è più delicata. Ma non voglio rinunciare a farmi la doccia e ad avere delle esperienze nuove per lei.”
“Fai bene. Dai entra, affronta questa piccola prova. Sai che alla fine non si vorrebbe uscire mai dalla doccia calda. Mi ricorda quando una nuova donna è entrata nella mia vita. Esitavo come te, non sapevo quello che sarebbe accaduto- ma l’avrei scoperto solo buttandomi, non c’era altro modo”.
“Sì, probabilmente il Freddo Paradossale, il timore di soffrire avendo esperienze nuove, accade anche fuori dall’acqua. ”
“Basta con le mezze misure. Intanto l’acqua scorre. Il futuro è bello, avrai la tua ricompensa.”
“Probabilmente. Forza amico, dammi coraggio.”
“Dai, testone, entra nella doccia senza timore. Alcuni giorni meravigliosi devono ancora accadere. Non è un bellissimo pensiero?”
“Vado allora. Il futuro è bello.”


martedì 22 novembre 2016

BAGIGI

Fresco fresco di stampa ecco a voi BAGIGI -cento raccontini- in una nuova edizione. Tutto nuovo e migliorato rispetto all'altra edizione (ho cambiato 20 raccontini su 100 e modificato vari elementi tra cui il carattere tipografico più grande, così lo può leggere anche chi ha difficoltà alla vista).

Ho stampato 100 copie ed è un libro che non si vende e non si compra, lo regalo e basta. Una copia è per te che stai leggendo :) (te la invio a casa insomma, basta che in privato mi dai il tuo indirizzo). Daje!

lunedì 21 novembre 2016

IL MOSTRINO

“Caro, scusa se ti disturbo mentre leggi il giornale. Posso dirti una cosa?”
“Dimmi tesssoro mio. Tu non mi disturbi mai.”
“Ho notato che c’è un pelo bianco nelle sopracciglia che spunta fuori e ti sta molto male. Se vuoi te lo levo. Aspetta che lo tiro via.”
“Ma dove?”
“Proprio qui sopra l’occhio. Aspetta, aspetta che prendo la pinzetta, sta fermo un secondo….zac!”
“Ahia!”
“Oh guarda, ce ne sono altri due, te li levo….zac!...zac!”
“Ahia!...Ahia!”
“Ma qua ce ne sono un sacco. Prendo la forbicina.”
“No ferma, mi han sempre detto che se togli uno ne crescono sette.”
“Tutte storie. Ti stanno proprio male. Non bisogna mai farli crescere così tanto. Stai fermo. Ti dispiace se uso questi due?”
“Cosa sono?”
“Cerotti speciali.”
“In che senso speciali?”
“Si mettono qui dove ci sono i peli. Si fanno aderire bene alla pelle e poi…sta attento…straap!”
“AHIAAA!”
“Guarda, guarda quanta roba è venuta via!...aspetto tiro via il secondo…questo è più difficile…straaap!”
“UAAAARGH! Basta, basta!”
“Dai, non ti lamentare, sta venendo fuori un buon lavoro.”
“…Cheddolore…cheddolore…i miei poveri peli, ci ho messo tanti anni a farli crescere…Ma sei matta?”
“Non ti lamentare, le donne lo fanno sempre. Eh, ma qui c’è ancora troppa confusione. Hai i peli anche dentro le orecchie! Bisogna far qualcosa. Senti, ti dispiace se uso questo?”
“Che roba è? Sembra un Tamagoci rosa. Carino, è innocuo?”
“E’ utilissimo. Aspetta che lo accendo….bvvvvzzz…”
“Oddio, ha tirato fuori delle lamelle! Ma che roba è?”
“Fermo, si chiama Silk Epil, inclina la testa così vedo bene l’orecchio..bvvvzzz….”
“UAHIAAAA!!!”
“Fermo, non ti muovere, sennò è peggio e rischio di farti male…”
“AAAAAAAAHRGH!! Il mio orecchio!!”
“Fermo ho detto!”
“E’ un mostrino! AIOOOO! AAAARGH!”
“Aspetta che devo fare anche l’altro orecchio. Puoi mica andare in giro a metà.”
“Pietà! Pietà!”
“Tranquillo, un minuto e ho finito…bvvvzzzz…”
“AHIAAA! AIAIAIAAAAAAAAAAHHH!”
“Sta fermo, qui c’è un pelo resistente.”
“AUAUARGH!!”
“Ecco ho finito, e adesso un po’ di profumo per disinfettare….spruz spruz..”
“Brucia! Brucia!”
“Guarda allo specchio che bel lavoro, come sei bello pulito.”
“Oddiomama... Io vedo solo uno con la faccia rossa piena di bozzi. Sembra che mi abbiano preso a pugni.”
“Poi passa. Fidati del mio parere, una donna ci è abituata.”
“Ma le donne soffrono così quando si depilano?”
“Ma certo, io tengo il Silk Epil nella doccia.”
“Non pensavo soffrissero così tanto. La mia considerazione per loro si è alzata.”






sabato 19 novembre 2016

UN GESTO INTIMO

“Cosa stavate facendo ieri, tu e quella ragazza?”
“Professore, ma è cieco? Ci stavamo baciando!”
“Questo l’avevo capito. Ma vi volete bene?”
“Certo, è la mia ragazza, stiamo insieme da tre settimane.”
“E perché davanti a tutti? Il bacio è un gesto intimo.”
“Volevo far capire a tutti che è mia. Anche a quello stronzo che sta in seconda e che le gira intorno.”
“Piano con le parole. Usa altri modi poi per ribadire il tuo legame con la ragazza, il bacio è un affare delicato.”
“Sicuro, Professo’?”
“Sai come è nato il bacio?”
“Perché è il segno dell’amore, esiste da sempre!”
“E perché sarebbe segno di amore unire due labbra?”
“Ah, questo non lo so! E’ naturale.”
“Nella preistoria, tanto tempo fa, non c’erano biberon, pentolini, tazzine... Non c’erano nemmeno i cucchiai. Allora come si faceva a dar da mangiare ai bambini in maniera sicura? Le mamme sminuzzavano il cibo con i denti e poi lo mettevano direttamente nella bocca del bambino.”
“Che schifo!”
“Guarda che per un milione di anni le mamme si sono comportate in questo modo, è così che si prendevano cura del loro piccolo in prima persona. Per questo ti ho detto che è un segno d’affetto. Di grande affetto e intimità. La prossima volta pensaci bene, prima di baciare la tua ragazza in pubblico.”
“Professore, ma lei sa tutto sul bacio!”
“Io saprò tutto, ma sei tu che lo fai. Mi raccomando mio caro ragazzo, trattala sempre bene.”



 
“E’ un bradipo!”
“E’ una lumaca!”
“E’ lentissimo!”
“No, aspetta! E’ l’ultimo della fila, è… è Tartarox!”

 
TARTAROX, IL PRIMO SUPER EROE CON LA SCLEROSI MULTIPLA


Per far conoscere ai nostri affezionati lettori il nostro supereroe preferito e le sue gesta, il nostro inviato ha raccolto varie interviste per la città. A sentir lui è stato facile: tutti avevano un aneddoto su Tartarox, tutti lo amano e vogliono portare la loro esperienza. Ascoltiamoli.

Intervistatore: Allora, quando è stata la prima volta che avete sentito parlare di Tartarox?
Ragazzo: mah non so, mi sembra che ci sia sempre stato. Forse qualche anno fa è stata la prima volta.
Ragazza: ma sì, non ti ricordi? E’ stato quando ha sventato la rapina in banca!
Ragazzo: Ah sì, è vero!
Intervistatore: qualcuno di voi ci vuole raccontare come è andata?
Ragazzo: Io! Io! L’ho raccontata un sacco di volte ai miei amici.
Ragazza: Che bello sapere che la tua città è difesa da un super eroe!
Ragazzo: quando lo vedo passare con la stampella magica mi commuovo sempre!
Intervistatore: ma qualcuno me la vuole raccontare questa storia sì o no?
Ragazzo: ok ok quanta fretta… Dovrebbe darsi una calmata e iscriversi al suo fan club. Allora… Era una calda giornata estiva e l’unica banca aperta del paese era piena così, perché si pagavano le bollette della luce. Improvvisamente entrano 4 uomini mascherati e armati, che gridano “Questa è una rapina, tutti a terra!”
Ragazza: Come nei film, solo che le armi erano vere!
Ragazzo: tutti gridano e poi si gettano a terra, tutti tranne uno.
Ragazza: lui, Tartarox!
Ragazzo: che sangue freddo! Che uomo! Che temperamento! Ha guardato impassibile i rapinatori e nel silenzio ha detto “Volete qualcosa? Non ho sentito bene, stavo cercando il bagno.”. Ha capito? Stava cercando il bagno, li stava prendendo per il culo!
Ragazza: lui i cattivi li sputtana! Non li perdona mica!
Ragazzo: beh, a uno dei rapinatori non piace mica la situazione che si è creata. Uno dei cattivi va verso di lui con cattive intenzioni ma…
Intervistatore: Ma?
Ragazzo: non si è mai capita la sua mossa segreta, è segreta mica per niente, sta di fatto che il cattivo si avvicina troppo, Tartarox fa finta di perdere l’equilibrio, gli cade il suo mitico bastone, il rapinatore ci inciampa e scivola all’indietro. Cadendo gli parte dalla mitraglietta una sventagliata che uccide tutti i suoi compari! Tatta-ta-ta-tà! E solo loro!
Ragazza: una scelta di tempi eccezionale! Quando il rapinatore che aveva sparato ha capito di essere rimasto solo se l’è data a gambe. E così Tartarox ha sventato con i suoi superpoteri una rapina in banca!
Intervistatore: Però! Dopo l’avranno ringraziato, immagino. Chissà che festa.
Ragazza: Macché, appena i clienti e i commessi hanno rialzato la testa Tartarox era già sparito.
Ragazzo: tutti che si chiedevano “Ma dov’è dov’è il nostro salvatore?”, e l’han cercato dappertutto. Il Direttore voleva dargli un premio, ma lui era già volato via.
Intervistatore: volato?
Ragazza: sì! Con il suo mantellino da supereroe.
Ragazzo: c’è anche un’altra ipotesi a dir la verità, perché si è scoperto dopo che nei bagni non avevano guardato. Gli scappava la pipì e forse in attesa che si calmassero le acque si era rifugiato lì.
Ragazza: chi? Tartarox? Naaa. Sei il solito scettico. In realtà è volato sopra le nuvole.

Ragazzo: Gneeeow!!

giovedì 17 novembre 2016

AH, MA ALLORA…

Ah, ma allora quella volta….che son cascato per terra scendendo dal treno e non capivo cosa era successo…e quando mi sono sentito male dopo un bagno caldo…o quando ero mezzo ubriaco e non riuscivo ad infilare il cordino nell’ago e tutti ridevano…e quando guardando la fila di automobili vedevo due file….o quando inciampai in quel ramo durante la gita nel bosco….ecco perché le mani tremavano mentre giocavo all’Allegro Chirurgo….o perché ero l’ultimo a vestirsi…e perdevo se facevo le corse…oppure facevo le linee storte camminando nella sabbia…e  miei castelli di carte crollavano sempre…e a biliardo ero una schiappa….e nei giochi di forza non ne parliamo…e quella volta…e quell’altra….
E io che ho sempre pensato di essere imbranato...ero già malato? Ma è possibile, già da piccolino?
Ma quand’è che ho iniziato ad ammalarmi?
Mah, chissà se a quell’età era peggio sapere di essere malato o pensare di essere imbranato…










TRASLOCANDO

 "Papà, guarda, questa scatola è piena di fotografie."
"Ah sì, sono vecchie foto mie."
"Posso vederle?"
"Ma non so se..."
"Voglio vederle tutte!... ehy ma qui hai i capelli lunghi!"
"Eh, tanto tempo fa, ero più grande della tua età."
"E questa chi è?"
"E' la ragazza con cui stavo prima di conoscere tua madre."
"Davvero? Ma... ma in quest'altra stai fumando!"
"Sì ma poi ho perso il viz..."
"E qui? Dove è che sei?"
"Eh.. ah.. in Grecia, in un campo n…"
“Cosa?”
“In una spiaggia dove ognuno si vestiva come voleva.”
"Mi ci porti?"
"Dai, chiudiamo lo scatolone"
"Aspetta aspetta! E qui? Quanti cd che hai, papà."
"Ne vuoi un po'?"
"Posso? Sì, voglio questo, e questo, e que..."
"Senti, perché non te li prendi tutti?"
"Posso? Davvero?"
"Ma sì, tanto io ho già scaricato sul pc quello che mi interessava, li porti dalla mamma e te li ascolti. Hai 10 anni, hai tempo per ascoltarli tutti."
"Va bene! Va bene!!! Ehm papà, sentiii..."
"Dimmi, giovane"
"Ma ehm qualcuno lo posso dare via?"
"Guarda che ci sono cd che valgono anche parecchio"
"Per esempio, questo cd di Pa... Paba... Pavarotti, posso darlo via? E questo Le grandi voci della lirica?"
"Sssì, va bene..."
"Ma papà! Hai I grandi successi di Albano! Che roba è?"
"Ehm no, c'era una canzone che mi piaceva."
"Questo lo regalo."
"Aò, buono giovane!"


mercoledì 16 novembre 2016

BLOCCATO DALLA GATTA

“Eccomi qui, è incredibile. Mi sento bloccato dalla gatta sdraiata sopra di me, sono il suo materasso e devo stare fermo. Chissà come mai mi sento così inibito però…però è una forza potente in me, ammettiamolo. E’ riuscita a bloccarmi. Me l’avevano detto che succedeva ma non ci credevo. Bea? Bea? Onorevole micia, mi lasci andare per favore?”
“Rrrmmmmrrrr…”
“Tu dormi, io sono sveglio ma non posso disturbare il tuo regale riposo. Stai sognando tanti topolini lo so, è bello. Svegliare chi dorme è sempre qualcosa di terribile ma… dovrei fare delle cose, non posso rimanere fermo. Dai, levati. Bea?”
“Mmmmmmma cosa c’è?”
“Scusa…scusina…Dai scansati bella micina…”
“Rrrrrrmmmmm….Lasciami riposare.”
“Proviamo con le cattive. ‘A stronza, te sposti? E damme un segno!...Ahia, via quegli artigli! Ma sei matta? Mi hai fatto uscire una goccia di sangue!”
“Così impari.”
“Pazzesco. Guarda che sono più grande di te. Non puoi bloccarmi.”
“Non continuare ad agitarti per favore, sto cercando di dormire.”
“Noto con preoccupazione, cara Bea, che non ti faccio la minima paura.”
“Ecco bravo, e adesso statte fermo.”
“Ma è possibile che niente ti fa paura, che nulla ti preoccupa?”
“Veramente se proprio vuoi saperlo ci sarebbe una cosa che mi preoccupa.”
“Ah sì? Sarebbe?”
“Come mai hai le chiavi del mio appartamento?”
“Ehhhh….Devo uscire per prenderti le crocchette.”
“Ah ecco. Allora se mi devi riempire la ciotola ti puoi alzare.”
“Grazie.”
“Senza far casini mi raccomando.”




martedì 15 novembre 2016

LA DEA

I miei genitori hanno gusti discutibili. Casa loro è piena zeppa di ricordi, souvenirs, statuette, quadri foto etc. Ma proprio piena. Appendere un quadro nuovo è una tragedia, tutte le pareti sono occupate da decine di quadri, non c’è un buco.
Quando ero bambino vivere in una casa così, in cui dove posi l’occhio vedi qualcosa, mi sembrava normale. Mi sarei accorto dopo che alla gente comune di solito piace l’essenziale, mi è capitato di vedere in certe case anche delle pareti senza un quadro! Inconcepibile.
Tanto per dirne qualcuna tengono la statuetta di Biancaneve con i 7 nani, una collezione di tazze da tutto il mondo, scacchi in tutte le fogge, modellini di galeoni, foto incorniciate ovunque, quadretti dei lavori a maglia punto e croce di mia madre, una botticella con dentro la grappa, la statua in legno di un indiano d’America, libri su libri, annate dei National Geographic IN INGLESE (da cui piccino ritagliavo le foto per le ricerche), bandiere, carte da gioco dell’800…fermatemi.

Sarà per questo che i domestici da loro duravano sempre così poco, troppa roba da spolverare. Comunque uno, il protagonista della nostra storia, alla fine era rimasto.
Si chiamava Lalit ed era originario dello Sry Lanka, un’isola vicino all’India famosa per le sue qualità di tè. Lalit era il tipico orientale dal carattere sempre sorridente e serafico. In tanti anni non l’ho mai visto che dico arrabbiato, nemmeno nervoso. Un vero seguace di Budda, ma alto e magro. Era venuto in Europa per lavorare e guadagnare abbastanza per aprire un alberghetto dalle parti sue (e dopo 10 anni di sacrifici ce l’ha fatta), lavorava con cura e presto divenne molto richiesto.

Una mattina mentre mi stavo recando in Università lo vidi inginocchiato davanti alla statuina di Biancaneve. Mi fermai, stupito dalla scena insolita.
“Cosa stai facendo, Lalit?”
“Sto pregando la Signora”, rispose tranquillo indicando Biancaneve.
Venne fuori che Lalit era convinto che Biancaneve fosse la nostra Dea e i sette nani intorno i suoi fedeli adoranti. I nanetti eravamo tutti noi, che imploravamo la grazia. Tutte le mattine allora spolverava con rispetto la Dea dei suoi padroni, poi si inginocchiava e chiedeva protezione per i suoi cari lontani.
Non ebbi il coraggio di deluderlo con “la verità”, in fondo andava bene così. Me ne andai e con la coda dell’occhio vidi che aveva ricominciato a pregare.
La fede e soprattutto il rispetto trovano vie insospettabili. E’ qualcosa che risuona dentro. Non l’ho più dimenticato: Lalit mi ha insegnato questo, che nella mia vita difficile anche una semplice statuetta può diventare un momento di pace e serenità.





