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martedì 21 maggio 2019

JOYSTICK

“Ma io quello lo conosco.”
Il telegiornale mostrava il volto giovane di un assassino che a malapena era sfuggito al linciaggio della folla.
“...già noto alle forze dell’ordine, è ora in carcere con l’accusa di omicidio volontario e si prevede una pena severissima -oddio magari mi sono sbagliato-. Dopo aver aspettato in un vicolo una ragazza che tornava dal lavoro, le è saltato addosso di spalle impugnando un coltello e intimandole di avere un rapporto. La ragazza ha tentato di divincolarsi ma il ragazzo, di nome…. -Santo Dio. Era proprio lui, Joystick, ma come è possibile?- appena 19 anni e già con piccoli precedenti, l’ha accoltellata alla gola. La ragazza è morta dissanguata, il suo assassino è scappato ma è stato subito…”
In paese lo chiamavano tutti Joystick, perché era magro, alto e spendeva tutto ai videogiochi. A 12 anni vagabondava invece di andare a scuola, commetteva piccoli furtarelli, insultava i poliziotti, si accompagnava a personaggi sempre meno raccomandabili, rubava nelle chiese. Insomma, per guai più seri era solo questione di tempo.
Dopo l’ennesima sbruffonata, la Polizia lo segnalò al Servizio Sociale che inserì il ragazzo come “ospite” in una comunità dove ai tempi lavoravo come Psicologo. Il posto è simpatico e immerso nel verde, ma si tratta pur sempre di uno di quegli edifici che una volta venivano chiamati Collegio.
La prima volta che Joystick entrò nel mio studio rimasi impressionato: di anni ne dimostrava molti più di 12, era alto e già con un’ombra di barba sulle guance, se mi avessero detto che incontravo un maggiorenne mi sarei stupito meno. La faccia con quegli occhietti piccoli era inquietante.
Conoscerlo non mi dava l’impressione che evocavano altri bambini o ragazzi sfortunati. No, quando è apparso sulla soglia dello studio mi ero messo subito in guardia, era entrata la tensione. Mi ricordava certi ragazzotti intravisti nelle periferie e per fortuna solo di giorno.
(Stai attento. Devo perquisirlo? Avrà armi con sé? Ma no, di cosa hai paura, ha solo 12 anni, tu ne hai trenta di più. Di cosa hai paura?)
Iniziò a vantarsi spavaldo dei suoi guai con la Polizia, iniziati quando giocava ai videogames e si metteva in mezzo alla strada per insultarli. Perché lo faceva? Così, boh. E poi tirava i sassi alle macchine, fumava, beveva etc.
Mentre parlava Joystick si era messo a disegnare su un foglio e con la coda dell’occhio guardavo. Non era un albero o le solite casette dei bambini.
“Mi son rotto le balle, io vado.” Quando andò via guardai il disegno. Era un diavoletto che occupava gran parte del foglio, rosso con la bocca aperta e le manine alzate. Colorato bene. Sorridente o ghignante?
Il messaggio era innegabile: che sia ben chiaro, io sono un diavoletto poco raccomandabile. Così voglio presentarmi al mondo. Dovete accettarmi così e allora posso anche risultare simpatico. Ma all’inizio voglio far paura, non sono un bambino.
Continuai a vedere Joystick in maniera molto occasionale, veniva solo se aveva voglia (praticamente mai). Dato che aveva lavorato come assistente di un ceramista, una volta gli chiesi un parere sulle piastrelle dello studio. Dopo uno sguardo disse che erano molto costose ma posate male.
Come le avrebbe messe lui? Prese alcuni biscotti e formò un piccolo pavimento piastrellato. Si inizia sempre dai bordi. Ideò alternative, mi mostrò disposizioni geometriche nuove. Si appassionò al problema. (Sorprendente. Ma quanto sei intelligente Joystick?).
Si mise a guardarmi intensamente. Passò qualcosa tra noi due (cosa vuoi da me? posso fidarmi? mi capirai se te lo dico?). L’attimo di silenzio, che prima o poi arriva sempre. Cruciale, delicato. Magico, per cui potrebbe anche non funzionare. Accade a tutte le età.
Masticò rumorosamente un biscotto. “Ti faccio vedere una cosa, guarda qua”, tirò giù il maglione e mi fece vedere un buco sulla spalla. (Cicatrici. Si sta spogliando davanti a me). Le sue ferite, i segni delle cinghiate prese dai poliziotti. Improvvisamente mi guardò e si rese conto che era andato troppo avanti per le sue intenzioni, si rivestì, salutò e uscì in fretta.
Non lo rividi mai più, continuava a comportarsi come un teppistello con tutti e a scappare. Presto venne dimesso. “Tanto valeva per noi non tenere questo ragazzo” mi disse sconsolato un educatore. Un fallimento, insomma.
Sino a quando, sette anni dopo rividi il suo volto in tv per un omicidio.
Non mi ero accorto di quanto il suo cuore fosse buio. Pensavo che a 12 anni avesse uno spazio vasto e vuoto, ancora da colmare e misterioso. Se all’epoca, quando si è spogliato, avessi seguito il serpente che si srotolava... sarei arrivato in fondo, all’origine del male. Non dovevo farlo uscire dallo studio.
E invece mi ero lasciato incantare dai suoi occhietti piccoli, come farebbe un serpente con uno stupido uccellino. Il serpente mi aveva incantato.
(Non puoi salvare il mondo.
Ah, sei tu? Intanto quella ragazza è morta.
Sei sempre lo stesso, pronto a darti le colpe.
Ma allora di chi è la responsabilità? Stiamo diventando tutti Ponzio Pilato.
Come sei noiosamente salvifico. Ti è stato strappato dalle mani, che altro potevi fare?
Nulla… che altro potevo fare? Che altro posso fare?
Ad essere franchi c’è qualcosa che si potrebbe fare. E’ forse l’unica, chissà se è utile…
Cosa? Dimmi.
Raccontare. Raccontare come è andata).

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