lunedì 14 novembre 2016


L’UOMO DI TALENTO VIENE DAL DESERTO

1.
Facciamo un salto all’indietro di molti anni. La prima immagine della storia è una piccola lucertola verde che si scalda immobile. Sdraiata sulla sua roccia piatta fissa qualcosa: un convoglio militare romano. La fila di cavalli con sopra i soldati attraversava il deserto calma, senza alzare sabbia. I grandi animali erano costanti nel loro passo. Anche i cavalieri erano concentrati sul loro compito, ne andava seriamente della vita. Gli ordini del centurione erano stati chiari quella mattina: dosare al meglio le proprie energie e far tenere un passo regolare ai cavalli. Era un consiglio saggio, non solo un ordine. La distesa di sabbia e polvere poteva in poco tempo diventare un inferno, non ci si poteva fermare per nessun motivo. Il convoglio, come una processione silenziosa, attraversava il deserto arido della Samaria senza mai rallentare il ritmo. Si udiva solo il rumore degli zoccoli.
In fondo alla fila arrancava, cercando di mantenere la loro andatura, un tipico carro romano trainato da due larghi e robusti buoi orientali, con dentro all’ombra spezie e merci varie per il mercato di Sichar, oltre a barili di acqua dolce da consumare nelle pause. Il piccolo gruppo, neanche una ventina di legionari a cavallo con il carro, avanzava in silenzio, lasciando dietro di sé un forte odore di sudore e cuoio.
Mancava ancora un bel pezzo di strada per arrivare a Sichar. A capo della colonna si distingueva un centurione sulla cinquantina, il grado riconoscibile dalle piume porpora dell’elmo, che come caposcorta determinava la velocità di tutta la colonna. Il suo nome completo era Manlio Lelio Calpurnio, ma tutti, anche i novellini, lo chiamavano sempre e solo Manlio. Non si deve per questo presumere complicità o confusione tra lui e i sottoposti. Manlio, pur di natura cordiale e cameratesco (nessuno sapeva più canzonacce di lui), era ben cosciente del ruolo superiore e sapeva tenere le dovute distanze con i soldati. Non aveva bisogno di ricorrere a strepiti o inutili minacce, gli bastava uno sguardo. Perché tutti imparavano subito che nel punire l’irascibile Manlio era severissimo, e la sua frusta non colpiva leggera. Nel bene e nel male, giusto o sbagliato, il comandante indiscusso era lui.
La rapidità nell’essere ubbidito è indispensabile per sopravvivere in battaglia, è il cardine della disciplina che porta alla vittoria, il fondamento della brutalità. Ma Manlio sapeva anche che per ottenere quella prontezza era necessario ogni giorno dimostrarsi un capo, fermo pur senza sconfinare nell’ottusità. O peggio ancora nell’arroganza.
Era un equilibrio difficile, nessuno gliel’aveva insegnato, ma ormai dopo tanti anni di comando gli veniva piuttosto naturale. E poi, nonostante il suo innegabile valore durante i combattimenti, non era uno che rischiava per vanità o imprudenza la vita dei suoi soldati. Non giudicava saggio esporli ad azzardi inutili, con il rischio di ridurre le forze. I soldati capivano questo suo atteggiamento e malgrado la sua severità lo rispettavano e gli affidavano con fiducia il loro destino.
Manlio voltò la schiena per guardare alle sue spalle il gruppo, a controllare che tutto procedesse regolarmente. Poi riportò lo sguardo in avanti e scacciando una mosca si rimise a scrutare la strada, una semplice striscia sulla sabbia. Come era diverso quel luogo dalla sua terra di origine, come era difficile ritrovarsi. Va bene, Manlio, sei uscito anche da situazioni più difficili, resisti. E poi malgrado la lentezza nella partenza sinora stava andando tutto liscio, senza intoppi. Ma solo sabbia arida in quella vastità, nemmeno una goccia d’acqua e un cielo sconfinato. La lucertola finalmente si mosse e si infilò rapida sotto la roccia, disturbata dal tremito causato dalla pattuglia.
A Manlio mancavano ormai pochi anni al congedo, era la quarta volta che percorreva con un convoglio militare quella strada, se poteva chiamarsi così un solco nel terreno largo qualche metro. A fatica tre cavalli potevano cavalcare affiancati, e il carro –che non era certo uno dei più grandi-, occupava la strada per tutta la larghezza. Molto, molto diversa dalle ampie, lastricate e ben congegnate vie che univano il resto del mondo civile, formidabili arterie dell’Impero con ponti, acquedotti, laghetti, stazioni di ristoro per i cavalli. Che nostalgia. Ma qui si era in Oriente, in una provincia turbolenta e non ancora del tutto sottomessa. Una strada costruita con tutti i crismi era prematura.
In compenso, ad intervalli costanti, previdenti pellegrini prima di loro avevano piantato alti legni, difficili da seppellire tutti con una tempesta di sabbia. Alcuni pali rinsecchiti sembravano vecchissimi, piantati da più di cento anni, e ogni tanto una solitaria colonna romana di granito indicava in latino le miglia percorse. Erano già a buon punto. In fondo, rifletteva Manlio, anche in una desolazione come quella non era difficile orientarsi.
Non avevano incontrato nessuno dalla loro partenza quella mattina. Niente di strano, chi si avventurava in un deserto? Tutto ciò malgrado si fosse verso la fine di marzo, con temperature di giorno ancora sopportabili, non quelle roventi dell’estate che rendevano pazzi uomini e animali. Tutti i soldati romani avevano comunque legato alla schiena, in maniera tale da sovrastarli, i grandi scudi in dotazione, per portarli senza ingombro e farsi un poco di ombra. Sembrava che i cavalli non trasportassero uomini, ma enormi insetti. Il dio Sole brucia chi non si protegge. Come precauzione i soldati indossavano comunque gli elmi estivi e sopra i loro panni la tipica corazza segmentata, l’armatura leggera della cavalleria romana. Manlio non ammetteva sciatterie.
L’armatura sfavillante indossata dal giovane Lucio Anneo Seneca però era diversa da tutte le altre. Nuovissima, palesemente forgiata su misura e con lo stemma imperiale sbalzato in metallo, raffinatezza di cui il ragazzo andava molto orgoglioso. Un mantello di broccato svolazzante alle spalle completava il quadro. Era fiero dei suoi abiti e degli ornamenti della cavalcatura, Seneca si sentiva nobile di nome e di fatto. Pur consapevole che si trattava solo di fronzoli e orpelli senza un reale significato, in fondo al cuore ne era comunque lieto. Lo innalzavano dal resto della compagnia, lo distinguevano dagli altri. Come un prescelto dagli dei e dal destino. Vanità certo, forse superbia, ma il giovane aveva una età in cui questi sentimenti erano giustificati.
Seneca si presentava allora come un ragazzo biondo di circa venticinque anni, con un taglio degli occhi che rivelava le origini spagnole. Le guance perfettamente rasate, non molto alto ma armonioso e prestante nel fisico. Un bel ragazzo, insomma. Gli occhi vivaci e sempre in movimento denotavano pure una intelligenza acuta, e sorrideva come sorridono i giovani, un sorriso che nasceva da dentro, gli illuminava il volto e apriva il cuore in chi lo guardava. Era una gioia vedere un giovane sorridere così.
Gli era stato assegnato un incarico di responsabilità, consegnare un dispaccio al Prefetto Valerio Grato a Sichar, dove il Prefetto si era recato in visita per qualche giorno, e riportare accompagnato dalla scorta l’eventuale risposta. Va da sé che il giovane voleva compiere quel suo piccolo dovere con scrupolo e zelo, si sentiva orgoglioso di partecipare alla grande rete di comunicazioni dell'Impero, di esserne parte viva. Era un semplice viaggio di una giornata dall’accampamento da dove erano partiti, ma il giovane non vedeva l’ora di tornare indietro. Non solo la missione occupava la sua mente.
Accarezzò il suo puledro bianco e poi con il palmo diede un colpetto di incoraggiamento. Gli voleva bene, anche solo per il fatto che doveva ricondurlo indietro. Che bel purosangue aveva acquistato un mese fa, robusto, elegante, veloce. Prima o poi l’avrebbe lanciato in una bella cavalcata, sentiva con l’istinto dei cavalieri che a volte i muscoli dell’animale scalpitavano, quel cavallino aveva una voglia matta di lasciarsi andare, di sfogarsi.
Tornare indietro? Sì, e presto. Seneca stava fantasticando su una ragazza bruna e dagli occhi nocciola con cui aveva passato la notte, e assaporava con la mente ogni istante di quelle ore. “Non te ne andare, ti prego”.
Alcuni momenti di quella magica notte erano già di diritto tra i più intensi ed entusiasmanti della sua vita. Nei suoi rari momenti di lucidità, quando il cavallo perdeva per un attimo il passo, si accorgeva con languore di quanto era stato catturato dal fascino per Lavinia. Era perfetta. Era la ragazza più incantevole che avesse mai incontrato. Ed era innamorata di lui, e lui di lei. Che occhi, che capelli. Quale dea l’aveva fatta entrare nel mondo? Certo la dea più bella, Venere. Non capiva bene cosa era successo, ma ne era felice. Ma sì Seneca, è semplice, ti sei innamorato.
Il suo maestro di filosofia anni prima l’aveva messo in guardia da un amore simile. “E’ una follia –sentenziava alzando il dito-, che rende gli uomini ridicoli e sciocchi. Un mulo selvaggio ed indomabile, da cui stare lontani, e che scalcia tutti i pensieri di onore e grandezza. Ricordati di Antonio, ricordati: non fu sconfitto dalla flotta di Augusto, ma dalla sua indecorosa passione per Cleopatra. Quella donna l’ha perduto!” Storie passate, ascoltate sorridendo, e che all’epoca non aveva capito neanche molto bene ad essere sincero. E poi anche il maestro nei suoi anni migliori si era dato da fare, l’aveva scoperto durante una cena da un suo vecchio amico.
Ma allora perché tutto quell’astio, tutta quella ipocrisia velata da moralismo? Forse la verità che il maestro non poteva confessare è che tutti nella loro vita dovevano provarla questa follia, questo sciogliersi dentro, in cui lui adesso spasimava di inoltrarsi sino in fondo. Qualcuno riusciva a farlo bene, e qualcun altro invece non era fortunato. Ma alla fine come poteva essere pericolosa una sensazione così dolce, così delicata? Si trattano così i sentimenti intimi, le cose belle? Qualcosa che rende l’esistenza più intensa, degna di essere vissuta in ogni attimo, che offre un significato nuovo a tutto?
Desiderio. Quel giorno per il giovane tutto era desiderio. La sabbia del deserto, l’aria calda, la pista diritta che si perdeva all’orizzonte e sembrava non finire mai. Nella sua mente giovane il sentiero si riempiva di curve, si trasformava nel corpo morbido di Lavinia. Un incantesimo d’amore, una dea aveva scelto di amarlo. E il mondo, anche quando così inospitale e arido come quel deserto, gli appariva meraviglioso. Anzi era meglio, perché la solitudine di quei luoghi non lo distraeva dal suo innocuo fantasticare.
Sì, voglio pensare ancora a lei. Percepiva la luce intensa del deserto che diventava una candela tremolante, il rumore dei cavalli che si annullava in un sussurro, un gemito femminile che svaniva nel sottofondo mentre ripensava agli occhi umidi di lei, che gli sorrideva a bocca chiusa. Ragazza innamorata, vivrò per te, per renderti felice. Che passione provava. Una notte d’amore, di amore vero, superiore ai tanti libri, ai viaggi in terre esotiche, alle feste, agli onori. Per Seneca solo lei adesso era veramente desiderabile. La gloria, il potere… quelli sì che si rivelavano una follia.
Ma perché preoccuparsi? Il ragazzo si sentiva talmente sereno che perdonava con uno dei suoi sorrisi tutti e tutto. Che importa se il mondo è sciocco, e insegue il fumo della gloria? Lui amava, percepiva lo stupore del mondo, la sua vera essenza. Quel giorno il giovane Seneca si sentiva come un santo, come il re Numa quando aveva amato la ninfa Egeria nei boschi intorno a Roma. E Numa, uomo felice, vivendo con lei comunicava con gli Dei.
Gli unici suoni che si udivano erano lo scalpiccio continuo dei cavalli, il loro sbuffare e il cigolare del carro. Il cielo monotono e vasto intanto sfumava sul rossastro. Stava arrivando la sera.
Il ragazzo guardò alla destra il profilo di montagne sconosciute, colorate dal tramonto. Che sfumature, che bellezza. Come vorrei che lei fosse qui con me. Amo, io amo. Ammettilo Lucio Anneo Seneca, questa notte ti è capitata una novità sorprendente. Sì, era la prima volta. Il giovane Seneca aveva spalancato la porta dell’amore profondo, del vero amore, una porta che non si sarebbe più richiusa per tutta la vita. Io amo. Io ti amerò sempre. Guardava gli orizzonti del mondo con occhi nuovi.
Seneca allora non poteva saperlo, ma raramente nella sua lunga vita sarebbe stato più felice di quel giorno, avrebbe provato la piacevole armonia del vivere più intensamente. E per sua fortuna il caposcorta sapeva come orientarsi, e lasciava il ragazzo libero di cavalcare e ritornare su ogni momento della notte.
Tornare, tornare presto. Seneca fremeva di sbrigare la missione, recarsi veloce al palazzo imperiale di Sichar, consegnare la lettera al Prefetto e rientrare con la risposta, appena le convenzioni e la burocrazia lo avessero permesso. Maledizione a lui quando aveva accettato. “Ma sì, è solo una giornata di viaggio, che ci vuole? Mercurio mi metterà le ali ai piedi.” All’epoca nella sua stupida superbia era stato anzi contento che finalmente dopo tanto ozio gli venisse affidata una missione di responsabilità. Ma ancora non l’aveva conosciuta.
Il centurione in cima alla colonna alzò la mano e disse qualche parola ai soldati dietro di lui. I cavalieri subito frenarono i cavalli e iniziarono a smontare. Cosa succede? Il giovane vedeva il loro superiore impartire ordini e i soldati che immediatamente eseguivano, smontando e allontanandosi a piedi dai loro cavalli, come se non aspettassero altro. L’onda dei suoi ordini attraversò rapida tutta la colonna, che rallentò la marcia. Il giovane realizzò quanto fosse definitiva la fermata quando vide anche il carro arrestarsi. Furioso e stupito, Seneca spronò il cavallo per fiondarsi sul centurione. Si bloccò solo a pochi centimetri.
“Che succede centurione? Perché ha dato l’ordine di fermarsi? Che accade? Non noto nulla di pericoloso o inquietante qui intorno. Cos’è questa storia? Mi sembrava di essere stato chiaro stamattina, dobbiamo arrivare a Sichar prima di sera e ripartire al più presto. Non possiamo fermarci!”
“Principe –rispose con calma Manlio togliendosi l’elmo, la sua faccia abbronzata e rugosa sembrava colorata con la terra-, non è più conveniente avanzare. La notte scende rapidamente in questi luoghi, siamo ancora lontani dalla città e il posto mi sembra un luogo adatto per accamparci. Gli uomini e i cavalli iniziano ad essere stanchi. So che si può anche trovare un buon kella, come chiamano i pozzi da queste parti, poco distante da qui con acqua fresca. Meglio sistemarci sinché c’è una buona luce. Aspetti che ordino agli uomini di preparare il campo. Il territorio è isolato e da parecchio tempo non arrivano notizie di predoni da queste parti. Del resto non è una pista mo…”
“Ma mi ha sentito o no? –gridò incredulo Seneca, che non voleva capire- Le ho ordinato di proseguire! Si rimetta in marcia il convoglio. Subito! Manlio, non voglio sentire storie!”                          
“Principe…”
“Ora!”
“Principe –il centurione non si scompose, chissà quante ne aveva viste nella sua vita-, siamo partiti troppo tardi questa mattina. E il reggimento è sotto la mia personale responsabilità. Abbiamo ricevuto l’ordine di scortarla da Valerio Gracco, ma non a tutti i costi entro oggi. Non si preoccupi per stanotte, i miei uomini sono espertissimi e sanno il fatto loro.”
Quel coglioncello si era attardato troppo stamattina. Erano già tutti pronti e lui ancora non si vedeva. E il motivo era ovvio, si vede proprio che alla sua età ragionava ancora con l’uccello. Per un momento anzi Manlio aveva anche pensato di andarsene. Si era trattenuto solo per non fare uno sgarbo al Decurione. Si era imbavagliato come adesso, cercava di tenere a bada gli occhi mentre ascoltava il suo starnazzare. Lo stimava poco, molto poco: cresciuto nella bambagia, viziato, abituato ad essere servito. Diciotto uomini che avevano dovuto aspettare i suoi comodi, come se anche loro non avessero nell’accampamento una famiglia da cui tornare. Quanta pazienza. Calma, Manlio, stai calmo. Se questo al ritorno si arrabbiava con la zia avrebbe passato dei guai.
“Non si preoccupi un corno! Il mio dispaccio è urgentissimo, e deve arrivare entro stasera a destinazione! Ma lei sa a chi sta parlando così, con tanta leggerezza? Evidentemente no. Dobbiamo volare, altro che fermarci! Rimetta in marcia gli uomini! E’ un ordine! E stia tranquillo che non finisce qui: ne parlerò personalmente con il Prefetto di questo suo arrogante e inqualificabile comportamento!”
“Domani mattina ci rimetteremo in marcia pre…”
“Adesso! Immediatamente!”
“Perdonate, ma i cavalli sono stanchi e sta arrivando una notte con solo un quarto di luna. Se marciamo al buio, perdiamo la strada o un cavallo si azzoppa, rischiamo veramente di non arrivare più. Si tranquillizzi, principe. Non è una tragedia fermarsi per riposare, è anzi doveroso in queste condizioni. Il deserto esige prudenza. Domani partiremo presto. Nel carro ci sono viveri, tende e coperte per tutti.”
Lucio Anneo Seneca si guardò intorno. I soldati aspettavano immobili e apparentemente indifferenti l’esito della discussione. Le loro facce però non erano benevole e non si muovevano. Gli occhi di tutti lo evitavano. Seneca si sentì in trappola. L’idea di passare una notte senza Lavinia lo colpì con la forza bruta della realtà, la fantasia dell’amore volò via da lui come un alato sogno. Lavinia, amore mio… E tutto per la stupida paura di azzoppare un cavallo! Ma che scorta incompetente gli avevano affibbiato? Idioti! Ci sarebbero state conseguenze gravissime! Dovevano ancora scoprire con chi avevano a che fare! Divenne furibondo, una rabbia incontrollabile e bollente saliva dalle visceri, gli arrossava il viso e gonfiava la voce. La lasciò traboccare.
“Incompetenti! Rinnegati! Mi avete disobbedito! Avete disobbedito agli ordini di un superiore! Agli ordini del vostro Imperatore! Al ritorno faremo i conti! Ci saranno delle conseguenze per tutti voi!”
Girò iroso il cavallo che nitriva, disturbato dal tono alto della sua voce, e partì al galoppo.
Grida grida, che i demoni ballano nella tua testa e se vai avanti così il tuo bel cavallino ti disarciona. Il centurione guardò eloquente Liborio, il legionario a lui più vicino, un uomo tarchiato e dallo sguardo miope.
“Brutta storia, Manlio –rispose il sottoposto sistemandosi bene sul suo baio-, quello rischia di farci passare dei guai col Decurione.” Il ragazzo intanto era partito, per andare chissà dove.
“Non ti preoccupare Liborio, tornerà. C’è qualcosa di semplice nel carattere di quel ragazzo. Si accorge tardi degli errori commessi, ma è anche intelligente e li capirà presto. E poi ho ricevuto ordini chiari dal Decurione, un uomo avveduto.”
“Ma forse il messaggio è veramente urgente.”
“Non direi. So di cosa parla la lettera, sono storie senza importanza, aggiornamenti. Solo le cattive notizie devono volare presto, le buone non interessano a nessuno. E stai tranquillo, che se erano parole serie non le affidavano certo a quel ragazzino.”
“Sai che cosa c’è scritto? Ma come hai fat…”
“Zitto, per Diana! Non dire niente. Vuoi che si sappia che so ascoltare i discorsi tra il ragazzo e la zia? Non lo sai che sono un mago? E accendi il fuoco per la sera, e sbrigati. Guarda che ti stanno già portando la legna. Appicca un bel falò, che abbiamo tutti una fame da lupi.”
“Sì sì, subito”, rispose pronto Liborio, scendendo dal cavallo e dirigendosi verso la catasta di legna a passo lesto. Dopo un breve cedimento di carattere, Manlio aveva ripreso il suo ruolo consueto. Meglio non sostare troppo nella sua visuale e tornare rapidi alle proprie mansioni. Che per il legionario Liborio, miope maestro di fiamma, consisteva nell’accendere il fuoco per la truppa, e produrre la brace a cui poi ognuno scaldava la cena. Farro e pane questa sera. E per sé aveva delle belle noci secche, Liborio si tastò con fiducia la tasca interna mentre camminava.
Il compito che Liborio si era scelto, o a cui l’avevano destinato, non era semplice (accendere un fuoco sotto la pioggia o tra la neve, con tutti che ti guardano severi, era una prova per cuori di pietra, come quelle volte in Armenia), e aveva dovuto imparare una tecnica complicata, ma portava a dei privilegi. Scegliersi un posticino vicino al fuoco senza nessuno davanti, essere ben considerato e, cosa per lui non trascurabile, quello di non andare in giro la sera a raccattare legna, magari col pericolo di imbattersi in qualche scorpione nervoso. Comunque è vero che bisognava sbrigarsi, la luce naturale se ne stava già andando.
Si tolse l’elmo, scavò una piccola buca nella sabbia e scelse alcuni legnetti sottili e secchi, quelli più adatti per la prima fiamma. Con perizia, mentre i suoi compagni accatastavano al suo fianco rami e radici secche, Liborio estrasse dalla sacca di tela tutto l’armamentario: l’acciarino, dei fili di paglia secca e per ultima la pietra focaia, una sottile lamina di ossidiana.
Usando in maniera incredibilmente leggera le sue manone appoggiò pochi fili di paglia secca sopra la pietra focaia. Una preparazione più delicata di quanto sembrasse, bastava una folata di vento storto e si scombinava tutto, era un momento intenso e degno di concentrazione, quasi un rito. Chissà quanti fuochi aveva acceso, ma ogni volta per lui era un portento, poco meno che un miracolo.
Mentre sistemava i filuzzi di paglia, Liborio rifletteva sul fatto che non aveva mai veramente capito come ci riusciva, e alla fine aveva concluso semplicemente che Vulcano, il dio del fuoco, lo guardava e proteggeva benevolo, e a lui si rivolgeva quando era in difficoltà. Quando arrivava in una città il soldato si informava sempre dove era la sua statua, e passava a ringraziarlo ogni volta. Come tutti quelli che lavorano col fuoco, anche Liborio era sensibile agli aspetti mistici dell’esistenza. Non si sarebbe altrimenti mai abituato a quella luce che nel buio nasceva dalle sue mani, a sgominare la notte insensata del mondo.
Basta crogiolarsi in vani pensieri, Liborio, concentrati sul tuo lavoro. Diede con l’acciarino di metallo dei colpi secchi ed esperti alla lamina di ossidiana. Scintille rosse volarono dappertutto. Dopo qualche colpo ben aggiustato la paglia in un punto divenne ardente. Ecco. Ci appoggiò sopra altra paglia secca e soffiò con esperienza, proteggendola dal vento. Iniziò ad aleggiare del fumo. La paglia prese fuoco all’improvviso, una bella fiamma viva. Grazie, Vulcano.
C’era voluto poco questa volta, l’aria asciutta di questo deserto è veramente ottima. Liborio aggiunse dei ramoscelli, che vennero mangiati dal fuoco con gioia. Dalla estremità spezzata di uno di loro usciva un suono sibilante, che presto si tramutava in gorgoglio. Quasi una voce, un messaggio di Diana, regina dei boschi. Il calore della fiamma viva gli fece allontanare il viso. Ce l’aveva fatta.
Un forte rumore al suo fianco lo scosse dai pensieri. Una delle sentinelle mandate in avanscoperta era ritornata, e con un grugnito aveva lasciato cadere pesantemente una grossa fascina di legna. Liborio tastò con mano esperta i rami più vicini a lui.
“Bella secca, bravo. Questa poi è del tipo che non fa fumo, splendido.”
“Non ho portato solo questa –il legionario appena arrivato ne approfittava per riprendere fiato e asciugarsi la fronte, poi piegò un poco la schiena appoggiando le mani sulle cosce-, ma anche una informazione. C’è un piccolo accampamento a tre miglia verso nord.” Il legionario indicò per un attimo la direzione, poi si rimise la mano sulla gamba.
“Strano, sai chi è che si è messo in viaggio? Altri romani? Sadducei? Mercanti? Credevo non ci fosse nessuno nel raggio di cinquanta miglia. Non abbiamo informazioni su altri viaggiatori.”
“Bah, non ho capito, però hanno più l’aspetto di Eubioniti, o Esseni. Non lo so, non me ne intendo tanto. Li abbiamo visti da lontano, sembrano più che altro dei pellegrini. Uno di quei gruppi itineranti che si spostano a piedi da una regione all’altra. Forse si sono persi, o sbandati. Non hanno cavalli, domani mattina li avremmo incontrati e superati.”
“Che seccatura però. Magari non c’è da preoccuparsi, ma vai a dirlo al centurione.”
“Tranquillo, lo sa già. Figurati che li abbiamo sentiti prima che visti. Stavano cantando un inno nel deserto, all’inizio abbiamo seguito le loro voci.”
Liborio alzò lo sguardo oltre il fuoco, e tra i vapori e le scintille del falò gli sembrò di intravedere l’altra guida mentre informava Manlio, che annuiva pensieroso. Quando ebbe finito di ascoltare, il centurione alzò la testa, diede una occhiata in giro e fece un gesto a Marcello, il legionario più alto della pattuglia. Marcello si avvicinò alla svelta, gli venne ordinato qualcosa, annuì e se ne andò. Poi Manlio scrutò i legionari, lo riconobbe e si mosse deciso verso di lui. Possibile? No, non si sbagliava, Manlio veniva proprio verso di lui!
Liborio si sentì improvvisamente nervoso e vulnerabile. Il fuoco l’aveva già acceso e di legna da ardere ce n’era un bel mucchio, che avesse combinato qualche guaio senza accorgersi?
Il carattere di Liborio, si sarà capito, era molto prudente. Sin troppo, malgrado la mole non era certo un guerriero spavaldo, anzi era piuttosto impacciato. Da quando poi la vista gli era calata era diventato ancora più guardingo, quasi timoroso. Per fortuna era grande e grosso, e nessuno si azzardava ad importunarlo facilmente. Però il suo dovere di soldato di Roma voleva svolgerlo al meglio. Gli piaceva sentirsi utile. Ma con quel capo non si sapeva mai, era difficilissimo intuire cosa gli passava per la testa. Era talmente impenetrabile che non si capiva a cosa pensava. Cosa voleva da lui? La sua figura indistinta ora era sempre più vicina, era vicinissima.
“Dai, smettila di strizzare gli occhi Liborio, sono io –Manlio sorrise-. Allora, come va? Hai finito di accendere il fuoco?”
“Sì, è bello robusto. Per la prossima ora penso che andrà da solo. Basterà aggiungere un ciocco ogni tanto. C’è bisogno che faccia qualcosa?”
“Bravo. Senti, che ne dici di accompagnarmi? Andiamo ad ispezionare un accampamento di pellegrini a nord. Vengono con noi Fabio e Marcello, nel caso capitasse di doverci scambiare qualche parola, sai che Marcello conosce bene il dialetto di questa gente. Te la senti di venire con noi?”
Liborio tirò interiormente un tiro di sollievo. Era raro che lo si chiamasse per partecipare ad un giro di ricognizione. Non ci avrebbe mai pensato: in quelle circostanze serviva una vista acuta e lui da tempo era fuori dai giochi. Lo visse come un premio da parte di Manlio, che come spesso faceva nascondeva un ordine a cui non si poteva sottrarsi sotto una richiesta cortese. “Oh sì grazie, volentieri. Ho proprio bisogno di una bella cavalcata. E’ tutto il giorno che mangio la polvere del carro. Prendo le armi.”
“Poca roba, mi raccomando. Staremo via poco, spero. Torneremo presto per cenare. E’ solo una perlustrazione nel deserto, niente di impegnativo. Tanto per stare tranquilli.”
In pochi minuti i quattro uomini erano pronti a cavallo. La consapevolezza di essere stati chiamati per una missione facile e poco pericolosa metteva i legionari di buon umore. Era l’occasione giusta per fare bella figura di fronte al capo, e avevano trovato tutti nuove energie da spendere. Peccato per la poca luce, ma si riusciva a notare comunque tutto. Nemmeno una nuvola, il sorriso del quarto di luna splendeva luminoso nel cielo. E anche nell’accampamento aspettavano solo che il centurione si levasse dai piedi per stare più tranquilli.
Il centurione diede gli ordini ad alta voce e partì per primo. L’andatura imposta al suo cavallo era un rilassato trotto, e i tre uomini di scorta lo seguirono ubbidienti, dirigendo a bassa voce i loro cavalli. Presto furono lontani e nel giro di pochi minuti erano tutti spariti nel buio.


2.
Erano partiti da poco quando Fabio, un novellino al primo anno di ferma, scorse in lontananza qualcosa che si muoveva. Si irrigidì sulla sella, grattandosi la barba, già folta per uno della sua età. Non rallentò l’andatura e non si azzardò a dire nulla, continuando a scrutare il punto in movimento. Forse un semplice sciacallo, o forse no. Quando fu sicuro che non si trattava di un falso allarme si rivolse a Manlio.
“Centurione…”
“Dimmi, ragazzo.”
“Nuove seccature all’orizzonte.”
Spronando il suo cavallo, il giovane Seneca si dirigeva verso di loro. La figura bianca del suo cavallo si faceva sempre più vicina e riconoscibile. Era proprio lui. Si fermarono tutti ad aspettarlo.
“Ahi ahi –disse uno- chissà che cosa vuole? Ha finito presto il suo giro di riflessione.”
“E’ un idiota. Avete notato che ringrazia sempre tutti?”
“Uh, che signorino! Lasciamolo in mezzo al deserto, così impara un po’ di vita.”
“Speriamo che gli sia sbollita la rabbia. Se si lamenta ancora giuro che gli pianto questo pilum nella sua bella corazzina.”
“Non toccare il giavellotto, scemo. E state zitti voi –intimò Manlio-. Lasciate parlare solo me. Chiudete quella boccaccia, che entrano le mosche. E’ un ordine.” Manlio sospirò mentre aspettava che gli arrivasse vicino, prima era uscito di persona dall’accampamento soprattutto per rintracciare il ragazzo, la perlustrazione era solo un pretesto. Era preoccupato, e meno male che l’avevano ritrovato subito, tante complicazioni in meno. I soldati però mugugnavano.
“Zitti ho detto!” Preziosi Dei, perché ieri aveva accettato quell’incarico?
“Centurione! Centurione! Sono io, Lucio Anneo Seneca!”
“Salute, o principe. Piano, faccia piano. L’avevo riconosciuta. Noi abbiamo ricevuto una segnalazione e stiamo andando a controllare un gruppo di pellegrini a nord. E’ distante solo qualche minuto a cavallo, un semplice giro di ricognizione.”
“Vi dispiace se mi aggrego anch’io?”
“Certamente no, principe. Anzi, un cavaliere in più è sempre un dono degli dei. Noto però che il suo bel destriero è molto sudato per la corsa. Così accaldato con questo fresco rischia di prendersi un malanno. Occorre asciugarlo. –Manlio scese da cavallo e si volse indietro- Fabio e Liborio!”
“Agli ordini”, risposero lesti i legionari.
“Prendete delle coperte e strigliate il cavallo del principe che è tutto sudato. Dategli anche biada e acqua, ma poca. Attenti che si può ingozzare.”
“Subito.” Fabio e Liborio smontarono da cavallo, presero delle coperte grezze e iniziarono con cura ad asciugare il corpo del puledro ansimante. Intanto anche Seneca era sceso a terra.
Mentre i due legionari si affaccendavano, Seneca diede una pacca affettuosa all’animale, poi si incamminò verso Manlio, come per dirgli qualcosa. Manlio, pronto a qualsiasi evenienza e discussione, si avvicinò a sua volta. I tratti del volto del giovane però sembravano benevoli.
“Grazie per le sue premure, centurione. A proposito –il giovane abbassò un poco occhi e voce, i capelli biondi gli coprivano la fronte-, approfitto di questo momento di pausa anche per chiederle scusa per prima. Il mio scatto d’ira è stato imperdonabile, e ho lasciato uscire delle parole… poco piacevoli. Ci ho ripensato mentre cavalcavo e presto in me i vapori dell’ira si sono dissolti ed è subentrato il pentimento. Sono stato veramente uno sciocco. Avevo dimenticato quanto mi era stato insegnato con cura: non ho considerato il contesto, e ho lasciato che le mie passioni… il mio zelo mi velasse la mente.”
“Non ha nulla da rimproverarsi principe –disse Manlio, che conosceva gli uomini-, contrasti come quello che ha ricordato sono eventi normali in una missione come la nostra. Io me ne ero già dimenticato. Si unisca a noi piuttosto, ci farà solo piacere.”
“Volentieri. E grazie, speravo in questo esito. Sapevo che lei, oltre ad essere un uomo esperto, è anche ragionevole e intelligente. Ha fatto bene il Decurione a incaricarla di guidarci nel deserto. Bene.” Manlio aveva ascoltato le scuse del giovane con cortesia.
Troppa cortesia. Il centurione gli fece un cenno di assenso con la testa, senza rispondere nulla. Non c’era bisogno di tante parole in quei momenti, e l’esperienza aveva insegnato a Manlio di non fidarsi troppo dei complimenti dei nobili. Intanto aveva notato che Fabio e Liborio avevano finito di frizionare il cavallo ed erano ritornati sulle loro selle.
I due fecero un segno al centurione che si rivolse a Seneca.
“Il suo puledro è pronto e ristorato, principe.”
“Magnifico! -con leggerezza giovanile Seneca corse verso il suo cavallino, saltò in sella e afferrò saldamente le redini- Sono pronto allora. Dove andiamo?”
“Verso nord –spiegò Manlio salendo a sua volta-, in poco tempo dovremmo arrivare all’accampamento segnalato. Attento a dove il suo cavallo posa gli zoccoli. Che il potente Mitra ci accompagni! Andiamo! Per il coraggio!”
“Per il coraggio!”, risposero tutti insieme spronando i cavalli.
La cavalcata fu breve e piacevole. La distesa di sabbia era liscia e compatta, e anche con poca luce le pietre nel terreno potevano essere evitate facilmente. Spirava un vento fresco, vero refrigerio per tutti dopo una giornata passata al sole. Gli occhi si erano abituati al buio e prestissimo giunsero in vista del gruppo di pellegrini.
Fu Marcello a vederli per primo. “Laggiù!”. E’ vero che di notte un fuoco nel deserto non si può nascondere, ma Seneca si accorse che in quella vastità i suoi sensi erano acuti come non mai. Forse era la trasparenza dell’aria, il clima asciutto, la sabbia fine, e chi lo sa. Non aveva ancora mangiato, anche l’appetito lo rendeva più lucido. Malgrado il fuoco fosse ancora lontano, riusciva a scorgerlo bene, addirittura riconosceva i contorni delle persone sedute intorno.
Manlio, al centro del gruppetto di cavalieri, man mano che si avvicinava rallentava l’andatura, e tutti si adeguavano. Il centurione non perdeva di vista il gruppo intorno al fuoco, e ogni tanto guardava ai lati. Era evidente la sua cautela. Alzò la mano quando furono quasi arrivati, e ordinò a voce bassa di fermare i cavalli.
Si bloccarono tutti ad una breve distanza, saranno stati una ventina di passi. Ora agli occhi dei soldati risaltava tutto chiaramente. Il gruppo di persone era una compagnia consistente, ad occhio e croce almeno trenta individui. Il loro ammontare preoccupava Manlio. Erano più numerosi del previsto e loro erano troppo pochi. Una situazione rischiosa, al suo ritorno una lavata di capo alle avanguardie non la levava nessuno. Intanto però loro erano lì.
Gente di quella terra probabilmente, si distinguevano uomini e donne, vestiti con tuniche e mantelli, ma di che tribù erano? Amici o nemici? Perché si trovavano in quel luogo disabitato? Dove stavano andando? Stando attenti ad ogni cosa, guardinghi e aprendosi a ventaglio, i romani si accostarono più vicini al gruppo. A pochi metri Manlio fermò definitivamente tutti, e aspettò.
Seguì una scena quasi surreale. Nessuna delle persone sedute intorno al falò si alzò per venire loro incontro e salutarli, o fece il minimo gesto di averli notati. Sembrava che non li avessero nemmeno visti emergere dal buio. I soldati parevano invisibili, e i pellegrini continuavano a discutere tra di loro come se nulla fosse. Non c’erano cani che abbaiassero, e i romani ai confini del cerchio di luce ascoltavano i loro cavalli sbuffare.
Non si erano annunciati, né avevano portato trombe o sonagli o torce, ma un falò nel deserto si sa che attira inevitabile i forestieri. I pellegrini dovevano aspettarsi visite, dovevano essersi accorti di loro. Seneca, non a conoscenza di quelle situazioni, era il più a disagio. Fece per dire qualcosa, un saluto, ma poi rimase zitto a osservare. Se loro li ignoravano, e anche Manlio stava zitto, certo c’erano dei motivi.
Nel cerchio di persone si riconoscevano alcune donne, ma per la maggioranza era composto da uomini. Non c’erano bambini. Con l’occhio del militare, Manlio aveva notato anche la mancanza di armi. Nessuna spada o arco, al massimo ci sarà qualche fionda o pugnale nascosto sotto le tuniche. Stiamo comunque attenti. Pellegrini, che si spostavano a piedi per la regione da un paese all’altro, vivendo di elemosine e offerte.
Brutta razza quella, gente fanatica, esaltati da cui stare lontani. Ma non sembravano latrones, non ne avevano i mezzi. Neanche un mulo avevano. Era già un miracolo che fossero riusciti ad accendere il fuoco. Probabilmente stavano dirigendosi a piedi verso il fiume, forse per qualche rito dei loro, avranno qualche ricorrenza, qualche astrusa cerimonia. Chi li capisce questi qua. Ne hanno da marciare in ogni caso, ancora per qualche giorno minimo.
Tutti stavano discutendo animosamente, a gruppetti separati. Qualcuno era infervorato e prendeva la parola a voce alta. Manlio però non capiva nulla del loro dialetto. Dopo un po’ si rivolse al legionario originario di quei posti, quello alto e ossuto, e lo chiamò a sé. Lo sapeva che sarebbe tornato utile. Si faceva chiamare Marcello, avendo latinizzato il suo barbaro nome originale. Era provvisto di una carnagione piuttosto scura e anche se giovane i capelli ricci oramai gli stavano cadendo dalla sommità del cranio, diceva sempre scherzando che il sangue faceva fatica ad arrivare così in alto.
“Marcello –disse serio Manlio-, vieni qui. Capisci di cosa stanno parlando? Sai a che tribù appartengono?”
“Non lo so centurione, ma parlano un dialetto familiare. Sono lontani ma qualcosa afferro. Posso avvicinarmi?”
“No, rimani qua e riferisci quello che puoi. Fai del tuo meglio.”
Il legionario aguzzò i sensi e rimase in silenzio per un minuto, concentrato. Poi tradusse a bassa voce.
“Sembra… se ho ben capito stanno discutendo a chi devono andare stasera due pagnotte di pane, sono rimaste solo quelle per tutti. Oltre a delle locuste selvatiche che hanno trovato oggi sotto i sassi e alcune radici amare, ma non possiedono altro. E’ da dieci giorni che marciano, le provviste sono finite. Solo domani sera sperano di arrivare in un nuovo paese.”
“Siamo generosi, mi sembrano allo stremo, diamogli un poco delle nostre. Grazie al cielo ne abbiamo in abbondanza”, si intromise Seneca.
“No no, per gli Dei! –il legionario si voltò verso di lui sbarrando gli occhi-. Vi prego, non lo faccia principe. La scongiuro, per i nostri antenati. Lei non ha idea di quanto sono orgogliosi questi… Non accetteranno nulla da noi, anche se stanno morendo di fame. Considerano i romani sempre nemici, invasori senza fede.”
“Addirittura!”
“Mi scusi se le espongo queste notizie sgradevoli, principe, magari le conosce già, ma per loro i conquistatori restano ancora oggi spiriti sanguinari, che hanno portato nel loro paese solo disgrazie e violenza.”
“Vero. Forse non lo diranno apertamente –mormorò Manlio-, ma lo pensano tutti.”
“…Stranieri piombati su di loro –Marcello continuava infervorato- anni fa per espiare qualche grave peccato. Se uno di loro accettasse qualcosa verrebbe subito isolato e cacciato nel deserto da solo, come un traditore. Non sto esagerando: la mia famiglia è stata allontanata dal paese per la mia scelta di entrare nell’esercito romano.”
“Vero anche questo –confermò Manlio che conosceva tutta la storia-. Purtroppo Marcello ha ragione.”
“E’ già un miracolo –continuò il legionario- che abbiano tollerato la nostra presenza senza protestare. Ma le assicuro che, anche se non sembra, ci stanno tenendo d’occhio. Bisogna avere molta cautela con loro, sono permalosi e basta una parola sbagliata, un gesto fatto male, e ce li ritroviamo tutti contro. Prudenza, principe.”
“Ci odiano o ci temono? Sapevo che qualcuno di noi non era ben visto, ma pensavo..."
"A bassa voce, principe, parli a bassa voce.”
Il legionario spilungone era veramente imbarazzato. Continuava a muoversi, come i bagliori del fuoco sulla sua armatura. Si intuiva in lui il conflitto tra l’obbedire ai superiori e la conoscenza dei suoi conterranei. In battaglia però si era dimostrato un elemento di valore. Forse valeva la pena ascoltarlo.
“E sia, ma solo perché sono curioso di vedere come finisce questa pazzia. Legionario, almeno puoi tradurre quello che dicono o li disturbiamo anche così?”
“Principe, non si alteri –Manlio intervenne cercando di smorzare la tensione-. E tu cosa aspetti a tradurre al signor principe?”
“Sì subito, stanno discutendo sempre del pane. Vedete? Quelle due forme scure sulla sabbia, sulla destra del fuoco.”
“Sono piccole. Dovrebbero bastare per tutti?”
“Purtroppo sì. Stanno discutendo del modo migliore per suddividerlo.”
“Interessante –Seneca si sistemò sulla sella-, un dilemma antico. Chi ha diritto al pane?”
Il gruppo dei pellegrini intanto si era animato, apparentemente dimentico dei soldati che li guardava. La tensione cresceva in maniera incontrollata. Si notava che era gente abituata a mettersi in discussione e ad alzare la voce, ma questo non sembrava un semplice dibattito. Si stava trasformando in un litigio. In particolare tre di loro si stavano quasi accapigliando con toni sempre più alti, lanciandosi l’un l’altro dei gesti che i romani non capivano. Ma il significato generale era chiaro, volavano insulti.
“Ci sono varie soluzioni, tutte contrastate –disse sottovoce Marcello-. Suddividerli in alcune parti e darle ai più meritevoli, o tutte ai più forti, ai più affamati, consegnarli alle donne, ai più anziani, al più… scusate, non riesco a seguirli.”
“Sì sì, non fa niente, ho capito.”
Se siamo fortunati questi barbari si scanneranno da soli, si augurò Manlio.
In effetti adesso stavano parlando quasi tutti insieme. Qualcuno si era definitivamente arrabbiato, e mostrava i pugni minaccioso. Via via che i contrasti crescevano Manlio stava sempre sul chi vive, la mano sulla spada. Queste discussioni non si sa mai come vanno a finire. Brutta bestia la fame, vuoi vedere che alla fine se la prendevano con loro?
Ci fu un attimo di silenzio, come a volte accade nelle controversie. Tutti si voltarono a guardare uno del gruppo che non aveva parlato mai. Seneca non riusciva a vederlo bene, gli dava le spalle ed era seduto tra lui e il fuoco. Con voce pacata e nel silenzio, l’uomo disse qualcosa, che il soldato subito tradusse a bassa voce.
“Quel tipo ha detto che si divideranno le pagnotte in tante minuscole porzioni, e ciascuno ne otterrà una parte.”
Uno del gruppo protestò immediatamente, alzandosi e gesticolando, al che l’uomo dopo qualche secondo di tensione rispose qualcosa.
“Ma così tutti soffriremo la fame, dice quello che si è alzato, e forse qualcuno morirà, mentre se lo diamo a pochi siamo sicuri che almeno quelli vivranno! No, ha risposto l’uomo, sopravviveranno tutti quanti, perché oltre al pane si nutriranno dell’idea divina della vera giustizia.”
A queste ultime parole tutti stettero zitti. Poi qualcuno cominciò a cantare, e ben presto si unirono tutti gli altri. L’armonia era ristabilita.
“Un uomo che ragiona così –pensò Seneca-, o è uno sciocco o è un uomo vicino agli Dei.”
Mentre tutti cantavano e le donne distribuivano uguali bocconi a tutti, Seneca scese da cavallo.
“Principe, cosa fa? –Manlio ringhiò a denti stretti-. Rimonti subito a cavallo! Principe! Non sappiamo nemmeno chi sono! Non c’è da fidarsi di questi! Torni indietro!”
“Voglio andare da colui che ha parlato.”
“Principe, la scongiuro, torni indietro! Per la saggezza di Minerva, ritorni in sé. Li sta provocando!”
Tardi. Lucio Anneo Seneca era sceso da cavallo e si era incamminato verso il gruppo. Si mise l’elmo sotto il braccio e con un gesto della mano intimò ai quattro soldati dietro di lui di stare calmi e non fare nulla. Manlio stava sudando freddo; ritornare il giorno seguente era un rischio calcolato, ma se succedeva qualcosa all’amato nipote finiva nei guai con la zia. Quella matrona era potentissima. Non poteva crederci che quel ragazzo ficcasse la sua testa stupida così in mezzo ai guai. Ottuso spagnolo! Deficiente di un ragazzino! E mentecatto lui che aveva accettato quell’incarico! Se lo sentiva, se lo sentiva sin dalla mattina che qualcosa sarebbe andato storto.
Seneca intanto era arrivato al limitare del cerchio di luce, vestito con la sua raffinata armatura da viaggio che lasciava libere le cosce. Continuò sereno a camminare, senza pensare al pericolo, e comparve in mezzo a quegli uomini in tunica grezza, ma come un invitato fuori posto e non gradito.
Qualcuno anzi dava finalmente segno di averlo notato, e sibilava qualcosa, indicando la sua spada. Seneca si era dimenticato di lasciarla sul cavallo. Un uomo fissandolo negli occhi sputò con disprezzo nel fuoco. Il romano se ne accorse, e ne fu turbato. Forse prima Marcello aveva proprio ragione, erano comunque sempre mal disposti verso di loro. Tutti lo guardavano ostili, era sceso un silenzio carico di tensione.
Si avvicinò senza dire nulla all’uomo che aveva parlato per ultimo e che lo interessava. Stava ancora seduto per terra e c’era una donna vicina a lui che gli teneva il braccio, forse la moglie. Era un giovane dagli occhi intelligenti, con neanche tanta barba. Quasi della sua età.
Quando fu davanti a lui si rese conto che non sapeva bene cosa dirgli e che lingua usare. Parlare in latino era inutile, e della lingua locale sapeva solo qualche parolaccia. Perché non si era portato dietro Marcello? Non sapeva che fare. Cominciò balbettando e dicendo “Ave”, ma si sentì stupido.
Fu il giovane seduto per terra a rompere il suo evidente imbarazzo. Tese la mano verso Seneca. Tirami su, aiutami. Seneca lo aiutò ad alzarsi. Senza fatica, quell’uomo era magro. Quei pellegrini erano tutti magri. Quando fu in piedi vide che erano quasi della stessa altezza. I suoi occhi sorridevano, e Seneca si sentì confortato.
Seneca si fece conoscere, toccava a lui presentarsi, parlò in latino: “Ave, sono Lucio Anneo Seneca, figlio di Seneca il vecchio.” Poi sorrise, attendendo dal giovane una risposta.
Il ragazzo con la barba rispose dicendo qualcosa, ma furono interrotti da un brusìo. Cosa stava succedendo? Seneca girò la testa e vide Manlio e gli altri romani entrare nel campo con passo marziale. Oddio, no. L’imponente figura di Manlio incuteva timore e reverenza. Indossava l’elmo piumato di guerra, e sembrava ancora più alto, con la sua collana di grossi denti di orso. Ma era soprattutto l’espressione degli occhi a fare paura, sembrava che volesse mangiare il primo che gli fermava la strada. Il suo sguardo duro spinse l’odio che li avvolgeva a trasformarsi in timore. Dominando la situazione, mentre tutti guardavano per terra, il centurione romano scorse Seneca e si diresse deciso verso di lui.


3.
Ogni suo movimento rivelava energia trattenuta, un uomo di guerra dalla grande forza vitale, una persona da cui stare lontani. Quando fu vicino a Seneca si arrestò e fece il saluto militare.
“Principe, siamo venuti per portarla indietro.”
Seneca tentò di reagire. “Ma sono appena arrivato!”
“Per favore non discuta ulteriormente. Qui è in grave pericolo e la sua nobile persona è sotto la mia responsabilità. Mi segua.”
“Stia calmo, centurione. Si guardi intorno, non c’è alcun pericolo. Sono solo pellegrini e volevo stare un poco con loro. Si guardi intorno, le ripeto, non c’è nulla di cui preoccuparsi.”
Manlio non degnò di una occhiata il gruppo, teneva lo sguardo fisso su Seneca.
“A questa feccia piace catturare i romani per poi torturarli. Sua zia non sopporterebbe questa infamia al suo onore. Andiamo.”
“No. Qui ci resto sino a quando voglio io, e ricordi che non sono uno dei suoi soldati. Appartengo al ceto dei Cavalieri, Manlio, ed esigo rispetto. Non mi dia ordini, e stia al suo posto.”
Il contenuto della conversazione tra i due era teso, ma il tono restava basso, anche se il centurione era furente. Al rifiuto del ragazzo avrebbe voluto sguainare il gladio e puntarglielo alla gola, basta con queste scempiaggini. Ma doveva dominarsi. Si limitò a lisciare pensoso il suo mantello, poi rialzò gli occhi. In silenzio fissava il ragazzo con occhi cattivi. Voleva intimorirlo. Nessuno parlava o si muoveva, si sentiva solo il rumore dei ciocchi che bruciavano nel fuoco.
Seneca riuscì a sostenere quello sguardo truce. Ne andava del suo onore. Cercò di non pensare a niente, per non far trapelare nulla del suo animo.
Manlio alla fine parlò. “Non posso obbligarla, ma se potessi lo farei volentieri.”
“Lei non ne ha il diritto!”
“Ma ho la forza, e questo mi basta. Allora, viene?”
“No!”
“Principe, sia ragionevole, non faccia il bambino. Ci pensi bene. Mi segua.”
“No!”
“St… -Manlio stava per dire parole di cui si sarebbe pentito, ma si controllò in tempo. Facendo appello alle sue ultime briciole di pazienza il centurione cambiò tattica-. Va bene, faccia come preferisce. Lei è più testardo di Ares, ma poi non dica che non l’avevo avvisato. Qui è in pericolo, se ne accorgerà –si rivolse poi a Liborio e Marcello-. Restate con il principe. Non abbandonatelo per nessun motivo. E tornate tutti al campo il prima possibile.”
Manlio guardò severo per l’ultima volta Seneca, che continuava a non muoversi. Poi il centurione gli voltò le spalle e fece un urlo imperioso a Fabio. I due si diressero verso i cavalli e uscirono dal campo visivo. Sparirono nel buio, si udì che salivano rumorosamente sulle cavalcature e partivano spronando i cavalli.
Se ne erano andati. Li avevano lasciati soli. Appena fu certo della loro partenza Seneca provò una angoscia crescente. Quasi si sarebbe messo a correre dietro di loro. Aveva fatto bene a restare? E se Manlio aveva ragione? In effetti aveva udito anche lui storie terribili. Stava rischiando la vita? Liborio e Marcello l’avrebbero protetto? No, erano troppo pochi. Dei, perché non si poteva tutti vivere in armonia?
Ma si rendeva anche conto che se correva dietro a Manlio sarebbe diventato lo zimbello di tutto l’accampamento. Già prima aveva fatto una figura poco dignitosa. Meglio continuare, sarà quel che sarà. Sì, andiamo avanti. Guardò il gruppo di pellegrini, che aveva osservato la scena perplesso. Non capitava tutti i giorni di vedere due romani importanti litigare. Adesso aspettavano la sua prossima mossa.
E sia, andiamo sino in fondo. Bisognava… bisognava fare qualcosa. A Seneca venne in mente il problema del pane, con sé avevano qualche cibaria. Si strinse l’elmo al fianco e disse a voce alta: “ho portato delle provviste, spero le gradirete. Marcello, per favore, traduci a questa gente, e poi vai a prendere tutte le cibarie negli zaini. A dei romani forse non basterebbero, ma questa è gente semplice.”
Appoggiandosi alla lancia Marcello tradusse le parole di Seneca, e le sue parole ebbero un effetto straordinario. Il gruppo all’inizio ascoltava dubbioso la traduzione di Marcello (era troppo lunga, ci stava mettendo del suo, cosa stava dicendo?), ma dopo un momento di esitazione si levarono voci di felicità e risa. Un uomo venne da lui per baciargli la mano riconoscente, ma Seneca tirò via la mano imbarazzato.
Gli offrirono un posto vicino al fuoco, e si sedette in mezzo a loro. In molti, praticamente la totalità del gruppo, vennero a guardarlo e parlargli. Era forse il primo romano che li trattava bene? Lucio Anneo Seneca sorrideva a tutti, anche se non capiva le parole sapeva che quello del sorriso era un linguaggio universale. C’erano più donne di quel che pensava. Forse con imprudenza ma seguendo un moto istintivo si levò la sua corazza cesellata, sciogliendo i lacci che la legavano e appoggiandola con l’elmo sulla sabbia. Ora, inaudita visione, era vestito praticamente come loro, solo tunica e calzari, con uno sforzo di fantasia poteva anche assomigliarci, a parte i capelli biondi.
Il giovane con la barba che lo aveva interessato venne a sedersi accanto a lui. Gli mise amichevolmente una mano sulla spalla e iniziò un lungo discorso. Aveva una bella voce e indossava una tunica chiara con frange colorate. Seneca gli sorrise, ma non capiva nulla delle sue parole. Seneca allora cercò con gli occhi Marcello. Lo vide che rideva e parlava con due anziani.
“Aspetta, non capisco, non capisco… Marcello! Marcello, per favore vieni qui!”
Marcello arrivò quasi di corsa. “Principe, è incredibile, è gente che viene da un paese vicino al mio! Mi sembrava di conoscere qualcuno!”
“Ah bene, allora capirai il loro dialetto. Cosa mi sta dicendo quest’uomo?”
Marcello e il giovane si presentarono nella loro lingua. Poi il giovane disse qualcosa al legionario, che gli rispose con entusiasmo. Iniziarono a conversare assorti e Seneca intanto si guardò in giro.
Vide Liborio poco lontano circondato da alcuni giovani, incuriositi dalla sua armatura e dal fatto che fosse così grosso. Liborio aveva estratto da una tasca le noci secche, le frantumava con le mani e offriva la polpa ai ragazzi, che ridevano. Un pellegrino intanto aveva tirato fuori dalle sue maniche un piccolo tamburello e iniziò a suonare una musica tribale, ispirato dal fuoco. Era veramente bravo, con uno strumento povero e modesto sapeva tirare fuori suoni molto modulati. Presto una ragazza giovane si mise a cantare e ballare in maniera aggraziata. Una danza sinuosa ma non volgare. Semplice, da restare incantati.
C’era un’aria di festa, era bastato poco in fondo. Al di fuori del cerchio illuminato, il deserto silenzioso circondava il gruppo. Un punto di luce nelle tenebre. Seneca alzò gli occhi, le stelle costellavano il cielo scuro scuro. Non ne aveva mai viste tante. Come brillavano intense.
Che pace che c’è qui, pensava Seneca, che serenità. Che vita sana.
Pensò a Lavinia e gli venne uno struggimento al cuore. Gli uscì piano un sospiro dal petto.  Come vorrei fosse qui con me. La ragazza intorno al fuoco intanto cantava muovendo le mani sulla testa e rivolgendosi a tutti, quasi implorando.
“Scusa, cosa significa questa canzone?”, chiese a Marcello, interrompendo per un attimo la sua conversazione.
“Ah, è una canzone d’amore delle nostre parti, parla di una giovane che canta ad un ragazzo che è lontano. In questo momento sta dicendo:
“Ti amo anche se tu non mi conosci
e forse vorresti farlo, ma più probabilmente no
Ti ho visto passare sotto la mia finestra
E mi alzo ogni giorno per vedere il tuo sorriso
Allora canto il mio amore questa notte
perché il vento lo porti presto da te
Il vento che ti accarezza, l’aria che respiri
Ti portano la mia voce che entrerà dentro te
Perché spero tanto che ti innamori di me
Spero tanto che ti innamori di me”
Dopo la breve traduzione, Marcello si voltò per riprendere la sua conversazione, mentre Seneca fissava sempre la ragazza che cantava. Il suo pensiero ritornò presto a Lavinia. Erano lontani, ma la loro unione era già forte. Forte. Anche Lavinia aveva una bella voce, che gli faceva pulsare il cuore, e quando si muoveva sembrava una sirena nel mare.
Non avrebbe mai dimenticato il movimento naturale del suo corpo, quando stanotte si era infilata nuda sotto le lenzuola. Era per lui, era soffice e pulita. La sognerò stanotte. Lavinia, come mi manchi.
Fu Marcello, mentre la musica cambiava diventando un brano corale, a distoglierlo da questi pensieri. “Principe, scusate, volevo tradurvi ciò che mi sta dicendo quest’uomo. Mi ha pregato di porle una domanda nella nostra lingua. Se però mi permette, io vorrei prima pregarla di… di…”, il legionario esitava. Al suono della musica si erano unita prima un’altra ragazza, che dai lineamenti simili sembrava la sorella, poi altri pellegrini. Tutti ballavano intorno al fuoco, battendo le mani. Incredibile quanta voglia di festa e di divertirsi aveva questa gente. A Roma, irrigiditi tutti com’erano nell’etichetta, non sarebbe mai successo.
“Marcello, cosa c’è? Dai, sputa il rospo.” Seneca non sapeva se essere inquieto o divertito dal suo imbarazzo. In realtà gli era venuta voglia di partecipare pure lui alla danza, ballare intorno al fuoco con quella gente. Cosa poteva mai domandargli quell’uomo di azzardato e antipatico? Proprio adesso? Speriamo non sia nulla relativo all’arte militare, o ai loro movimenti come truppa.
“Ecco, principe, non si alteri alle sue parole. E mi perdoni. Costui vuole avanzare una questione insolita, stramba. Gli ho detto che per me era irriverente e senza rispetto per la vostra augusta persona, ma lui ha insitito.”
“Sei noioso Marcello, sbrigati a porre questa domanda. Avanti. Poi vedrò se è il caso di rispondere o meno.”
“Lui mi ha spiegato, ecco… che voi siete innamorato, ai suoi occhi è evidente l’invisibile corona dell’amore sulla vostra testa, avete una luce particolare nello sguardo, vivete di amore. Ma voleva anche sapere se vivete con amore.”
“Cosa?”
“Sì, questa è la domanda. Secondo costui, se ho bene inteso, l’amore e il volersi bene sono una sorta di regola d’oro anche in tempi difficili come questi. Scusate ancora la mia insolenza, forse la domanda è assurda.”
Seneca rimase in silenzio per qualche istante, pensieroso. Era così trasparente? No, aveva avuto l’accortezza di celare i suoi sentimenti. Ma allora come era riuscito a capire quel pellegrino in così poco tempo il suo stato d’animo? Si era forse comportato in maniera rivelatrice? Gli era sfuggito qualcosa? No. Ma allora? Quell’uomo lo stupiva sempre di più.
“Digli che sono un soldato. Un soldato di Roma.”
Marcello e l’uomo confabularono per qualche istante, mentre Seneca riportava lo sguardo alla danza intorno al falò. Poi Marcello scoppiò a ridere. Che succedeva? Marcello si volse mentre stava ancora ridendo verso Seneca.
“Scusate se rido, ma mi ha chiesto di domandare se volete bene ai vostri nemici. Quest’uomo è un pazzo, principe.”
Seneca e il giovane si guardarono negli occhi, mentre Marcello cercava di soffocare il suo riso. Il volto del giovane era sereno. A Seneca parve di intravedergli negli occhi qualcosa che forse era degno di essere conosciuto. E ciò che è degno di essere conosciuto –gli diceva il suo maestro-, è degno di essere conosciuto bene.
“Non lo so se è pazzo o stolto o un vagabondo. Bisogna investigare, e adesso è il mio turno di fare domande. Chiedigli chi è e da dove viene. Verrà pure da qualche posto. Mi raccomando, sii serio.”
“Sì certo, mi scusi. Qualcosa in ogni caso ve lo posso anticipare io, principe. Ne ho conosciuti parecchi come lui da ragazzino. Mio nonno quando ne parlava diceva sempre che “l’uomo di talento viene dal deserto”.”
“E cosa significa?”
“Era il suo modo di trattare le novità. Affermava sempre che per quanto ci sforziamo, per quanto insegniamo con le migliori intenzioni ai nostri figli, per quanto ci ingegniamo, alla fine otteniamo spesso tanti prodotti banali. Poi arriva un ragazzo sconosciuto, si siede e suona delle cose nuove, bellissime. Chi è? Da dove viene? Non lo sappiamo, è venuto dal deserto. Magari dopo lo scopriremo, ma all’inizio è uno stupore.”
“Uomo saggio, tuo nonno. Ma allora costui –Seneca indicò discretamente il giovane con la barba- chi sarebbe?”
“E’ uno di quei predicatori erranti che girano per le campagne e i paesi, vivendo delle offerte dei fedeli e predicando il loro libro sacro.”
“Ah, allora sa leggere. Chiedigli dove ha imparato.”
Marcello si rivolse ancora al giovane, e questa volta il loro dialogare fu breve. Seneca notò che comunque, anche se prima l’aveva chiamato pazzo, Marcello lo trattava con rispetto.
“Dice che è il figlio di un falegname. Ma da bambino è stato portato in Egitto per qualche anno, e lì ha imparato a leggere e scrivere da un vecchio scriba, come dice lui. Io non so di chi stia parlando. Poi…”
“In Egitto? –Seneca fece uno dei suoi famosi sorrisi-. Chiedigli dove, conosco bene quel paese. Oh, che bello!”
Lucio Anneo Seneca, desideroso di conoscere meglio il giovane, era contento di aver trovato qualche spunto in comune. Proprio per curare una fastidiosa malattia ai polmoni sei anni prima infatti era sbarcato in Egitto, nella speranza che il clima salubre di quella terra lo aiutasse a stare meglio. Il medico di famiglia allora era stato chiaro: ancora un paio di inverni e la sua tubercolosi sarebbe divenuta irrecuperabile. E così aveva raggiunto la zia in Egitto, dove gli inverni quasi non esistono tanto sono caldi, e il clima è sempre asciutto. Il luminare aveva avuto ragione, per lui era stato un vero toccasana, e si era ristabilito. Forse già l’anno prossimo sarebbe tornato nella magione di famiglia in Spagna o addirittura a Roma. Aveva già ricevuto varie offerte di educatore per ragazzini ricchi.
Marcello riferì il nome di un paesotto di mare sulla costa occidentale, in cui da bambino aveva vissuto il giovane. Seneca non lo conosceva, probabilmente era troppo minuscolo, però gli era venuto in mente un altro particolare.
“Aspetta, ora che ci penso. Quasi tutti gli ebrei che ho incontrato nell’Egitto orientale sapevano e parlavano il greco. Forse lo conosce anche lui. Voglio provare a parlarci direttamente. Kalispèra.” Il giovane con la barba sorrise e rispose in greco alla buonasera. Il contatto era stato stabilito.


4.
Incoraggiato da quell’inizio, Seneca si presentò con un gran sorriso, sempre in quella lingua: “emoù ònoma Lucio Anneo Seneca estì”, ma successe un fatto incomprensibile.
Il romano non ottenne la reazione prevista. Dopo la presentazione del nome di Lucio Anneo Seneca, il giovane barbuto annui e, volgendo la testa, si rivolse agli amici che stavano dietro di lui. Li interrogò pacato nel suo dialetto, senza più badare al suo interlocutore.
Perplesso, Seneca chiese a Marcello la spiegazione di quel gesto in apparenza scortese e irritante. Aveva detto qualcosa di sbagliato? Si era esposto troppo? L’armonia era già incrinata? Appena iniziato era già tutto finito? E dopo quello che aveva rischiato per loro… che irriconoscenza, che voglia di andarsene via. Seneca desiderava in cuor suo mantenere sempre il controllo della situazione. Altrimenti diventava diffidente. Fremendo, dopo un momento di stupore fece l’unica cosa ragionevole in quelle circostanze, chiese spiegazioni a Marcello.
“Ma co…Marcello, cosa sta dicendo costui? Cosa? In fretta, per favore.”
Marcello stette ad ascoltare, poi rispose ad un Seneca impaziente: “ha chiesto ai suoi amici cosa è meglio rispondere per presentarsi a voi. Anzi no, letteralmente ha domandato “voi chi credete che io sia?”, o qualcosa del genere.”
Fu la donna che gli stava accanto, quella che a Seneca era parsa la moglie, a rispondere liberamente per lui. Sorrise ai due romani, strinse il braccio al compagno e affermò decisa in greco: “autòs emeròs rabbi estì”.
Rabbi…”, confermò uno del gruppo.
Rabbi…”, ribadivano gli altri. Erano tutti d’accordo, senza incertezze.
Un irritato Seneca scrutò la giovane donna, quasi una ragazza, e le parlò in greco, sorpreso che anche lei sapesse quella lingua. “Cosa vuol dire, donna, lui è il nostro rabbi? Non conosco questa parola. E poi tu chi sei per intervenire così sfacciata in una discussione tra uomini? Rispetta se vuoi essere rispettata.”
“Rabbi significa maestro nella nostra lingua. Io sono sua moglie, e lui è il mio amato sposo.”
Seneca si scoprì visibilmente seccato. “Se sei sua moglie onore a te, ma –il romano indurì lo sguardo, come aveva mille volte visto fare da suo padre- ti invito a lasciarmi parlare con lui senza interferire.”
“Ti prego, ti prego, non essere così crudo con lei –intervenne il giovane rabbi sempre in greco-, mi sbaglierò ma non penso che i vostri dei comandino di stimare poco le donne o di non amarle. Forse da voi le femmine devono trasformarsi in maschi per essere ascoltate?”
“Niente affatto –Seneca si scoprì sulla difensiva-. E’ pur vero che bisogna avere fiducia nella propria consorte, e che la vita di un uomo è incompleta senza una donna al suo fianco, ma una moglie a Roma rispetta con la dovuta educazione la sua posizione sociale, che è di deferenza nei confronti del marito.”
“Forse voi romani avete scritto da qualche parte che amare è un peccato, o è contro le vostre leggi. Siete un popolo forte, magari per voi è solo una sciocchezza.”
“No no –rispose Seneca, che capì di essere stato troppo brusco con la moglie del giovane rabbi; non aveva tenuto conto delle usanze del luogo, meglio venire incontro a questi barbari-. Non c’è scritto di non amare, trattare male le proprie donne o essere sprezzanti. Semmai il contrario. Proprio oggi pomeriggio, anzi –decise di essere accomodante, in fondo quel giovane gli era simpatico- riflettevo su come il mio spirito possieda una tendenza naturale ad amare; così come percepisce, intende, ricorda, così ama. L’ho scoperta in me recentemente, e immagino si tratti di una tendenza universale. Anzi, deve essere proprio così se il matrimonio tra uomo e donna a Roma è benedetto dal nostro grande imperatore Tiberio, sempre sia lodato. Ma da noi nessuna donna interviene quando gli uomini stanno discutendo.”
“Ma tu ami intensamente, e allora mi avrai capito. Non c’è bisogno di dire molto altro.”
Seneca decise di cambiare discorso. “Come te ne sei accorto di questo?”
“Dai tuoi occhi. Bisogna pur che qualcuno tra noi si occupi di questi aspetti della vita, e stia attento alle impronte dello spirito. L’amore è per il nostro popolo un segno importante della divinità. Nel nostro libro sacro l’amore umano tra due giovani, anche se spesso viene degradato e profanato, è l’espressione più pura di Dio sulla terra. Al centro di ogni trono c’è un ricamo d’amore.”
“Parole molto belle –Seneca sorrise con amarezza-. Peccato siano una illusione, dolce ma pur sempre ingannevole. La forza di Roma comanda il mondo, non l’amore. Il mio maestro di retorica mi esortava sempre a diffidare di questo sentimento di cui hai appena discusso, perché è contrario alla virtù. Porta un uomo alla follia, nei casi meno gravi all’ipocrisia, o alla meschinità.”
“Il tuo maestro aveva ragione, io però non stavo parlando della follia o altro, ma del volersi bene. Che tristezza però, lasciamelo dire, essere fraintesi su questo punto, essere costretti a spiegarsi meglio –il rabbi fece un gesto con la mano, come un fiore che faticava ad aprirsi-. E comunque un regno su questa terra fondato sul terrore e sulla forza svanisce presto, basta attendere. Ma il regno nei cieli è fondato sull’amore, e durerà a lungo.”
In quel momento alcuni uomini arrivarono alle spalle del rabbi, gli sussurrarono qualcosa e attesero una risposta. Un paio ne approfittarono per lanciare uno sguardo malevolo a Seneca. Ci fu uno scambio di battute nella loro lingua, ma dopo una sua brusca risposta se ne andarono. Marcello, che li aveva ascoltati e capiva tutto, voltò la faccia per non far vedere che rideva, tossì un paio di volte e si coprì la bocca. Seneca se ne accorse e lo interrogò in latino.
“Cosa hanno detto di tanto spiritoso, Marcello? Spiegalo anche a me.”
“Ah principe, i suoi discepoli gli hanno chiesto se voleva venire con loro a pregare e digiunare, piuttosto che stare a discutere con un pagano. Gliel’ho detto che non tutti sono amichevoli. Ma lui ha risposto “non dite sciocchezze, e non fate ciò che non vi sentite di fare”. Aldilà dei suoi modi un poco selvatici, pare un uomo ragionevole. Siamo stati fortunati ad incontrarlo.”
“Sì –pensò a voce alta Seneca-, si può parlare con lui, al contrario di qualche fanatico del suo seguito. Ma quella è una malapianta che cresce ovunque, caro Marcello. Anche i palazzi migliori di Roma ne sono infestati. –Seneca stava pensando a qualcosa, poi si riprese e ricominciò a parlare in greco- Rabbi, a proposito…”
“Dimmi.” Si vedeva che era abituato a sentirsi chiamare così.
“Il mio compagno mi ha tradotto quello che vi siete detti poco fa –Seneca avvertì che doveva aggiungere qualcosa per dare completezza alla frase-. Sento che devo ringraziarti per la tua disponibilità. E’ un fiore raro in questa terra. I nostri popoli non sempre sono stati amici.”
“Oh, praticamente mai, soldato di Roma, però anche il deserto fiorisce. E poi perché dovrei –rabbi sorrise- rinunciare a questa occasione per conoscervi? E’ solo una coincidenza che siete venuti qui stanotte? No, non credo. E nemmeno che sia bene rifiutare i doni imprevisti del cielo. Quando le coincidenze risuonano dentro il cuore, come stasera è accaduto a me, allora vuol dire che proprio casuali forse non sono.”
“Un discorso quasi da poeta. Ma i poeti purtroppo non ho mai capito bene a cosa servono.”
“Romano, tutti noi amiamo i poeti, come i lattanti che trovano negli occhi della madre la loro vita e che stanno imparando a vivere –rabbi guardò con affetto la sua compagna, che rispose con un sorriso indefinito. Tra loro due c’era un segreto, come nelle vere coppie. Poi si voltò ancora verso Seneca-. Loro si fidano, e sono sopravvissuti. Perché non dovrei fidarmi io, io che sono più cresciuto di loro? Non tutto succede per caso.” La moglie del rabbi annuì con a testa.
“Il mio sposo a volte si lascia prendere e parla assai, romano –disse la donna mentre gli accarezzava il braccio-. Mi sa che deve ancora imparare a dominarsi, quando ci riuscirà sarà veramente grande –rabbi le sorrise e le baciò affettuoso la mano-. Parlaci tu per favore della tua vita e della tua gente. Non sappiamo nulla di voi. Siete venuti da lontano e avete conquistato la regione, suppliziando chi si ribellava.”
“Solo chi si opponeva alla luce di Roma”, chiarì Seneca, che sentì subito serpeggiare dei mugugni tra gli ascoltatori.
“Sin da quando ero bambina –continuò a voce alta la moglie del rabbi, sovrastando i malumori- vi ho visti sfilare in assetto di guerra per le strade. Ma chi siete?”
“Come il santo Aronne, quando si trovava al cospetto del Faraone e si esprimeva per conto dell’impacciato fratello Mosè, veramente tu sei la mia lingua, sposa adorata –mormorò il rabbi-. Ma forse è meglio non caricare le spalle di quest’uomo di un compito troppo impegnativo. Chiediamo allora, tu chi sei?”
Tutti lo stavano guardando. Ma con curiosità, senza malizia, pendevano dalle sue labbra. Lucio Anneo Seneca era indeciso se parlare della sua vita in maniera retorica e ufficiale, come era abituato, o presentarsi in maniera più semplice. In fondo cosa importava a quella gente dei suoi titoli, delle cariche pubbliche, delle sue conoscenze? Bene che andasse, vista la loro ignoranza del mondo romano, non lo avrebbero capito. Scelse quindi una forma più discorsiva, non si trovava al foro, non doveva convincere o impressionare chicchessia. Aveva solo degli ascoltatori intorno ad un fuoco. Un momento sereno, non guastiamolo con la vanità.
“Mi chiamo Lucio Anneo Seneca, ho ventisei anni e sono un cittadino romano. Mio padre era Seneca il vecchio, un grande letterato. Sono nato a Cordova, nella provincia iberica dell’Impero –Seneca notò negli occhi dei suoi ascoltatori il vuoto-. Molto, molto lontano da qui, una regione chiamata Spagna, aldilà del grande mare.”
“Ahhh…”
“Sin da piccolo mi piaceva studiare e conversare, e ho ben presto rivelato un talento e un interesse, a quanto mi hanno detto non comuni, per lo studio. Mio padre ne era felice, e per assecondare questa mia passione aveva costruito con le sue mani una piccola casetta in giardino, con una lavagnetta di ardesia e alcuni giochi di legno. Io e i miei fratelli potevamo stare tranquilli in questo posticino tutto nostro, e ogni tanto lui veniva ad insegnarci le lettere. Poi un giorno ci annunciò che saremmo andati tutti a Roma. Siete mai stati a Roma?”
“Io sono stato a Sion.”
“Anch’io.”
“Io a Damasco.”
“Roma è fastosa come tutte queste e altre città messe insieme, e molto più grande.”
“Più grande di Sion?”
“Sì. Lo posso dire perché le ho visitate entrambe. Una volta che siete stati a Roma non la dimenticate più. Da bambino, quando vi arrivai per la prima volta, rimasi impressionato dall’imponenza dei suoi monumenti, dalle sue strade larghe, dalla folla innumerevole che vi transitava. Non avevo mai visto tanta gente. Cordova al confronto era un semplice paese, in cui si conoscevano e si salutavano tutti. E poi un’altra cosa mi stupì.”
“Cosa?”
“Il suo clima, che a paragone di tanti altri è meraviglioso, un clima ideale per un essere umano. Ogni giorno mi pareva di svegliarmi circondato da un vento fresco, un cielo azzurro, una temperatura tiepida. Da bambino ero convinto di essere arrivato in un paese con la primavera perenne. E’ veramente un luogo prediletto dagli Dei.”
“Roma è un sogno -intervenne Marcello, a sorpresa dato che parlava poco il greco-, come vorrei vederla.”
Seneca gli sorrise e gli mise la mano sulla spalla. “Stai con me, Marcello, e la vedrai. Comunque, tornando a prima, mio padre era anche un nobile con ambizioni politiche, e voleva assicurare la migliore educazione per i suoi tre figli. Per questo ho frequentato con i miei fratelli parecchie scuole di retorica e arte giuridica. I miei maestri sono stati il neopitagorico Sozione e il famoso Attalo.”
Seneca lasciò cadere il nome con noncuranza, ben sapendo che avrebbe causato nei suoi ascoltatori il solito mormorio di sorpresa.
Nulla. I suoi ascoltatori non reagirono, come se avesse nominato un emerito sconosciuto. Sembrava quasi che non lo conoscessero, eppure il nome di Attalo era noto anche in quelle lontane province.
”Non avete mai sentito parlare di Attalo? Ma dovete conoscerlo, è famosissimo, e i suoi libri sono veri gioielli. Quel pover'uomo di mio padre, visto che ero un giovane così promettente, ha speso una fortuna per farmi studiare con lui a Roma.”
“Scusami –intervenne il rabbi-, già in altre parti del discorso l’ho notato. Parli sempre di tuo padre al passato. E’ forse scomparso? Sei molto giovane per questo.”
“Sì, purtroppo sì, l’anno stesso in cui arrivai in Egitto per curarmi una malattia ai bronchi lui, che era già anziano e malandato, venne colto da una febbre cerebrale e spirò dopo poche settimane. Non riuscii nemmeno a tornare indietro per il suo funerale, l’ho saputo tardi. Furono giorni molto tristi per me.”
“Proviamo dispiacere per te, è la perdita forse più importante nella vita di un uomo. Il tuo dolore è ancora amaro e intenso. Gli volevi molto bene.”
“Mi aggiravo per le strade sconosciute di una città africana, di cui non capivo la lingua, senza nessuno con cui parlare –perché gli stava raccontando quelle cose? Perché apriva il suo lato più intimo?-. Non ho mai provato in vita mia la solitudine più intensamente, non mi sono mai sentito così straniero in terra straniera come allora. Era un uomo buono, e non l’ho mai ringraziato abbastanza per quello che aveva fatto per me.”
“E’ un grande dolore –disse il rabbi-. A noi è permesso piangere i nostri morti. Anche a voi?”
Seneca rimase per qualche istante in silenzio, stupito dalla piega che aveva assunto la conversazione. Appoggiò la schiena alla corazza. I ricordi gli pungevano il cuore.
“Anche a noi, sì. Ma non per questo è conveniente piangere o lamentarsi in pubblico. Fortunatamente quel periodo è passato, ma ho sofferto molto nel mio letto pensando a lui. Mi venivano in mente i consigli che mi aveva dato, i momenti belli passati insieme, e quando mi addormentavo sognavo di incontrarlo, ma senza ci dicessimo niente. E quando ero sveglio, giorno dopo giorno, iniziai ad avere paura di dimenticarmi il suo volto, mi chiedevo se l’avrei riconosciuto nei Campi Elisi, quando ci rincontreremo. A volte ci penso ancora.”
“Non temere –disse tranquillo il rabbi-. Le anime non hanno età.”
“E’ stato un uomo importante, mi ha consigliato e guidato in vari momenti critici della mia vita. Se sono vivo forse è grazie a lui. E non è una frase di circostanza. –Dopo un attimo di esitazione, Seneca decise di aprirsi ancora un poco di più senza timori; si sentiva a suo agio, anche se conosceva quella gente da poco-. Se è il caso infatti sapeva anche intervenire con fermezza. Quando ero ragazzino, influenzato dal maestro Sozione, studioso molto serio, per un certo periodo avevo seguito una dieta alimentare così rigorosa, così ascetica, che in breve mi ero ridotto ad una estrema magrezza, ma possedevo una grande forza di volontà e potevo sopportare agevolmente ogni difficoltà. Mi sentivo l’anima più agile e oggi non oserei affermare se fosse realtà o illusione. Però deperivo sempre di più, sino a quando mi ammalai.”
“Oh, poverino!”, esclamò la donna del rabbi. Seneca sorrise, gli faceva un po’ impressione essere compatito da quella povera gente, lui che apparteneva al ceto dei Cavalieri. Ma questa notte il mondo andava alla rovescia. Chi era il povero?
Non lo avrebbe ammesso facilmente, ma riconobbe il germoglio della superbia, che sin da giovane gli si incuneava nell’animo per avvelenarlo. Pensava di essersi liberato, ma ci era ricascato per l’ennesima volta, e se ne vergognò un poco. Forse per questo prima era sceso da cavallo, per vedere un mondo nuovo. Seneca sorrise gentilmente alla donna, una bella ragazza, poi la rassicurò.
“Oh, ma sono guarito. Sin troppo direi. Mio padre, che non tollerava che in famiglia si seguisse con fanatismo alcunché, soprattutto pratiche non romane, e preoccupato per la mia salute, mi pregò di ritornare agli antichi usi. Lo fece in maniera persuasiva, senza costrizioni, e ottenne ben preso che io ricominciassi a mangiare meglio. Senonché… ecco, a questo periodo per me diciamo quasi mistico ne successe ben presto un altro, di cui mi pento ancor oggi. Ma si vede che gli dei avevano previsto che passassi anche attraverso questa prova.”
“Sei diventato un gaudente –asserì deciso il rabbi-, da un estremo sei passato all’altro.”
O dei, il suo discorso era così trasparente? O era quel ragazzo a possedere un intuito eccezionale?
“Sì, si può dire così. Quando mi sentii ristabilito a al meglio delle mie forze, venni preso da una smania di esperienze. Volevo provare tutto, di tutto. Ero giovane, incosciente, e il mondo mi sembrava mio. Solo ora capisco quanto fossi svanito. Andai da mio padre, gli chiesi la mia parte di patrimonio e affittai con quei soldi una grande villa a Neapolis, una città sul mare vicina a Roma famosa per i suoi divertimenti. Che vita ho passato in quell’anno! Donne, festini, banchetti… non mi sono fatto mancare nulla. Frequentavo i posti più rinomati e avevo molti amici, come capita ai giovani che sono disposti a spendere senza riflettere tanto. Ebbi molte esperienze, tra le più assurde, e conobbi persone di ogni ceto. Quando ripenso a quel periodo mi chiedo se certe cose sono accadute proprio a me. Mi ero ripromesso di divertirmi ogni giorno in un modo diverso, un’idea bizzarra e che si è rivelata molto dispendiosa. Presto finirono i soldi e i creditori mi saltarono addosso tutti insieme. Piombai nella miseria assoluta in poco tempo. Nessuno ebbe pietà di me.”
“Nemmeno i tuoi amici?”
“Soprattutto quelli –Seneca fece un riso amaro-. Gli amici dei bei tempi si rivelarono falsi come volpi e iniziò per me un periodo cupo, che ho cercato di dimenticare. Persi tutto. Ed è incredibile quanto in fretta si possa perdere anche la propria dignità. Mangiavo dove potevo e dormivo per terra, dove capitava. Deve essere stato allora che mi sono ammalato ai bronchi. Mi misi a fare i lavori più umili, per un certo periodo ho lavorato anche tra i fullones.”
“Chi sarebbero?”
“Quelli che raccolgono le pesantissime giare piene di urina che viene poi bollita. Si ricava una sorta di sapone. E’ un lavoro degradante e umilissimo, che non vuole fare nessuno, nemmeno gli schiavi. Se devo essere sincero siete i primi con cui ne parlo, di solito evito anche di accennare a queste cose. Se in futuro dovessi scrivere la storia della mia vita… lasciamo perdere –Seneca sorrise, ci stava per ricascare.- Volesse il cielo che abbia di meglio da raccontare. Mi sa comunque che sorvolerò su questo periodo.”
“Almeno hai appreso la fatica fisica, il sudore senza aiuto. E’ confortante per noi sapere che anche un nobile conosce quanto sia penosa.”
“Forse hai ragione, ogni esperienza ha il suo valore. E’ giusto, vi voglio raccontare quello che è successo dopo –Seneca fece un respiro e riprese deciso il suo racconto-. Una notte che sfinito dalla fame e dalla fatica mi ero buttato per terra, sognai vivissima la casa dei miei genitori, dove c’era pane in abbondanza. Mi sentivo proprio il più miserabile degli uomini, ridotto a sognare per sfamarsi. Anche i maiali si nutrivano meglio di me. Mi ero sempre vergognato di tornare indietro e farmi vedere così, me ne ero andato così orgoglioso… ma alla fine la fame fu più forte di tutto. Così decisi di far ritorno, anche se ero sicuro che sarei stato punito. Ero pronto a fare i lavori più umili, a farmi trattare come uno schiavo, ad essere battuto senza pietà. Me lo meritavo, ero stato arrogante e irriconoscente. Ma mio padre e mia madre, appena mi videro arrivare da lontano, uscirono dal cancello e mi vennero incontro piangendo, e ci abbracciammo sulla via. Non dimenticherò mai quel momento, campassi cent’anni. Da più di un anno non davo notizie di me e non voglio nemmeno sapere di cosa erano venuti a conoscenza, perché me ne vergognerei troppo. Troppo.”
“Un uomo che si vergogna –disse piano il rabbi- ha dentro di sé la possibilità di redimersi. E un uomo che si esalta quella di perdersi. E poi che è accaduto?”
“Oh, una cosa fantastica, da non credere. Mio padre era felice di rivedermi, perché si era rassegnato ad avermi perso per sempre. Mi fece lavare, pulire, mi consegnò uno degli abiti più belli e mi regalò un anello per restituirmi al mio rango. Preso dall’euforia fece addirittura uccidere un vitello ben pasciuto per festeggiare quella sera il mio ritorno.”
“Sei stato perdonato. Tuo padre era un sant’uomo.”
“Sì, ma mio fratello maggiore quando lo venne a sapere si arrabbiò moltissimo. Non voleva nemmeno entrare in casa. Fu mio padre, come ho saputo dopo, ad uscire per parlare con lui. “Ma come? –gli disse mio fratello- a me che mi sono comportato sempre bene e che ho lavorato tutti i giorni non hai nemmeno regalato un capretto per fare festa con i miei amici, e per questo spendaccione, che ha disonorato la nostra nobile famiglia, uccidi il vitello grasso che tenevamo per i Saturnalia? Ma allora sei  uno sciocco!” Non ho mai saputo esattamente cosa gli ha risposto mio padre, però si vede che riuscì a convincerlo, perché mio fratello entrò in casa, mi guardò e mi abbracciò forte. Io piangevo, e non capivo bene. Però ho compreso quel giorno che pochi beni sono importanti per un uomo quanto la sua famiglia.”
“Hai proprio ragione romano –disse la moglie del rabbi-. L’amore di una famiglia fa miracoli.”
Tutti si congratularono con me per la fortuna di avere avuto un padre simile, e li ringraziai. Solo il rabbi stava zitto e mi guardava, assorto nei suoi pensieri.


5.
“Che bella storia hai raccontato -esclamò un ragazzo-. Ti preghiamo, romano. Parlaci ancora della tua vita.”
“Sì! E poi?”
In molti si erano avvicinati ai tre forestieri, incuriositi e superando la paura, e nel caso facendosi tradurre nella loro lingua i discorsi in greco. Nel frattempo infatti anche Liborio, finite di distribuire le noci, per precauzione si era posizionato dietro Seneca e Marcello, con la scusa di appoggiare una coperta sulle loro spalle. Dopo si era accovacciato su un cumulo di sabbia e lì era rimasto, senza parlare, apparentemente con noncuranza. Tutti però ne avevano capito l’intenzione segreta, in realtà li proteggeva con la sua non piccola mole.
Si capiva infatti che la diffidenza serpeggiava, in tanti fissavano ancora i romani con occhio sottile e ogni tanto si coglievano sguardi ostili. Loro facevano parte pur sempre degli usurpatori, non erano certo vecchi amici. Il centurione li aveva lasciati in mezzo a serpenti, tranquilli ma pur sempre serpenti. Comunque, per rispetto del rabbi e del suo atteggiamento amichevole, nessuno di loro si azzardava a comportarsi in maniera scortese o sgarbata. La curiosità prevaleva.
“E’ vero che ora abita nel lontano Egitto? Abbiamo capito bene?”, chiese timido un pellegrino.
“Certo –rispose Seneca- da sei anni abito ad Alessandria, la loro capitale, una città a mio parere seconda solo a Roma per grandezza e regalità. L’Egitto l’ho visitato in lungo e in largo, anche se certo non tutto. E’ molto grande e abitato da gente con la pelle dai più svariati colori.”
“Simile alla nostra?”, chiese il pellegrino di prima.
“Anche. Soprattutto al nord. Per ordine del Prefetto romano della regione ho esplorato il corso del fiume Nilo, vero dono degli dei a quel paese. Ho viaggiato sino alle province più meridionali, in cui vive un popolo dalla pelle scurissima, più nera del buio. Da loro più le donne sono nere, più sono considerate belle.”
“Per noi giudei –aggiunse un altro- l’Egitto è una terra quasi leggendaria. Le origini del nostro popolo affondano in quel paese.”
“Sì, ne ho sentito parlare. Ho frequentato uno dei vostri templi una volta. Mi pare di ricordare… quello che chiamate esodo, no?”
“Sì, l’esodo del popolo ebraico. Ricordiamo ancora oggi i nostri antenati, Giacobbe, Giuseppe e soprattutto Mosé, che combattendo la fame e la sete guidò il nostro popolo a questa terra promessa, Eretz Israel come la chiamiamo noi. Rabbi è stato nella terra dei faraoni da bambino, ma ce ne parla sempre troppo poco, e il nostro desiderio di conoscerla resta grande.”
“Hanno ragione –il rabbi prese la parola-. Vorrei nutrire i loro pensieri e sentimenti, ma è molti anni che vi manco, e i ricordi iniziano a sbiadire, si trasformano in nostalgia. Tu anche solo per questo sei per noi una testimonianza importante, romano. Raccontaci per favore del paese del Nilo. La tua mente è fresca e le tue esperienze certo interessanti. Arricchisci le nostre anime.”
Seneca si mise a ridere. “Non pensate che abbia chissà quali doti o raccomandazioni. Ci ho messo poco a capire perché il governatore aveva mandato me: ero il più giovane, e forse il più inesperto dei luoghi. Ma sono sempre stato un ingenuo in queste cose, l’ho compreso dopo il vero motivo. Certo, è affascinante, ma avventurarsi nelle paludi che corrono lungo il grande fiume è un’esperienza che non raccomanderei a nessuno, vi abitano troppi animali selvaggi. Per non parlare poi delle zanzare, un vero tormento. Sei assalito da nugoli di moscerini ovunque, che quasi ti impediscono di vedere.”
Seneca raccontò del suo viaggio di qualche anno prima, in cui si era sincerato sul campo e senza intermediari dello stato di salute del paese. Già che c’era, nella sua esplorazione ne avrebbe approfittato per cercare di risolvere un antico mistero: del perché questo fiume inondasse l’Egitto proprio nel periodo in cui la terra era più bruciata dal sole, rendendola abbondante e fertile in modo sufficiente ad affrontare la siccità.
“Dunque non piove in Egitto?”, chiese uno stupito.
“Praticamente mai, a volte passano anni tra una precipitazione e l’altra. In quella regione le case vengono costruite senza tetto, tanto le piogge sono assenti. Se il grano non cresce il contadino sa che è inutile rivolgere gli occhi al cielo, ripone nel fiume la sua unica speranza: l’annata sarà sterile o fertile a seconda che le acque del fiume abbiano provocato una inondazione scarsa o abbondante.”
“E tutto questo in estate?”
“Sì, quasi sempre. Nei dintorni della città di Menfi, una volta che sia traboccato dagli argini, il Nilo è finalmente libero di vagare per le campagne, e si divide in più rami attraverso canali costruiti nei secoli dagli uomini, in modo da poter disporre di tutta l’acqua che si vuole. La larghezza delle regioni sulle quali si estende a destra e sinistra gli fa perdere la violenza della sua corrente primitiva. Poi quando le sue acque fangose si sono riunite in una distesa continua, il fiume ristagna, e prende l’aspetto di un mare vasto e torbido, con delle isole di terra qui e là.”
“Che desolazione”, commentò un pellegrino.
“Al contrario, i contadini sono felicissimi quando accade. Più terreno è ricoperto dall’acqua più si scambiano grida di gioia. Il panorama cambia completamente da terrestre ad acquatico nel giro di pochi giorni, uno spettacolo straordinario. E non si tratta solo di acqua: il fiume porta acqua e terra insieme. Scorrendo intorbidato, lascia il suo fango in luoghi secchi, assetati  e pieni di spaccature, e tutto il limo che ha portato con sé lo deposita su un terreno arido, giovando doppiamente alle campagne, perché le bagna e le concima.”
“Veramente Dio Padre –rifletteva il rabbi ad alta voce- ha guardato con favore a quel popolo, quando creò il cielo e la terra.”
“Per gli egiziani è proprio il Nilo ad essere considerato un dio.”
“Eresia! –gridarono in molti- Infedeli!”
“Calma calma –Seneca cercò di placarli con uno dei suoi sorrisi-, bisogna capirli. Il Nilo per loro rappresenta l’unica vita, dato che tutti i luoghi che non raggiunge giacciono sterili e incolti. Se però cresce più del necessario o quell’anno l’inondazione salta, e una volta è capitato per sette anni di fila, i danni sono irreparabili.”
“A volte Dio è violento –mormorò il rabbi-, i suoi schiaffi mettono in ginocchio. Anche noi conoscevamo la storia dei sette anni.”
“Il grano egiziano è di vitale importanza per Roma, per cui si capisce di come il Nilo rappresenti un problema che interessa moltissimo le autorità.”
“Il vero motivo della tua esplorazione, presumo.”
“Ah certo, non era solo curiosità. Se si potesse… se si potesse capire da dove e perché questo fiume inizia a crescere, si potrebbe affrontare al meglio la piena, e forse rimediare agli anni in cui si fa attendere, o arriva troppo presto. Ma purtroppo, come tanti altri prima di me, non sono riuscito a svelare questo mistero che dura dagli inizi del tempo. Risalendo verso le sue origini bisogna scavalcare cascate colossali, e il fiume diventa via via in certi punti troppo impetuoso, una enorme massa d’acqua che ribolle e sballotta ogni imbarcazione. Molte navi sono state affondate dalla forza eccezionale di questo fiume. Del resto, il Nilo nutre creature altrettanto grandi e altrettanto pericolose di quelle marine, e si può stimare la sua grandezza dal fatto che contiene animali mostruosi, ai quali offre il nutrimento e lo spazio per muoversi.”
“Non mostri –intervenne serio un pellegrino-, ma creature del vero Dio! Nel quinto giorno della creazione il nostro Signore ha popolato il mare di animali, e nella sua sapienza tutte le acque del globo.”
“Allora a lui –aggiunse malizioso Seneca- si devono tra l’altro anche i famosi coccodrilli, bestie gigantesche e molto pericolose.”
“Quando ero in Egitto, da bambino –commentò il rabbi-, ne ho visto un esemplare impagliato. La sua grande bocca era aperta, sembrava stesse per colpire. Era impressionante, una grossa lucertola con la corazza, grande tre volte un uomo e con denti affilatissimi.”
“Forse allora –intervenne un altro pellegrino- poteva trattarsi del Leviatano che ha inghiottito il nostro profeta Giona.”
“Il Leviatano!”, il gruppo davanti al pensiero della mitica bestia si era animato. Tutti discutevano tra loro mentre il fuoco illuminava la scena.
“Il leggendario mostro marino! E’ vero che ha cento occhi?”
“Cento occhi forse no –spiegò Seneca, divertito dalla loro curiosità-, ma di sicuro potrebbe inghiottire un uomo. Dicono che il suo morso sia azionato dai muscoli più potenti della terra, ma anche lui ha un punto debole –Seneca portò le mani al ventre-. L’ho visto io stesso. Nel punto dove il Nilo si butta in mare ho potuto assistere allo spettacolo di delfini di mare che si scontravano con i coccodrilli del fiume. Ingaggiarono una battaglia come per la sopravvivenza, e ci credereste? I furiosi coccodrilli furono sconfitti da animali pacifici e dal morso inoffensivo.”
“Come ci sono riusciti?”
“I coccodrilli hanno la parte superiore del corpo dura e impenetrabile anche per i denti di animali più grossi, ma la parte inferiore è molle e tenera. I delfini si immergevano e li ferivano con le pinne che si drizzano sul loro dorso, e facendo forza in direzione opposta li dividevano. Dopo che molti furono fatti a pezzi in quel modo, gli altri coccodrilli si ritirarono come un esercito in fuga. E’ un animale propenso a fuggire davanti a chi è audace, pur essendo implacabile con chi è pauroso! E gli abitanti di quelle zone riescono a vincerlo non per una dote propria della loro razza o del loro sangue, ma col disprezzo e l’audacia. Li inseguono, infatti, di propria iniziativa e li prendono con un semplice laccio mentre fuggono. Così semplici uomini catturano bestie pericolosissime!”
Ci fu qualche momento di silenzio alla fine del racconto, ma era un silenzio che stranamente dava al giovane romano una sensazione non buona. Prima che si chiedesse il perché, il rabbi intervenne, rivolgendosi sia a lui che ai suoi confratelli: “una storia interessante, che forse per noi nasconde un insegnamento. Questi popoli così lontani ci insegnano ad essere audaci e a non aver paura dei nostri desideri, nemmeno quando sono contrastate da forze che sembrano superiori, e di molto, alla nostra, dotate di robuste e invincibili corazze –qualcuno nel gruppo guardò di sfuggita la corazza di Seneca sulla sabbia-. Così quel popolo ha trasformato la sua siccità in una inondazione. Perché quando siamo deboli…”
“…è allora che abbiamo l’occasione di dimostrare la nostra vera forza!”, finirono con sicurezza la frase alcuni pellegrini.
Marcello lanciò una occhiata inquieta a Seneca. Nemmeno al soldato semplice era sfuggito il possibile sottinteso del discorso. E il pericolo. Seneca si rammentò improvvisamente dove si trovava, e si scoprì molto vulnerabile.
O dei, siamo finiti in una trappola. Maledizione alla sua boccaccia. Vide il rabbi con occhi diversi, sapeva che per quella gente potere religioso, militare e politico arrivavano a confondersi. Maledizione a lui quando aveva pensato a delfini e coccodrilli. Gli era sembrato un racconto interessante, ma nulla più. Che fare? Se aspettava troppo, lasciava a loro l’iniziativa e poteva finire male. Scelse la soluzione più immediata, continuare lui in qualche modo il racconto, nel tentativo di sviare i pensieri e lasciar scorrere il pericolo. Era il momento buono per accennare ad un episodio personale. Un altro, pensò Seneca, mi sto aprendo con questa gente come non faccio da anni, chissà se se ne sono accorti.
“Comunque la mia salute, che sin dagli stravizi di Neapolis è sempre rimasta cagionevole, alla fine non ce l’ha più fatta. Complice il caldo, l’umidità, le zanzare alla fine mi sono ammalato. Ho passato vari giorni in deliquio, con una febbre altissima, in cui non capivo più niente. Straparlavo e a volte credevo di essere ancora a Roma. Mi sentivo come una tenda agitata dal vento, che non riesce a fermarsi.”
Rabbi annuì. “E’ una sensazione che i figli di Sion nel loro peregrinare nel deserto hanno conosciuto bene. All’inizio siamo forti e riteniamo di poter sopportare tutto, senza chiedere aiuto a Dio. Ma ben presto, come ha testimoniato il nostro profeta Geremia, “la mia tenda si è sfasciata, e tutte le mie corde si sono rotte”. Se tu fossi giudeo, con quella malattia avresti intuito che il nostro Signore ti stava lanciando un messaggio, forse eri andato troppo avanti, era ora di tornare.”
“Mmmh… in parte condivido questo tuo modo di pensare, ma solo in parte. Di certo era ora di tornare, ma secondo me è pericoloso dare un senso magico e non razionale ai malesseri fisici.”
“Siamo diversi, romano. La tua società, da quello che ho capito, è interessata a sviluppare la forza guerriera e forse non è così attenta al trascendente come la nostra. Spesso ho sentito i romani chiamare assurdo ciò che per noi è invece mistero. Non so perché sia così, ma così è. Ognuno abbia ciò che è suo. In ogni caso, sia noi che voi siamo sottoposti ad una autorità. E quando la tua comanda, tu ubbidirai.”
Seneca davanti a questa sicurezza non sapeva cosa rispondere, poi la moglie del rabbi intervenne sorridendo: “non preoccuparti romano, se non sai cosa dire. Nemmeno noi che gli stiamo sempre vicini a volte lo comprendiamo.”
O dei, che confusione. Cosa dire? “Per ritornare –continuò Seneca- al mio racconto, solo dopo essermi  finalmente ristabilito sono tornato. La mia missione era fallita negli obiettivi ultimi, ma avevo comunque riportato indietro una buona dose di informazioni, e venni lo stesso premiato dal governatore. Però per molto tempo ho rifiutato nuovi incarichi. Basta missioni per favore! Per favore!”
Seneca alzò le mani come per dire “Basta! Basta!” e tutti, anche coloro che non capivano la lingua, risero osservando il linguaggio dei suoi gesti. Seneca sorridendo si alzò per andare verso il fuoco, complimentandosi con se stesso per essere uscito con eleganza da una situazione difficile. I pellegrini intanto circondavano il rabbi, per discutere con lui sull’Egitto e su quanto era stato appena raccontato. Spirava un vento sempre più gelido, la sabbia sotto i calzari era diventata fredda e Seneca pose i palmi delle mani sulle fiamme per scaldarsi. Ah, che bello il fuoco.
Un ciocco stava per cadere fuori dai sassi, il giovane romano con la punta della spada lo rimise tra le fiamme, spruzzando scintille. Nello stesso tempo ripensava a quella incredibile gente che aveva incontrato. Sì, aveva fatto bene a scendere, “ogni incontro è bello” gli ripeteva sempre Attalo. Quel rabbi poi. Era poco più che un mendicante, ma sembrava capire bene il mondo e la gente. Celava dentro una carica enorme di essenzialità. Seneca osservò una farfalla notturna avvicinarsi pericolosamente alle fiamme. E poi… e poi Lavinia. Il pensiero alla fine ritornava sempre da lei, dolce ossessione che gli aveva stregato l’anima.
Che silenzio. C’era qualcosa di strano. C’era troppo silenzio. Anche il suono del tamburello si era interrotto, le ragazze non cantavano più. La folla si era ammutolita.
“Uhh?”, Lucio Anneo Seneca alzò gli occhi dal fuoco, e vide che tutti lo fissavano in silenzio sbalorditi. Cos'era quella stranezza?
C’era tensione. Gli attenti Liborio e Marcello, senza pronunciare parola, si posizionarono prontamente al suo fianco, appoggiando con cautela le mani sulle spade. Seneca, sempre più all'oscuro, chiese a loro.
“Cosa è successo? Come mai nessuno parla più?”
“Non lo sappiamo principe, è cambiato tutto improvvisamente, ma questa situazione non ci piace. Cre…”
Un uomo accecato dall’ira con un urlo si avvicinò, agitando minacciosamente il braccio. Liborio e Marcello gli puntarono all’unisono le loro spade addosso, Seneca stava un passo indietro, immobile. Ma l’uomo non si calmava e dalla sua bocca, anche con la punta di due spade nel petto, usciva un fiotto di parole arrabbiate e incomprensibili.
“Lo faccio fuori, principe? Mi dica una sola parola e io…”
“No aspetta, qui sta succedendo qualcosa. Prima voglio capire.”
L’uomo non si placava, ora si era voltato per rivolgersi ai compagni. Li stava aizzando, e il mormorio nel gruppo diventava sempre più forte.
“Ma cosa sta urlando quell’imbecille, per Giove? Perché li sta istigando? Marcello, riesci a capire?”
“A quanto pare lei, principe, prima li ha insultati e disonorati.”
“Io? E come ho fatto?”
“Ha toccato con un’arma il loro fuoco, che ora è diventato impuro perché non deve essere nemmeno sfiorato da armi da guerra. Hanno il metallo insanguinato, e questa gente ha orrore del sangue. Ha commesso un sacrilegio, è come se avesse bestemmiato ad alta voce e li ha offesi a morte. E’ colpa mia –disse Marcello sconsolato-, mi ero dimenticato di avvisarla.”
Seneca intanto ripensava a quando con la spada aveva rimescolato le braci. Provava un turbine di emozioni dentro, un miscuglio confuso di esasperazione e timore. Ma era solo una minuzia! Che barbari selvaggi! Ma che andassero a marcire con i loro tabù. Però non poteva informarsi prima? Possibile che quella gente fosse così superstiziosa?
“Sono stupito, ma io… ma io non lo sapevo! Digli che non volevo offendere nessuno.”
“Mi dia retta principe, a quello non interessa se lo sapeva o no. L’uomo sta urlando che lei… anzi, che noi tre siamo degli infedeli, che lei lo ha fatto apposta, che li disprezziamo, perché noi siamo uomini senza rispetto, siamo romani, siamo nemici della loro gente. Ha ricordato di quando i romani hanno crocefisso dei bambini dopo la rivolta di vent’anni fa, adesso sta gridando “abbiamo fatto male a farli entrare qui dentro, solo con la loro morte potremo purificare il fuoco.” Che infame. E’ un po’ che lo tenevo d’occhio quello. Mi sa che non aspettava altro che un pretesto. O dei, e quelle… quelle cosa vogliono?”
“Attenti!”
Un gruppetto di donne infuriate e urlanti saltarono sul fuoco impuro e lo spensero con coperte e piedi nudi, incuranti delle braci arroventate. L’azione di spegnimento era stata talmente rapida e senza preavviso che non ci fu modo di fermarle. I romani non si mossero di un passo e si limitarono a osservare. Quando anche l’ultima fiammella fu soffocata, tutte si rituffarono nel folto del gruppo.
Il buio era ritornato sul deserto.
Nella luce della luna i romani videro i pellegrini iniziare ad avvicinarsi minacciosi. Ancora pochi metri e si sarebbero avventati su di loro. Giungevano da ogni lato, non c’era via di scampo. I tre si disposero in formazione di difesa, aspettando in silenzio l'assalto. Anche Seneca aveva estratto deciso la spada. L’istinto militare era calato su di loro. “Stiamo uniti!” O Lavinia, rischio di non rivederti più. Sono pronto per soffrire? Sono pronto per morire? Quel gruppo di… di miserabili non avrebbe avuto il sopravvento. Loro erano soldati, avrebbero versato del sangue. “Vediamo se anche il loro stesso sangue gli fa orrore” mormorò a se stesso. Vide uno di loro che si chinava a raccogliere un sasso. La battaglia stava per iniziare.
“NO!!”, si udì.
Tutti si voltarono verso il rabbi che aveva parlato. Alla luce della luna la sua tunica di lana grezza, con la cintura di pelle come unico ornamento, si stagliava bianca. Rabbi allargò le braccia, con le mani strette a pugni.
Gridò altre volte, e si rivolse ai suoi confratelli con veemenza. Iniziò a parlare e a camminare in mezzo a loro, come un leone si aggira in mezzo ad agnelli immobili. A parte lui nessuno si muoveva e il suo corpo e le parole possedevano un magnetismo e una fierezza mai provati. Ciò che spesso si dice della potenza della voce, allora Seneca lo vide. Ognuno era rapito dalla sua passione, dal suo tono, dal suo viso. Aveva catturato la folla. La teneva in pugno, la piegava al suo volere. I suoi modi erano diversi dal solito, non ammettevano repliche, bisognava ascoltare. Anche Seneca, che non capiva nulla della lingua, ne era affascinato.
Poi il rabbi cambiò espressione, divenne più gentile. Si mise le mani sul petto e guardò con intensità tutti. Dalle sue labbra ora pareva uscire del miele che avvolgeva il cuore, che si scioglieva nell’anima di chi lo ascoltava. Un vento divino potentissimo, che non si vede e non si tocca ma che circonda ogni cosa. Era un suono che conquistava come un flauto incantato, aria che scende dalle montagne, l’acqua che scivola dai tetti. Delle donne si inginocchiarono davanti a lui e si misero a piangere. Anche gli uomini abbandonarono le loro pose minacciose e voltarono le spalle ai tre romani. L’incantesimo del rabbi teneva a bada la folla. Straordinario. Quell’uomo era straordinario, con la sola forza della voce si faceva ubbidire da chi pochi istanti prima avrebbe voluto trucidarli. La sua figura al centro della scena sembrava quasi illuminata.
“Principe, mi aiuti –disse sottovoce Liborio-, cosa sta succedendo? Sento qualcuno che parla ma non vedo niente, i miei occhi senza luce sono deboli.”
“Non è il momento, Liborio. Neanch’io capisco molto, ma c’è il rabbi che sta parlando alla folla. Li sta convincendo a non ammazzarci. O almeno spero. Marcello?”
“Sì principe, ha ragione. Ha… ha detto… oh, madre mia, scusi…”; Marcello quasi singhiozzava. Il suo labbro tremava.
“Marcello? Che succede, anche tu? Controllati, non è il momento di cedere!”
“Sì sì… ha detto molte cose in aramaico, la nos… la loro lingua. Ripete che nel libro sacro sta scritto “mia è la vendetta, mia”, ha comandato Dio Padre, e nessuno può sostituirsi a lui, nessuno. Chi siamo noi solo per pensare di prendere il posto del Dio dei nostri padri? Adesso sta mormorando che spera di essere capito, anche da chi prima era pronto ad infliggere sofferenza, e che non biasima nessuno se anche succederà. Perché noi tutti siamo umani, solo umani, e siamo per questo vittime della nostra follia, del nostro odio.”
Marcello non aveva tradotto tutto, era evidente. Non ce la faceva. Era commosso, e tratteneva a stento le lacrime. Biascicava anche qualcosa nella sua lingua. Seneca era stupito, perché non l’aveva mai sentito farlo spontaneamente.
Il rabbi ora additava un pellegrino rimasto ai margini, quello che prima suonava il tamburello, lo indicava a tutti come fosse una soluzione. Seneca sperò che fosse così.
“Chi è quello? –chiese a Marcello- Perché è così importante?”
Marcello si asciugò occhi e naso, e riprese un tono di voce sicuro. “E’ colui che ha il compito di accendere il fuoco. Solo creando una nuova fiamma, originata senza usare le braci di nessun’altra, si potrà superare veramente questa offesa, dice il rabbi, e sanare il sacrilegio.”
“Forse posso farlo io –disse Liborio-. Ho con me tutto il neces…”
“Liborio, stai zitto e fermo, per Cerere. Non capisci che siamo in bilico? Se quel tipo non vuole o non riesce ad accendere un nuovo fuoco siamo perduti.”
“Con questo vento gelido non sarà facile. Scappiamo? I cavalli sono vicini.”
“Non ci arriveremmo mai in tempo. E’ troppo rischioso e siamo solo in tre. Non provochiamoli. Calma, meglio stare fermi e vedere cosa succede. Poi ci regoliamo. Marcello, c’è da fidarsi di quello?”
“Non lo so, non lo so.”
L’uomo ripose il tamburello ed estrasse tranquillo da una tasca qualcosa. Al buio non si riusciva a capire bene. I romani guardavano la scena con le spade sguainate. Accortosi del loro sguardo indagatore, l’uomo voltò le spalle e si nascose alla vista dei soldati, facendo alcuni gesti misteriosi. Prese della sabbia dal terreno ed ecco il miracolo. Dalle sue mani nacque subito una vampata e presto una fiamma viva risplendeva. La folla vide la luce illuminare il buio della notte e fece un urlo di gioia. Anche Liborio si stupì.
“Ma… ma come ha fatto così presto e senza legna? E’ forse un mago? E’ bravo come Prometeo.”
“Cattivo esempio Liborio. Donando il fuoco agli uomini quello è stato punito dagli dei, ma speriamo che qui nessuno debba soffrire.”
L’uomo, che aveva la mano destra misteriosamente infiammata, afferrò dei rami secchi con la sinistra e li accese. In poco tempo un nuovo falò illuminava la scena.
“Spettacolare!
“Ah, siamo stati fortunati, principe, veramente –disse sollevato Marcello-. Quelle sono persone speciali. E’ uno zoroastriano. Meno male che in questo gruppo così piccolo ce n’era uno.”
“Chi sarebbero? Ribelli? Li conosci?”
“Non bene, anche perché ne ho visti pochi, ma non sono ribelli. Sono espertissimi nell’arte del fuoco. Da bambino durante una festa ho visto uno di loro accendere un fuoco sopra l’acqua del mare. Con un soffio possono attizzare o spegnere una fiamma. Si dice che riescano anche a mangiare il fuoco, che si nutrano di quello.”
“Ma come fanno? E che facciamo noi ora?”


6.
Seneca prese una decisione estrema. “Va bene, adesso appoggiamo le spade a terra e facciamo un passo indietro. Facciamo capire a tutti che non abbiamo intenzioni ostili.” Fu il primo a posare la spada e il suo pugnale sulla sabbia, poi indietreggiò di un passo, come se fosse la cosa più naturale del mondo.
I due legionari lo guardarono come se fosse impazzito.
“Principe, senza armi siamo fottuti –disse Liborio-. Io la mia non la lascio.”
“Forza Liborio, ubbidisci, e fai come me. E senza movimenti bruschi mi raccomando. Quando ce ne andremo via ce le riprenderemo. Questa gente è spaventata dalle nostre armi, si sente minacciata. Senza di esse paradossalmente saremo più al sicuro.”
“Non ne sono tanto convinto, principe, conosco la mia gente, ma ubbidisco.” Marcello appoggiò a sua volta la lancia e la spada per terra. Un uomo nel gruppo subito si accorse dei loro gesti e si avvicinò dapprima timoroso, ma poi vide una esortazione negli occhi di Seneca e raccattò le armi tra le braccia. Dopo andò davanti a Liborio, che impugnava ancora la sua. Gli tese la mano e fece segno di dargli la spada. Liborio sudava.
“No! E’ mia. Principe, non mi chieda questo. E’ con me da quando avevo quindici anni. Non me ne sono mai separato.”
“Liborio, dagliela.”
Liborio esitava, e più esitava più sudava. Era come paralizzato in un bagno di sudore e non mollava la sua arma. Era una situazione di stallo. Fu Marcello a parlare per primo.
“Ho un’idea. Possiamo fare uno scambio se sono d’accordo. Liborio consegnerà la sua arma se lo zoroastriano ci rivelerà il segreto del fuoco.”
“Mi pare una buona idea. Proprio buona. Accetta, Liborio. Dì di sì. Con quel segreto avrai una vecchiaia garantita e non dovrai più temere nulla. E’ meraviglioso dire sì. Forza, non so se avremo altre occasioni, poi ce le faremo ridare.”
“Va… va bene. Ma solo perché me lo comanda lei, principe. Poi la rivoglio subito indietro, è un disonore troppo grande abbandonare l’arma. Se il centurione venisse a saperlo…”
“Non lo saprà nessuno -promise serio Seneca-, hai la mia parola. Marcello, fai la proposta che avevi detto prima.”
Marcello e l’uomo confabularono per qualche istante. L’uomo rise e urlò qualcosa allo zoroastriano, che rispose subito. Marcello tradusse.
“Hanno detto che va bene, pure loro hanno qualcosa da insegnarci, però Liborio dovrà mantenere il segreto. In più costui –Marcello indicò l’uomo davanti a loro- vuole anche il pugnale del principe. Ha il manico d’avorio lavorato, ha l’aria di essere prezioso e gli piace.”
“Ha l’occhio da intenditore l’amico. Ma perché prima rideva?”, chiese Seneca.
“Prima si era messo a ridere perché l’uomo grosso sudava con questo freddo e non capiva di cosa avesse paura.”
Seneca e l’uomo si guardarono negli occhi. Agli ebrei era vietato possedere armi, solo i romani potevano. Se il romano accettava lo scambio sarebbe diventato suo complice. Ma se rifiutava…
“D’accordo, restiamo d’accordo così allora –concluse perentorio Seneca-. Mi spiace per il coltello, è un regalo di mia zia, ma mi sembrano gente di parola e ci ridaranno le armi quando ce ne andiamo. Liborio, tocca a te, dagli la tua.”
Liborio baciò la spada e a malincuore la consegnò a lui. Strana visione, un omone che affidava la sua arma ad un omino molto più basso.
“Trattala bene, giudeo. Ha visto posti che tu non vedrai mai. L’ho estratta sempre per un motivo valido e rinfoderata ogni volta con onore. Me la riprenderò e se me lo impedirai ti ucciderò.”
Con un inchino e un risolino beffardo l’uomo gli prese la spada e la mise nel fascio tra le altre, intascandosi rapido il pugnale di Seneca. Poi portò le armi sopra il vecchio fuoco spento, e ridendo le seppellì sotto le braci che fumavano ancora, aiutandosi con un grosso ramo.
“Dice che così questa notte non le useremo.”
“Ah. Forse è meglio, si vede che era destino. Meno male, avevo temuto il peggio. Liborio, vai a prendere la tua parte dell’accordo. Marcello per favore, accompagnalo e aiutalo.”
Mentre Liborio e Marcello si stavano già incamminando, a Seneca venne in mente una cosa: “Ah… Marcello! Marcello! Scusa, vieni un attimo qui. Devo dirti una cosa.”
Lo spilungone si arrestò e tornò indietro. “Mi dica principe.”
Seneca era imbarazzato e cercava dentro di sé le parole giuste: “volevo ringraziarti per prima, quando hai posato le armi per terra dopo di me. Se non era per te Liborio non si convinceva. E anche rassicurarti, abbiamo fatto la cosa giusta.”
“Sì, lo penso anch’io. Sono rimasto colpito quando non siamo fuggiti, lei ha dimostrato un grande coraggio principe, un sangue freddo eccezionale. A me tremano ancora le gambe. E’ vero poi che questa gente era spaventata dalle nostre armi. Averle eliminate è stato un altro buon colpo. Io me l’ero vista brutta. Lei diventerà un grande stratega, principe, me lo sento, la sua fama sarà duratura.”
“Ti ringrazio ancora, ma la verità è che tu li conosci meglio di chiunque altro. Sei un buon elemento Marcello, di valore.”
”Grazie principe.”
“Senti, ma è vera quella storia che la tua famiglia è stata cacciata dal paese? Mi dispiace.”
“Sì, purtroppo sì. Ho dovuto pure cambiare nome, io prima mi chiamavo Omar, poi il centurione ha iniziato a chiamarmi Marcello, e così è rimasto.”
“Ah, una nuova vita. Bene, adesso vai che Liborio ti sta aspettando. E ancora grazie.”
“Di niente. A dopo principe!”
Seneca vide Marcello raggiungere di corsa Liborio (Marcello non camminava, correva sempre), e insieme si diressero verso l’uomo del fuoco, chiacchierando tra di loro. Speriamo che stiano zitti loro col centurione.
Quante emozioni stanotte. Aveva provato una fitta al cuore ascoltando il soldato. Non era stato certo coraggio il suo. A lui non l’aveva detto, ma con se stesso non poteva mentire. Perché prima non aveva accettato di scappare? A dirlo sembrava quasi ridicolo, ma il fatto è che Seneca non aveva la minima idea di dove fossero in quel momento. Toccava a lui essere informato, ma non avrebbe saputo indicare in che punto del deserto si trovavano, nemmeno con davanti le dettagliatissime mappe militari del Decurione.
Era Manlio a sapere tutto, era stato lui a decidere la via e il percorso, e soltanto lui conosceva i punti di riferimento. Seneca, che stamattina non pensava ad altro che a Lavinia, non si era informato minimamente sul tragitto. E avrebbe dovuto. Che stolto! Era proprio rimbecillito. Il giovane si rimproverò per la sua imprudenza e rimpianse di essersi distratto tal punto. Anche se fossero riusciti a fuggire, dove andare?
Un problema alla volta però. Erano usciti dai guai, alle armi e alla posizione penseremo dopo. Se uno sbaglia, almeno abbia la saggezza di imparare dal suo errore. Errore pagato caro poi: gli dispiacque per il coltello della zia, era di ottimo acciaio, non perdeva mai il filo e solo il manico era splendido. Va bene, non ci pensare più, aveva ottenuto la sua vita in cambio. Un buon prezzo. Con la zia avrebbe inventato una scusa.
Seneca si guardò in giro. Gli altri pellegrini, dopo aver pregato a voce alta tenendosi per mano, stavano montando delle tende vicino al nuovo fuoco, che non alimentato si stava già affievolendo. Erano ripari rudimentali sotto cui riposare più che tende, ma si vede che a loro bastavano. Se non ci fossero stati loro tre probabilmente erano già a dormire. Molti erano già avvolti nelle coperte. La tensione di poco prima si era magicamente dissolta.
Seneca non sapeva bene cosa fare. Si allontanò per andare a pisciare e mentre faceva acqua sulla sabbia notò i loro cavalli che stavano brucando un cespuglio lì vicino. Meglio prepararli, era tempo di andarsene. Ma sì, niente paura, pensò ricomponendosi, tanto adesso con calma potevano anche chiedere informazioni e ritrovare insieme la strada. Notò anche il rabbi in disparte e si diresse verso di lui per ringraziarlo. Avevano rischiato grosso prima, meno male che era intervenuto. Manlio aveva ragione, aveva sottovalutato il pericolo restando qua. Questa notte però Seneca si rese conto che era passato attraverso i rischi come un predestinato. Forse i suoi antenati l’avevano protetto con uno scudo invisibile e magico. Tornato a casa avrebbe ordinato un grande sacrificio.
La moglie e il rabbi erano seduti uno in fronte all’altra, ungendosi i capelli a vicenda come protezione dal freddo. Intanto parlottavano tra di loro. Seneca, quel giorno sensibile all’amore, rimase a distanza per non turbare l’intimità di quella scena, ma il rabbi gli sorrise e gli fece cenno di avvicinarsi. Appena fu abbastanza vicino, Seneca si piegò sulle ginocchia, sedendosi sui talloni, e gli parlò.
“Tra poco ce ne andiamo, ma volevo dirti grazie per prima. Ho un debito verso di te.”
Rabbi continuò a pettinare i capelli della compagna. “Ho esitato a lungo prima di intervenire, perché non è bene che i figli di Israele vengano disonorati.”
“Hai fatto bene, domani i miei commilitoni ci avrebbero vendicato. Ma volevo dirti che è stato tutto un equivoco, non era mia intenzione offendere. Lo giuro su mia madre.”
Rabbi lo scrutò, smettendo per un attimo di ungere i capelli della moglie. “Non giurare, per favore. Se sei sincero non c’è bisogno di giurare. Comunque l’avevo pensato. Il mio cuore ora è più leggero.”
La moglie del rabbi gli toccò la veste e gli sussurrò qualcosa all’orecchio. “Vai a riposarti? –le disse il rabbi-. Fai bene, io starò ancora un poco con costui.” Il rabbi la baciò teneramente sulla bocca.
Seneca abbassò gli occhi, imbarazzato da quelle effusioni pubbliche. Che scandalo. A Roma il bacio era un gesto privato, da consentire solo tra le mura domestiche.
“Perché ti scandalizzi? Non amo nessuno come lei. Se Dio è un pittore, ha usato con lei le tinte più delicate. Quando una formica le cammina sulla pelle, lascia il segno.” Il rabbi le prese una mano e gliela carezzava mentre lei si alzava per andare nel suo giaciglio.
“E’ misero un corpo che dipende da un corpo”, disse Lucio.
“Quanta severità. Ancora più misero è un corpo che non conosce un altro corpo. Non giudicare, per favore, le nostre usanze con le tue misure. Tutti i rabbi sono sposati. Hai l’aspetto di una persona sapiente e certo hai molto letto e girato, ma ti sarai accorto che ovunque i fiori splendono più belli di noi. Abbiamo tutti bisogno d’amore per splendere. E del riposo donato dagli angeli. La mia compagna ha avuto una vita dura che l’ha provata e oggi è stata una giornata estenuante. Giusto che vada a riposarsi.”
Seneca le diede la buonanotte: “Optime iace et bona somnia”. La donna rispose qualcosa e si avviò verso il gruppo vicino al fuoco, ora smorzato.
Gli occhi del rabbi la seguirono amorosi. Seneca si ricordò di una massima che aveva ascoltato anni prima e disse sottovoce: “un vero uomo non ha bisogno di una donna.” Era un poco deluso con il rabbi, ma voleva essere comprensivo.
Rabbi lo sentì e lo guardò stupito. “Veramente la pensi così? Mi dispiace.”
Seneca si spiegò meglio: “nella nostra società la donna, essendo debole, ha sempre bisogno di un uomo che la protegga, ma un uomo è considerato tale solo se può fare a meno di una donna. Un uomo che sappia rinunciare all’amore fisico e resistere ai desideri della carne è molto stimato per questo.”
“Che strana gente che siete –rabbi scosse la testa-. Dobbiamo proprio parlare, conoscerci meglio. Tu prima hai parlato di tuo padre, ora ti racconterò del mio. O dei miei, per essere più preciso.”
Rabbi era tranquillo e aveva voglia di chiacchierare con lui, un coetaneo, ed era evidente che gli spiaceva che Seneca se ne andasse proprio adesso. “Vuoi ascoltare la mia storia prima di andartene? Però bisognerà partire da lontano, come questo vento.”
Curioso come tutti i giovani, Seneca acconsentì di buon grado. “Certo, mi interessa. Ogni incontro è bello, diceva il mio maestro.”
Rabbi si mise con calma a raccontare la sua vita, e Seneca dopo essersi avvolto con una coperta si mise ad ascoltarlo con piacere. La fretta di prima poco a poco lo abbandonò. Perché no? Erano loro due soli e Marcello e Liborio erano occupati altrove. Non c’erano nubi nel cielo, il fuoco era spento e presto gli occhi si erano adattati alla luce fioca delle braci. Pace.


7.
“Le mie origini sono alquanto singolari e le tue storie, così piene di particolari fantastici, me le hanno riportate in mente. Il mio primo padre era il sommo sacerdote del tempio, ma io non l’ho mai conosciuto, anche se tutti mi dicono sempre che nello spirito ci assomiglio. Quando da bambino accennavo al fatto che ero figlio suo vedevo gli occhi dei miei interlocutori illuminarsi e commuoversi e dopo esprimere un commento benevolo. Doveva essere stato veramente un uomo buono e giusto, con una conoscenza dei testi sacri notevole, mi sono fatto questa idea. Mia madre invece viveva il quel luogo sacro, il tempio, sin da quando aveva tre anni.”
“Ma… tre anni? Vuoi dire che era stata ordinata sacerdotessa a quell’età? Non sapevo che tra i giudei anche le donne potessero diventare sacerdoti.”
“Non ancora. Ma forse mi sono spiegato troppo in fretta. Dio nella sua infinita saggezza provvide che mia madre abitasse, dalla sua più tenera infanzia sino a quando fiorì come donna, all’interno del tempio in cui mio padre regolava le cerimonie. Era una delle pochissime donne ammesse alla parte centrale del tempio e, date le circostanze, loro due non potevano non conoscersi -Rabbi sorrise-. Anche questa coincidenza risuona dentro il mio cuore, diventa un legame inevitabile.”
“A Roma si può trovare un simile istituto, quello delle Vergini Vestali, ma non ho mai sentito di bambine entrate così piccole nelle pratiche religiose. Praticamente doveva essere stata appena svezzata.”
“Ma c’è un motivo, trattieni il tuo stupore. I miei nonni avevano ricevuto questa bambina molto tardi, dopo molte preghiere e quando ormai non ci speravano più. Per cui appena nata, nell’entusiasmo di questo felice evento era stata promessa come ricompensa al nostro signore Iddio. "Mai smorzare gli entusiasmi”, si raccomandava mio nonno. Nonno, caro nonno. Così mia madre quando compì tre anni entrò nel tempio e ben presto imparò a servire i sacerdoti. Era devota, gentile e candida come una colomba. Per farla breve, tali erano le sue virtù e la sua bellezza che appena divenne donna il sommo sacerdote, malgrado fosse sposato, si innamorò perdutamente di lei.”
“Ma era possibile?”
Rabbi rise. “Che importa? L’amore vince ogni cosa, e forse tu ne sai qualcosa.”
Seneca arrossì al buio.
“Rimase incinta ma, come ti ho detto, quel sommo sacerdote era un uomo giusto, un vero credente. Si preoccupò che avesse una vera famiglia e non fosse additata dalle maldicenze né vivesse in povertà. Per evitare quindi ogni chiacchiera e insolenza, venne data in sposa ad un uomo anziano, il falegname del paese, da poco rimasto vedovo e con ancora dei figli piccoli. Mia madre accettò di buon grado di trasferirsi dal tempio e venne nella sua casa, e solo Dio sa cosa provava nel cuore nel lasciare quelle mura dove aveva sempre vissuto. Arrivata nella nuova casa, trovò in una stanza il figlio più piccolo del falegname piangente, con il cuore spezzato per via della recente scomparsa della madre. Lo consolò tra le sue braccia e il bambino si affezionò per sempre a lei. Il falegname, all’inizio riluttante ad accoglierla…”
“Come mai?”
“Sai, mia madre all’epoca era molto giovane e lui già avanti con l’età. Aveva figli addirittura più vecchi di lei e inoltre gli garbava poco che questa moglie gli fosse stata imposta già incinta, ma quando la vide consolare il figlioletto fu commosso dalla sua grazia e la accolse con affetto. Era un uomo semplice ma dai sentimenti  profondi. E ciò fu un bene per mia madre e per il figlio nel suo grembo, che ero io, perché il sommo sacerdote morì poco dopo. Una morte violenta.”
Seneca sorrise amaramente: “come mai sono addolorato ma non stupito? Questa è una terra tormentata, che non conosce ancora la pace. Ho girato il mondo, ma non ho mai visto un popolo così litigioso. Sai, se posso chiedertelo, come è successo?”
“Il sacerdote venne ucciso dai sicari del re, per via di una profezia.”
“Una profezia? Si può uccidere un uomo per una profezia?”
“Fu mia madre un giorno a raccontarmi tutto. In quei giorni apparve nel cielo una stella cometa e secondo il nostro libro era il segnale che un futuro re sarebbe nato proprio allora. Il re in vigore la conosceva bene e dato che dopo di lui voleva insediare il figlio, cercava in ogni modo di prevenirla, massacrando tutti i nati in quel periodo. Il sommo sacerdote aveva già nascosto la sua legittima moglie e suo figlio in un posto sicuro, ma il re, avendo saputo che anche con mia madre aveva avuto un figlio, mandò qualcuno ad interrogarlo su dove fosse. Gli emissari del re volevano farlo confessare, ma lui rifiutò di rivelare alcunché, forte anche della sua condizione di prestigio. Appena gli scagnozzi se ne andarono inviò un messaggio a mia madre e al suo vecchio marito. Dovevano scappare subito. Subito. Io stesso nacqui nel tragitto, mentre stavano fuggendo. Per questo motivo siamo rimasti in Egitto per qualche anno, sino a quando il vecchio re è morto e il figlio si è insediato al suo posto.”
“A quanto pare, l’Egitto a entrambi ha salvato la vita.”
“Così pare. Così pare.”
“La profezia era fasulla, allora.”
“Io non ne sarei così sicuro. Questi tempi confusi non sono ancora finiti e nessuno conosce i piani di Dio. Forse un nuovo re sta già arrivando.”
Il vento freddo soffiava forte e una raffica violenta colpì le braci. Scintille volarono in tutte le direzioni. Loro due si coprirono meglio, Seneca notò che tra le frange della tunica del rabbi erano intrecciati del fili color porpora, o forse erano solo scuri. Non c’era luce sufficiente a distinguere i colori. Il rabbi continuò.
“Il giorno dopo la nostra fuga i sicari del re tornarono per interrogarlo nuovamente e con maggior durezza. Lui si rifiutò ancora di confessare e, sommo sacrilegio, venne ucciso nel tempio. E’ morto per me. E’ morto per difendermi. Non so nemmeno dove lo hanno seppellito ed è passato tanto, tanto tempo.” Rabbi chinò il capo. “E’ molto che non ci pensavo. Prego per un uomo che non ho mai conosciuto. Non l’ho mai conosciuto. Non lo conoscerò mai.”
Restò in silenzio. Poi Seneca udì che si era messo a piangere.
Seneca gli mise una mano sulla spalla. “Coraggio, fatti coraggio.” Non erano più un romano e un giudeo adesso, ma due ragazzi a cui era mancato il padre, e che non trovavano le parole. Un insettino zampettava sulla sabbia e aveva quasi raggiunto i sandali del rabbi.
Rabbi rialzò gli occhi umidi. Ripercorrere l’assassinio del padre l’aveva turbato, ma ora il suo sguardo era diventato duro.
“Ma verrà vendicato. I suoi assassini non la passeranno liscia. Lunghi tormenti e il buio eterno li attendono per la profanazione di aver versato sangue innocente in un luogo sacro. E la vendetta per avere ucciso un uomo di Dio li aspetta nel giorno del giudizio. E sarà implacabile.”
“Sai come si chiamava tuo padre, questo sommo sacerdote?”
“Sì, si chiamava Zaccaria, che nella nostra lingua significa Colui che si ricorda di Dio. E veramente il ricordo è l’essenza della nostra anima, del nostro spirito. Ricordare vuol dire capire, comprendere, vivere pienamente. Anche le cose ricordano mio padre: nel tempio una lastra di pietra si è impregnata del suo sangue ed è diventata sanguigna. Malgrado sia stata lavata più volte il colore non se ne va. E non se ne andrà, io dico in verità.”
“Ma perché hai parlato di due padri?”
“Perché sono cresciuto con il falegname, che mi trattò sempre con amore, come se fossi veramente suo figlio. E lui era veramente mio padre, e l’ho amato e rispettato e ho subito i suoi rimproveri, perché erano giusti e affettuosi. Aveva avuto altri figli prima di me e sapeva come si trattano i bambini. E dell’affetto di cui hanno bisogno per crescere.”
“Ma tu lo sapevi che non era tuo padre?”
“Certo. E da lui ho imparato una cosa importantissima, di amare e provare affetto anche per chi non è come te. Volere bene anche ad un bambino che non è il tuo, non è sangue del tuo sangue, come mia madre del resto aveva fatto con suo figlio. E se ci pensi bene non è cosa da poco. Dare da mangiare a tutti, anche a chi non conosci. Perché se vogliamo bene e nutriamo solo chi ci ama, che merito ne abbiamo? Tutti sono capaci di questo. Ma provare affetto anche per chi non hai mai visto prima, questo avvicina alla santità.”
“Forse hai ragione, ma è difficile in questo mondo.”
“Il mondo può cambiare, alzati e cambia il mondo.”
Seneca annuì. Era proprio un uomo vicino agli dei. Che coraggio aveva. Voleva ancora sentire come continuava la sua storia. “E poi? Sei stato un piccolo falegname anche tu, immagino.”
“Lo aiutavo nel suo mestiere, a fabbricare porte e mobili. E poi giravo per le strade polverose del paese portandoli sulle spalle per la consegna. Conosco ogni casa di quel paese. Ancora oggi ti saprei costruire un tavolo senza usare un chiodo. Spesso anzi devo dire che sopperivo alle mancanze di mio padre. Era un brav’uomo, ma nel suo mestiere di carpentiere non molto capace –rabbi sorrise-. Mi reputava quasi un mago quando lo aiutavo, anche se poi non facevo nulla di eccezionale, però mi faceva comodo farglielo credere. Non possedeva abilità particolari, e i suoi letti erano tutti sgangherati!” Rabbi rise, e Seneca con lui, lieto che fosse passato il momento di tristezza. Aveva dei denti bianchissimi.
“Comunque –continuò il rabbi- non scordavo di avere nelle vene la passione per i testi sacri e lo studio. Avevo imparato a leggere molto presto. Quando tornammo dall’Egitto partecipavo sempre alle riunioni del sabato nel tempio. Mi emozionava entrare in quei posti dove il mio primo padre aveva vissuto e amato mia madre. Mi sembrava di entrare veramente in un luogo sacro, diverso da tutti gli altri.”
“E’ così che sei diventato rabbi?”
“No no –rabbi sorrise-, la strada per diventare rabbi è lunga. Un sacerdote, che conosceva la mia storia e intuiva le mie potenzialità, convinse i miei genitori a lasciarmi andare in una scuola lontana da casa. All’età di tredici anni, dopo un lungo viaggio, entrai in un monastero tra le montagne. Fortuna che ero già abituato a viaggiare, così non mi sentii troppo spaesato. In ogni caso non ero solo, sai chi c’era con me?”
“Non ne ho idea. Chi?”
“Quel figlio che Zaccaria aveva avuto dalla moglie legittima, e che era vissuto anche lui nascosto per qualche anno. Pochi mesi di vita ci separavano, avevamo in comune un padre e la passione per lo studio. Presto diventammo grandi amici, facendo a gara nella conoscenza delle regole e dei libri della legge. Ho passato anni sereni, studiando e crescendo. Era una scuola severa, ma come figli di Zaccaria eravamo trattati con riguardo e potevamo accedere anche a zone e libri di solito non accessibili. Presto giungemmo ad una tale conoscenza delle sacre scritture e delle loro cerimonie che fummo proclamati rabbi. Anzi, se i tuoi superiori vogliono sapere dove ci stiamo dirigendo, stiamo andando a trovare quel mio fratello.”
Davanti a tanta trasparenza Seneca fu quasi commosso. Ma voleva ancora sapere. “Senti, visto che ne hai parlato, per curiosità che cosa hai imparato? Forse qualche materia l’ho studiata pure io.”
“Ah, molte cose, i nostri maestri erano acuti e la loro conoscenza del mondo penetrante. Tu prima hai citato i tuoi, ma anche con loro, pur non essendo famosi, ci siamo abbeverati al sapere. Imparammo a guarire i mali del corpo, a cacciare i demoni e a parlare con franchezza. Apprendemmo i principali esorcismi, a sopportare il digiuno e studiammo la legge e la nostra storia. Tante cose, insomma. Quando si cammina nel deserto della vita, un bicchiere d’acqua vale più di mille tesori e per noi loro erano una fonte inesauribile.”
“No –rifletté Seneca-, non penso di avere mai approfondito gli argomenti che hai citato. Il mare della conoscenza è troppo vasto. Ma quando parli di acqua a cosa ti riferisci? E’ un bene raro da queste parti.”
“La nostra scuola era situata dentro un monastero antichissimo, scavato nella roccia e pieno di grotte. E’ situato in un luogo quasi inaccessibile, anche se volessi non potrei dirti dove si trova. Magari un giorno verrà scoperto, ma immagino non tanto presto, quei monaci sono dei veri eremiti. Ti posso dire che era disseminato di vasche di pietra, in modo da raccogliere e conservare l’acqua piovana. Dio, ciò che immerge lo immerge nell’acqua, ma ci sarà acqua solo se Lui lo vorrà.”
“Cosa? Scusa, non ho capito.”
“E’ una frase che ripetevano sempre i maestri. Però ora, a pensarci bene, è meglio che nella mia descrizione non vada oltre. Ci sono dei misteri che richiedono preparazione. Tanto più che, appena ordinato rabbi, dovetti abbandonare quel luogo sacro e ritornare a casa.”
“Come mai?”
“Anche mio padre era anziano, come il tuo. Stava ormai morendo, e aveva chiesto di vedermi un’ultima volta. Era gravemente malato, come mai lo era stato dal giorno della sua nascita. L’oro iniziò a perdere il suo magnifico splendore e l’argento ad essere sciupato dall’uso, mi riferisco alla sua conoscenza e al suo intelletto. Cibo e bevande gli davano fastidio, e quando entrai nella sua camera lo vidi terribilmente agitato. Ma quel vecchio benedetto mi riconobbe e si rasserenò, anche se non aveva più la forza per parlarmi ed emetteva molti sospiri. Verso la fine si mise a vaneggiare e tenni le sue mani per tutto il tempo, recitando le preghiere, sino a quando passò alla pace perpetua. Che tu sia benedetto nei secoli, padre mio.”
Il silenzio e la solitudine regnavano sul deserto. Se non fosse stato per il lontano e quasi indistinto gruppetto con Liborio e Marcello, sembrava che i due giovani fossero le uniche anime al mondo. Il buio oltre l’accampamento era totale.
“Dopo, ho chiuso i suoi occhi e la sua bocca. Chiamai i miei fratelli e dissi loro di preparare il sudario. Mi venne allora in mente il giorno in cui andò con me in Egitto e i grandissimi disagi sostenuti per causa mia, e piansi per lungo tempo. Quando si addormentò era molto vecchio, ma non gli aveva mai fatto male un dente, né si era incurvata la sua persona. Esercitò anzi il suo mestiere di falegname sino all’ultimo.”
“Purtroppo la morte non ha pietà di alcuno.”
Rabbi sospirò. “Non è così semplice, romano. Per noi chi è pagano non muore.”
Seneca rimase come folgorato da quella stranezza. “Cosa stai dicendo? Noi siamo uomini come tutti gli altri, fatti di carne e sangue. Non ti capisco.“
“Per noialtri la vita, la vera vita, è data dalla conoscenza di Dio. Chi non lo conosce non ha mai vissuto veramente, e dato che egli non è mai vissuto non può morire. Solo colui che ha creduto nella Verità ha trovato la vita, e quest’uomo può correre il pericolo di morire, poiché è vivo.”
“Ti sbagli. Noi viviamo e il tempo ha su di noi gli stessi diritti che ha su ogni essere vivente.”
“Sei così sicuro di essere vivo, romano? Che stai vivendo la tua vita? Per noi, voi siete simili ad un mulo bendato che girava una macina e che fece cento miglia, camminando e camminando. Quando fu slegato e gli fu tolta la benda, si stupì nel trovarsi ancora nello stesso posto. Ci sono uomini, come i pagani, che camminano molto e non avanzano affatto. Credono di vivere, ma stanno solamente girando su se stessi.”
“E come si fa, come dici tu, a vivere veramente?”
La voce di rabbi esitò un attimo. “Anche tu cerchi la verità e la vita, e ti voglio bene per questo. Simile ad un ubriaco che va alla ricerca della sua casa, confusamente consapevole di averla. Sinora l’hai cercata nel mondo, ma seguire la gloria del mondo è come dissetarsi bevendo acqua marina, prima o poi ti ucciderà. Eppure riuscirai a vedere l’invisibile se lo vuoi… aspetta…”
Rabbi esitava. Seneca aveva intuito che il rabbi pensava a qualcosa, ma era titubante se farlo o meno. Poi ruppe gli indugi.
“E’ proprio vero –continuò più deciso-, quando si va a pescare nessuno sa cosa riuscirà a prendere quel giorno. Chi è certo al mattino di cosa accadrà la sera? Non avrei mai immaginato che stanotte avrei parlato di questi argomenti con un romano. Ma imperscrutabili sono i piani di Dio.”
Rabbi estrasse da una tasca un piccolo pezzo di pane e glielo mostrò alla luce della luna. “E’ il pane che è stato dato a tutti. Io l’ho tenuto perché pensavo di consumarlo dopo. Ma quale occasione migliore che dividerlo con te adesso?”
Seneca frugò a sua volta nella sua bisaccia. “Anch’io allora ho qualcosa. Ho con me un po’ di vino, però è poco. Il recipiente è quasi vuoto.”
“Non ha importanza. Mangiamo e beviamo insieme, romano.”
Rabbi dapprima lo benedisse, poi addentò un boccone del suo pane secco e diede il resto a Seneca, che prima aveva bevuto un sorso. Poi, mentre prendeva il pane dalle sue mani, Seneca consegnò il piccolo otre al rabbi perché lo finisse. Consumarono il loro piccolo pasto in silenzio. Il romano sentiva confusamente che per il rabbi era un momento importante, da non guastare con parole vane. Rabbi mormorava delle preghiere nella sua lingua, poi guardò Seneca e gli disse: “ogni volta che berrai del vino e mangerai del pane ricordati di me. Perché non ci rivedremo presto, e solo il ricordo ci unirà.”
Il vento ora si era calmato. “Come vuoi, me ne ricorderò. Hai ragione comunque, mangiare insieme ha un significato che va oltre il semplice nutrirsi.”
“E condividere lo stesso cibo ancora di più. Questa è una delle cerimonie insegnate nel monastero. Con il cibo in comune diventiamo uno. E lo facciamo attraverso una cosa morta, che entra in noi e diventa viva. Che grande mistero, fare parte del mondo.”
“Sì, un mistero.”
“Guarda, stanno ritornando i tuoi compagni.”
Seneca girò la testa e vide Marcello e Liborio venire verso di loro. Anche a distanza, si notava che il grosso Liborio era felicissimo ed eccitato. Teneva in mano qualcosa con grande cura, e la guardava estasiato.
“Principe! Principe –disse appena fu a portata di voce-, guardi! Guardi cosa mi hanno dato!”
Si inginocchiò davanti a lui e aprì le mani. Seneca intravide un ammasso di peli, una sorta di gomitolo selvatico dal colore chiaro.
“Che roba è?”
“E’ il loro segreto! Con questa lanina si può accendere il fuoco anche sotto la neve. E’ straordinaria! Cresce sotto la pancia di certe loro capre, fine fine ma molto grassa, unta al punto giusto. Quel tipo mi ha dato quasi tutta quella che aveva. Ha spiegato che i pastori la mettono in budelli impermeabili alla pioggia per conservarli, e così farò io.”
“E’ così particolare? A me non sembra nulla di speciale.”
“E invece questa è una lanetta che non si trova da nessun’altra parte, principe, le assicuro. Con un ciuffetto di questa peluria accendere il fuoco diventa uno scherzo, bastano due colpi con l’acciarino, non di più. Si può anche sfregarla con della sabbia secca, come aveva fatto prima quell’uomo. E brucia a lungo, ci mette molto a consumarsi. Il dio Vulcano ama gli uomini e l’ha portata nel mondo.”
“Non l’ho mai vista nemmeno io –disse Marcello-, deve essere davvero rara. E preziosa. Ma, Liborio, non dovevi mantenere il segreto?”
“Guardi, guardi quanta me ne hanno data! E’ la cosa più preziosa che ho. Devo trovare una saccoccia impermeabile, subito. Aveva ragione principe, la mia vecchiaia ora è assicurata. Con l’aiuto di quella lanina diventerò un mago! Verranno tutti da Liborio e si stupiranno!”
Tutti si misero a ridere all’idea. Anche uno dei cavalli nitrì.
Liborio alzò la testa. “Cosa succede? Perché i cavalli sono nervosi?”
La morte arrivò silenziosa.


8.
Ci fu un rumore duro e Liborio cadde pesante in braccio a Seneca, che lo afferrò istintivamente. Un fiotto caldo uscì dalla testa del legionario e lo inondò, bagnandogli la tunica chiara. Seneca alla poca luce non capiva. Poi guardò meglio e con stupore scorse una freccia penetrata nell’occhio destro di Liborio. L’aveva perforato da una parte all’altra del cranio. Il grosso legionario era morto sul colpo, con un grido strozzato. Un’altra freccia sibilante gli trapassò la gamba. Seneca continuava a tenerlo immobile tra le braccia, il corpo pesantissimo, inzuppato dal suo sangue. Sentiva rapido crescere in lui l’orrore e improvvisamente ritrovò la voce.
“Aiutatemi! Datemi una mano! Sta sanguinando!”
Ma nessuno lo aiutava. Tutti si erano alzati in piedi, con gli occhi fissi nel buio. Marcello aveva gli occhi sgranati dal terrore. Rumori sempre più nervosi, come tante ali che sbattono al vento. Stava arrivando una moltitudine al galoppo, li stavano caricando e non si vedeva nulla!
Pieno di spavento, Seneca vide il buio intorno a lui muoversi, e cavalieri urlanti sbucare con le spade puntate verso di loro. Grida selvagge nella notte. Sconosciuti a cavallo li circondarono prima che avessero il tempo di muoversi. I latrones! Si intuivano riflessi di spade lunghe, mazze agitate, archi e vestiti neri, neri. Facce cattive. “Bisogna combattere, presto! Organizzare una difesa”. Bisognava opporsi in qualche modo! Seneca lasciò cadere il corpo di Liborio e portò la mano al suo fianco. Nulla! Trovò il vuoto.
Le spade! Maledizione! Si sentì perduto e le parole di prima morirono in gola. Era sicuro che entro pochi istanti sarebbe morto. Seneca si preparò a lasciare il mondo.
Il gruppo di predoni circondò tutti i pellegrini, ammassati intorno alle braci spente. Molti si erano alzati in piedi sotto le tende ma restavano fermi, come uccellini paralizzati davanti ai serpenti. L’unico che cercava di fuggire venne inseguito da un predone a cavallo, che lo raggiunse e tra le grida di incitamento degli altri con un fendente terribile quasi gli tagliò la testa. Il pellegrino morì con grandissimo strepito, stramazzando sulla sabbia. Pieni di paura tutti si stringevano stretti l’uno all’altro, spaventatissimi. Quando la tensione raggiunse il culmine comparve lento dal buio il capo dei briganti.
Era l’unico del gruppo a non urlare, e con un gesto zittì tutti quanti. Con uno sguardo compiaciuto dominò la situazione. Montava un cavallo nero e dava ordini secchi. Si capiva subito che il capo era lui. Avanzava lento verso di loro. Arrivò talmente vicino che quasi Seneca avrebbe potuto toccare i finimenti del suo cavallo. Improvvisamente lo stallone si bloccò. Il capo aveva intravisto Seneca e Marcello e si era fermato, squadrandoli.
“Guarda guarda. Soldati romani. Ecco di chi sono i cavalli. Legateli!”
Nel giro di pochi secondi Seneca e Marcello furono legati insieme da nodi dolorosi, schiena contro schiena. Erano prigionieri. Malgrado la loro altezza così diversa una corda univa i loro colli, e Seneca quando la strinsero si sentì quasi impiccato. Anche le funi sul corpo erano legate così strette che quasi non si poteva respirare.
Il capo scese da cavallo e dopo aver dato sprezzante un calcio al cadavere di Liborio si diresse verso di loro. Seneca lo percepiva con la coda dell’occhio. Stava arrivando l’inferno, era questa la morte? Qualcuno colpì forte i due soldati all’altezza delle ginocchia. Caddero insieme. Ci furono altri colpi e rotolarono sulla sabbia per un paio di giri. I briganti ridevano. Il ginocchio non si era rotto ma il dolore era crudele. Seneca ora vedeva il capo dal basso. La mancanza di aria lo faceva quasi svenire, ma con suo stupore malgrado tutto restava vigile. Perché non svengo? Non voglio vedere più. Perché non svengo?
“Tu… tu che sei senza armatura. Tu bel biondino. Tu mi sembri un nobile. La tua faccia non mi è nuova. Dov’è che ti ho visto? Forse l’anno scorso sul palco delle autorità, mentre impiccavano mio fratello eh… Eri tu? Eri tu?” Gridò ad uno con una torcia che si avvicinasse. Quando la luce arrivò lo scrutò a lungo.
Seneca non parlava. Avrebbe voluto scomparire nel nulla quando il predone estrasse la spada dal fodero, la paura fu più forte del dolore. Temeva gli avrebbe tagliato la testa. La sabbia sulle labbra lo fece tossire, ma per le corde strette ebbe un conato dolorosissimo. Si contorse sul terreno. Il capo per bloccarlo gli appoggiò la spada aguzza sulla guancia. Poi iniziò a roteare la punta lentamente, bucandogli la pelle. Il sangue iniziò a colare e si mescolava al terriccio. Seneca si impose di non gemere, voleva comportarsi con onore in quegli ultimi momenti, però chiuse gli occhi.
“Eri tu? Sì… sì… tu sei un nobile… grandi soldi chiederò. Grandi soldi. Con questa notte guadagneremo un grande tesoro. Cercavamo nuovi schiavi, abbiamo trovato una fortuna. I vostri compagni vi hanno abbandonato qui eh? O siete disertori? Chi siete, per il demonio? Chi siete?” Il capo appesantì la pressione della spada e la punta gli trapassò la guancia, tagliandogli le gengive. Seneca non poté fare a meno di emettere un grugnito. Che dolore. Porterò il segno per sempre. O dei, sto per morire.
Marcello alle sue spalle gridò: “pietà! Lasciateci andare! Non fateci del male, siamo soldati romani!”
“Zitto cane!” Marcello venne percosso duramente mentre era a terra e urlò di dolore. Seneca non vide il colpo, ma la testa di Marcello lo colpì. Poi il soldato semplice doveva essere svenuto, perché non si muoveva più. O Giove, e se fosse morto? Seneca sentì qualcosa di caldo tra le gambe, Marcello si era pisciato addosso. No, non era morto. Udì gli scagnozzi ridere. Toccava a lui adesso? La sua guancia continuava a sanguinare e il sangue caldo gli era entrato nell’occhio, cominciava a raggrumarsi. Tutto, tutto pur di sopravvivere. Gli venne da vomitare. Cosa posso fare? Era sconvolto, cercò di ricordare qualche esempio per sapere come comportarsi, ma non gli venne in mente nulla. Tutto, voglio vivere, vivere.
“Siamo ricchi! –sentì urlare il capo- Questo prigioniero è un nobile romano! Il suo riscatto e la vendita degli altri schiavi ci renderanno ricchi! Il dio Ahura è con noi!” Urlò qualcos’altro di incomprensibile e il gruppo di briganti rispose con un clamore di gioia esagerata, sbattendo le armi sugli scudi. Erano soli in mezzo al deserto, chi avrebbe potuto salvarli? Nel cuore di Seneca si agitavano sentimenti contrastanti. Vivrò! Vivrò, ma come? Diventerò uno schiavo?
Il capo ordinò qualcosa e i due romani vennero rimessi in piedi. Cosa mi succederà adesso? Seneca dovette fare uno sforzo tremendo per restare alzato, dovendo reggere anche il peso morto del corpo di Marcello svenuto. Poi non ce la fece più e cadde di schianto in ginocchio davanti al capo. Padre mio aiutami.
Il capo gli sputò addosso con disprezzo. Il catarro lo colpì sui capelli biondi e gli colò sulla pelle. “Romani… vi credete di essere i padroni del mondo, ma vedremo come reagirà la tua famiglia quando saprà che sei in mano nostra. Era da tempo che volevo rapire un romano. Manderemo domani un tuo pezzo di carne, così si convincono prima a pagare il riscatto. Dimmi –gli tirò su la faccia con violenza-, quanto vale il tuo bel faccino?” Si guardarono negli occhi.
Seneca scorse di lato un altro predone tirare fuori un’ascia. Il capo dei banditi si mise a ridere, poi abbassò lo sguardo. “Invieremo il tuo naso… anzi no, una delle tue belle mani con anelli, così lo sapranno con sicurezza. Questa o quella?”
Seneca era terrorizzato. Riusciva solo a mormorare “No! No!” Era legato così stretto che soffocava e non riusciva a parlare. Sentì la voce del rabbi che interveniva, e si aggrappò a quella voce come un naufrago a un pezzo di legno.
“Rabbi! Aiutami, salvami!”
“Zitto!!”, il capo gli diede un pugno sulla testa. Seneca cadde faccia a terra. Udì un breve dialogo tra il rabbi e il capo dei briganti, ma le parole del rabbi questa volta ebbero l’effetto di infuriare i predoni. Arrabbiatissimi, due di loro si diressero verso colui che aveva osato parlare. Tutto il gruppo di pellegrini si strinse intorno al rabbi per difenderlo. I due scagnozzi presero con violenza una donna in prima fila, la schiaffeggiarono e le strapparono i vestiti, lasciandola nuda e impaurita. Il capo nel vedere questa scena si mise a ridere sguaiatamente, seguito dagli altri. “Basta con le parole! Siete tutti nostri prigionieri! Tutti schiavi! Violenteremo queste femmine e ci divertiremo! Inizia la festa, basta con le parole!”
Vide il capo ridere come un pazzo e incitare tutta la sua banda. E poi improvvisamente non ridere più, e portarsi le mani al ventre. Una punta ferrosa di giavellotto gli fuoriusciva dalla pancia.
“Cosa? C…” Una macchia di sangue si allargava sui vestiti. Il capo dei briganti stramazzò al suolo con una bestemmia. Dietro di lui Seneca vide stagliarsi una figura familiare.
“Manlio!”
Il centurione fece un fischio e poi diede un tremendo ruggito. Con spaventosi urli di guerra i legionari romani irruppero nell’accampamento dai quattro lati. Vorticando le affilatissime spade corte, fecero grande strage dei predoni. Micidiali frecce colpirono al petto molti briganti. I cacciatori erano diventati prede. Approfittando dell’effetto sorpresa e della perfetta disciplina romana i banditi furono sbaragliati in brevissimo tempo, e chi tentò di fuggire venne raggiunto dalle frecce inesorabili degli arcieri. Quei pochi che scamparono alla battaglia vennero fatti tutti prigionieri. Anche i pellegrini reagirono a loro volta, qualcuno aveva estratto rapido dei coltelli dagli abiti e aveva pugnalato i nemici più vicini, che improvvisamente si erano ritrovati avversari armati ovunque. Fu una carneficina. La sabbia si colorò di sangue nero. I cacciatori vennero uccisi dalle prede.
Nel giro di pochi secondi il destino era cambiato. Seneca era incredulo.
“Ah, allora le avevano le armi –affermò Manlio mentre tagliava vigoroso le corde di Seneca e Marcello-. Tutto bene, principe? E’ insanguinato.” Marcello gli porse uno straccio per pulirsi il volto.
“No no, niente di grave. Mi hanno bucato la guancia ma mi farò crescere la barba. Grazie Manlio. Grazie. Ci ha salvati.”
“Eravamo dietro a quelle rocce laggiù. Stavamo venendo a riprenderla quando ci siamo accorti dell’incursione di quei latrones e ci siamo nascosti. Siamo intervenuti appena possibile. Si ricordi di mettere del miele sulla ferita, così cicatrizza meglio, ne abbiamo di purissimo nell’accampamento.”
“Me la sono vista brutta. Bastardi!”
“Spero che non le sia successo nient’altro.”
“Nient’altro, grazie, nient’altro –disse ancora Seneca levandosi le corde e strofinandosi i polsi. Si alzò in piedi dolorante per il colpo di prima alle ginocchia. Ma che bello respirare. Il corpo di Marcello alle sue spalle scivolò pesantemente a terra. Si era dimenticato che fosse ancora svenuto-. Questa banda di delinquenti voleva rapirmi e far pagare un riscatto alla mia famiglia! Volevano tagliarmi la mano! Bisogna ammazzarli! Ammazzarli tutti!”
Il centurione annuì ma non commentò, afferrò il pezzo di tela con cui Seneca si era pulito il volto e asciugò accuratamente il sangue sulla lama della spada. Lì vicino un cavallo ferito nitriva orribilmente, in maniera straziante. Manlio fece un gesto ad un legionario, che si avvicinò alla bestia e gli affondò una spada nel cuore. Il cavallo smise di nitrire. Poi Manlio ritornò a dedicarsi alla sua spada. Quando ebbe finito la rimise nel fodero, poi controllò la ferita sulla testa di Marcello.
“E’ morto?”, chiese Seneca.
“No no, è vivo. L’hanno colpito con un calcio alla tempia, pare. Un brutto colpo, ma si riprenderà presto. Le ossa del cranio non si sono rotte. Questi ragazzi hanno la testa dura. Principe –chiese Manlio mentre versava aceto freddo sulla faccia di Marcello-, ora si è convinto di tornare indietro al campo? Sarebbe più sicuro lei e saremmo più tranquilli noi.”
“Sì, subito, torniamo subito.”
“A proposito principe, dove sono le sue armi? E la sua armatura?”
“Io non… non ricordo.”
Intanto Marcello aveva aperto gli occhi con un gemito. Si muoveva con movimenti lenti e storditi, però si riprendeva dal colpo. Meno male. Si toccava gemendo la testa con la mano. Vide Manlio e si stupì.
“Centurione! Grazie a Mitra, siete arrivati! Principe… principe!”
“Sono qui, Marcello.”
“E’ vivo! E’ vivo! Siamo vivi!”
“Buono, Marcello, Buono, siamo qui noi, è tutto finito. I predoni sono stati sconfitti. Hai una piccola ferita, fatti curare –Manlio intanto fasciava la testa di Marcello, poi scrutò Seneca-. Lei ha rischiato un po’ troppo questa notte, principe.”
“Sì, ha ragione Manlio. Accetto il suo rimprovero. E’ giusto, dovevo ascoltarla e tornare subito all’accampamento.”
Manlio decise di non proseguire oltre la discussione. I briganti erano stati sconfitti, il ragazzo era sano e salvo ed erano riusciti, dettaglio importante, a catturare ancora vivi dei prigionieri. Ci sarebbe stato da lavorare nei prossimi tempi. Magari avrebbero stanato il loro covo sulle montagne. Finalmente. L’importante comunque è che per ora tutto si fosse concluso nel migliore dei modi. A parte Liborio…
“Ho perso un uomo stasera –ammise con tristezza Manlio-. Era da tempo che non mi succedeva.” Seneca rimase in silenzio.
Quando ebbe finito di fasciare Marcello, Manlio si alzò, diede una occhiata in giro e si diresse, seguito da Seneca, verso il cadavere del suo soldato. Ma era stato preceduto.
“Chi è quell’uomo vicino al corpo di Liborio? E cosa stanno facendo gli altri lì intorno?”
Il tono di Manlio era quello del comando, e Seneca si affrettò a rispondere.
“E’ il loro rabbi, Manlio. E’ una figura religiosa. Tranquillo, non c’è niente da temere. Si vede che stanno pregando.”
“Non mi piace, li farò mandar via. Mi sa che vogliono depredarlo. Ne ho abbastanza di questa gente!” Marcello li seguiva a distanza, frastornato e un po’ barcollando.
“No, aspetta –Seneca cercò di rabbonire Manlio-. E’ un brav’uomo. Mi ha salvato prima. Lascialo pregare.”
Manlio gli lanciò un’occhiata irritata, ma non aggiunse altro. Si limitò ad accorrere con la mano sulla spada presso il cadavere di Liborio. Accanto al corpo morto del legionario era distesa pure la salma ricomposta del pellegrino a cui avevano quasi tagliato la testa. Intorno ai due corpi, allungati uno di fianco all’altro, uomini e donne piangevano, muovendo avanti e indietro i loro corpi.
Manlio e Seneca giunsero appena in tempo per sentire le ultime parole della preghiera del rabbi, con le mani al cielo. I suoi occhi erano rivolti verso le stelle.
“…C’era un grumo di sangue prima che noi respirassimo, un Dio prima che iniziasse la nostra vita, solo Ieri siete stati generati ed ecco il vostro Oggi. Possiate voi Domani attraversare la Via Lattea e le vostre anime volare leggere tra le stelle verso il padre nostro.”
I pellegrini risposero in coro. I ragazzini a cui Liborio aveva dato le noci, e questo colpì Seneca, sembravano i più addolorati. Piangevano in ginocchio accanto al suo corpo, mormorando qualcosa che i romani non capivano.
“Hanno iniziato ad intonare il canto funebre, il kaddish, è lunghissimo“, spiegò Marcello quando li raggiunse. Intanto si teneva con una mano la fasciatura.
“Non possiamo aspettare oltre –Manlio si rivolse a dei soldati e indicò il corpo di Liborio-. Prendetelo e caricatelo su un cavallo. Lo riportiamo indietro.”
“E i cadaveri dei briganti?”
“Accendete un falò e bruciateli. Prima però mozzate le loro teste, soprattutto quella del loro capo. Le esporremo domani in piazza.”
“E le armi?”
“Giusto. Togliete loro tutte le armi. Requisite pure quelle dei pellegrini, sanno bene che non è permesso possederle. Perquisiteli bene. E’ probabile che ci sia ben poco di valore ma meglio non rischiare. Siate accurati.”
Mentre Manlio discuteva con i soldati che ubbidivano, Seneca e Marcello si guardarono muti, senza dire una parola. Seneca avrebbe dovuto rimanere con chi perquisiva, in modo da recuperare il suo pugnale, ma prima c’era un’altra faccenda da eseguire.
Il campo era pieno di agitazione, forse era il momento giusto. Fu Marcello il primo a muoversi, toccandosi la testa fasciata, Seneca lo seguì. Si diressero dove l’uomo prima aveva seppellito le loro armi. Scansando dei soldati che stavano perquisendo dei riottosi pellegrini, quando furono arrivati al falò spento frugarono tra le braci sino a ritrovarle. Erano ancora roventi, bisognava maneggiarle con cura. Pensavano nella confusione di essere rimasti inosservati ma Manlio, mentre impartiva ordini ai soldati, con i suoi occhi come fessure non li aveva persi di vista.
Seneca ritrovò abbandonati anche elmo e armatura poco lontani e se li infilò, sistemandosi bene corpetto e spada. Era come indossare un vecchio abito, conosciuto e comodo. Spazzolò via la sabbia dallo stemma sbalzato e sentì di essere ritornato un soldato. Un soldato, con una cicatrice in più adesso. Tornarono indietro ad aiutare i commilitoni.
Non voleva far parte del gruppo che tagliava le teste e issava poi i cadaveri sulla pira. I romani incaricati del compito gridavano oscenità mentre appoggiavano i corpi morti sui massi e davano rumorosi colpi d’ascia. Sembrava si divertissero. Era una scena infernale. No, non voleva tagliare teste.
Decise di collaborare con quelli che stavano trasportando il cadavere di Liborio. Aiutò i due soldati ad appoggiarlo di traverso sul suo cavallo. Anche in tre non fu una impresa semplice. Poi legarono bene la pesante salma del legionario perché non cadesse nel tragitto.
Arrivò Marcello. “Aspettate, aspettate un momento –disse-, questa è sua, gli era caduta durante la battaglia.” Marcello ripose la spada di Liborio nel suo fodero, poi gli accarezzò il viso. “Accenderò io il fuoco per la truppa da ora in poi, te lo prometto. Sarai ricordato ogni sera.” Gli aprì la mano stretta a pugno, ormai irrigidita dalla morte, e vi prese la lana che serrava.
Il mucchio ardente dei cadaveri decapitati illuminava quasi a giorno la scena. Le fiamme erano altissime e la puzza di carne bruciata terribile. I soldati romani, conclusi gli ordini, montarono tutti a cavallo, desiderosi di andarsene. Seneca, con un fazzoletto sul naso per contrastare la nausea, salì sul suo puledro, portatogli da un soldato. Via, via da qui.
Era la prima volta che un uomo moriva così vicino a lui. Non aveva mai visto tanta ferocia. Sì, avrebbe organizzato un grande sacrificio per lo scampato pericolo. Nemmeno quando la barca si era rovesciata nel Nilo si era sentito tanto vulnerabile. Un sacrificio con gli animali più preziosi e puri, non era mai stato così vicino alla morte. Tutto ciò gli aveva destato un sentimento sacro nel cuore, lui che non era mai stato molto fervente. Sua madre sarebbe stata contenta. Sì, un grande sacrificio.
Si rivolse al suo cavallino. “Andiamo bello, questa lunga notte finalmente sta finendo, torniamo a casa.” Mancava ormai poco all’alba. Prima aveva detto a Manlio che aveva sbagliato a non tornare subito all’accampamento, ma in cuor suo sapeva che non era del tutto vero. Si accarezzò il buco sulla guancia, aveva smesso di sanguinare ma gli bruciava. E ora che sapeva che sarebbe sopravvissuto, con solo uno sfregio per ricordo, non era veramente pentito. E’ questo che si prova a diventare uomini? Le esperienze di questa notte un giorno mi torneranno utili. Ho un segno fuori e una ricchezza dentro. Andranno bene nei momenti difficili.
Guardò per un attimo la pira illuminata dei cadaveri. Un sacrificio grande.
“Andiamocene!”, ordinò ad alta voce Manlio. I soldati diedero sprone ai loro cavalli e partirono, portandosi dietro una fila di prigionieri legati e bendati, che si lamentavano ad alta voce. Anche Seneca spronò il suo puledro, e rapidamente superarono il gruppo di pellegrini, che li videro andar via al galoppo.
Seneca in mezzo a loro per l’ultima volta vide il rabbi. Stava consolando la moglie singhiozzante, la teneva tra le braccia e le baciava gli occhi, mormorando qualcosa. Lavinia, sto tornando da te.
Gli sguardi dei due uomini si incrociarono e rabbi fece a Seneca un gesto con la mano. Nel suo gesto c’era tutto. Addio, comprensione, tristezza, forza. Ricordati di me. Io mi ricorderò di te, un legame intenso ora ci unisce. Vivere con amore. Volersi bene. Seneca, mentre si allontanava con gli altri, si ricordò di ciò che si erano detti, ed era un ricordo che mescolato all’intensità dell’amore per Lavinia lo commuoveva e gli faceva quasi venire da piangere.
Quella notte aveva avuto la consistenza di un sogno. Impalpabile, misterioso, intenso, eppure stava già sfumando nella luce delicata dell’alba, un nuovo giorno stava nascendo. Ogni cosa sembrava più chiara adesso. Chissà se lo avrebbe rivisto. Stai attento a non cadere da cavallo, stai diritto.