LA MIA PRIMA PAZIENTE, LA MIA ANNA O.
Neolaureato
in Psicologia, mi recai dal medico del quartiere per offrire i miei servigi.
Superato un comprensibile nervosismo, entrai nel suo studio, mi sedetti ed
esposi le mie (fragili) competenze. Certo avevo entusiasmo ed energia da
vendere, ma la mia borsa per intendersi era vuota. Erano tempi in cui sparavo
in cento direzioni, sperando prima o poi di beccare qualcosa, solo che non
sapevo fare niente.
Niente.
Il corso di studi universitario era stato molto teorico e poco pratico.
Conoscevo i disegni più comuni, il Rorschach, avevo frequentato un corso di
Training Autogeno e lavorato come educatore per disabili. Tutto lì. Anche a
sforzarsi, non era molto. A parte poi la mia esperienza personale come
paziente, non avrei saputo come gestire un colloquio. Però in molti mi dicevano
“l’importante è buttarsi, provare.”
Ripensandoci
la mia inesperienza doveva essere evidente, ma volevo comunque iniziare. Il
medico, forse convinto dalla mia passione, o incuriosito, o perché essendo un
buon uomo gli piaceva dare una mano ai “giovani”, mi segnalò una sua paziente,
che secondo lui aveva bisogno di parlare con qualcuno Una signora sui 55 anni,
di nome Tina, malata terminale di cancro e che soffriva terribilmente. Le
amiche andavano a trovarla ma non sapevano più cosa dirle, e il marito e la
figlia assistevano impotenti al suo spegnersi. Non si poteva aumentare la già
massiccia dose di antidolorifici, e ogni giorno era sempre peggio. Quando le
telefonai, si dimostrò contenta che andassi a trovarla, sapeva che l’avrei
chiamata.
Mi
ricordo ancora la sua camera, piena di farmaci e flebo. Tina era minuta, la
vita non era stata gentile con lei. Nei nostri primi incontri facevamo lunghe
chiacchierate sulla sua vita. Aveva lavorato come sarta, ma ormai era troppo
debole e ammalata. Piangeva spesso. Io non sapevo cosa dirle in quei momenti.
Avrebbe voluto vedere sua figlia sposarsi, e diventare nonna, ma sarebbe morta
prima. Aveva anche trovato una donna per suo marito, per quando non ci sarebbe
stata più. Ogni tanto le proponevo di disegnare qualcosa, ma non le piaceva.
Faceva sempre alberi rinsecchiti, sull’orlo di un precipizio.
Un
giorno ebbi una idea: perché non provare con lei il Training Autogeno? Male
certo non le avrebbe fatto. Il TA è una forma blanda di ipnosi, in cui il
terapeuta propone immagini distensive e induce un rilassamento nel soggetto.
Ricordo ancora qualcuna di queste immagini (…l’acqua che scivola dai tetti…).
Utile per l’ansia e malattie psicosomatiche. Proposi a Tina delle sedute di TA,
e successe una cosa sorprendente. Tina si rilassava moltissimo, e quando si
destava non provava più dolore, stava bene. Addirittura poi la notte dormiva
come non succedeva da tempo, senza antidolorifici. Il marito e la figlia erano
sempre più contenti quando arrivavo, con grandi sorrisi e inchini ci lasciavano
da soli “a lavorare”.
A
questo punto devo confessare però qualcosa di non bello: malgrado un risultato
straordinario (per Tina e per me), avendo strane idee in testa sulla psicoterapia
non consideravo Tina proprio una paziente. Le avevo rivelato poi onestamente
che era la mia prima volta, e non volevo nemmeno essere pagato. Ero superbo?
Superficiale? Mi difendevo dal dolore? E’ andata così. I nostri incontri per
esempio non erano costanti, anche se ci incontravamo spesso.
Ricordo
ancora un pomeriggio estivo in cui, durante il TA, Tina si addormentò come
ormai accadeva sempre più spesso. Appena lei sprofondò nel sonno io mi guardai
intorno. “E adesso?”. Ero molto imbarazzato, in casa oltre a noi due non c’era
nessuno. Silenzio. Dovevo restare lì ma non sapevo cosa fare. Mi misi a
sfogliare una rivista femminile (Grazia o Amica, non ricordo), aspettando che
Tina si svegliasse.
Si
svegliò serena e rilassata, con un sorriso. Per ringraziarmi, mi regalò una
lunga striscia di seta gialla, molto fine. Se fosse stata meglio mi avrebbe
cucito una camicia, quella seta era per me. Non fa niente, l’importante è il
pensiero. La ringraziai e la presi, mi sembrava scortese non accettare. In verità
però non sapevo cosa farmene, così la regalai alla fidanzata, e chissà adesso
dove è finita. Cosa non darei adesso per avere quella stoffa gialla tra le
mani. Accarezzandola mi sembrerebbe di tornare a quei tempi, quando tutto
sembrava ancora possibile.
La
storia purtroppo non ha un esito felice. Mi dovetti assentare per qualche mese
dalla città e nel frattempo Tina peggiorò e morì. Rientrai appena in tempo per
il suo funerale. Mentre il corteo sfilava sentivo dentro di me qualcosa che
premeva. Era qualcosa di più che il sentimento che si prova in circostanze del
genere, riguardava il mio lavoro. Forse, mi dicevo, aveva avuto bisogno di me,
avrebbe avuto sicuramente bisogno di me, ma io non c’ero. Non c’ero.
Volevo
essere Freud, ma mi ero comportato come un Breuer qualsiasi. Come avevo potuto
abbandonarla così? Certo, gli impegni qui e i progetti là, tutto vero, sta di
fatto che la mia assenza mi pesava. Durante la cerimonia funebre, compresi una
verità che non sospettavo si potesse applicare anche a me, alle prime armi. Quando si instaura una qualsiasi relazione
di aiuto, questo legame è di natura speciale, e io ne sono responsabile almeno
quanto il paziente. Ti ringrazio Tina, ovunque tu sia. Ti penso spesso.
Gli eventi accadono improvvisamente.
RispondiEliminaE irrompono inaspettati, brutali
In un attimo mutano gli scenari di tante vite.
E ti accorgi che almeno metà della persone che hanno appartenuto alla tua vita, non ci sono più.
Chi se n'è andato per "raggiunti limiti di età".
Chi è andato incontro ad una morte prematura e in questi casi sempre brutale.
Chi se n'è andato per un'altra via e ti ha voltato le spalle.
Più andiamo avanti,
più nei nostri "album di fotografie" accarezzeremo coi polpastrelli
le persone che non ci sono più.
E cresce la consapevolezza che ii tempo che ci è concesso è breve
che probabilmente abbiamo gettato alle ortiche tante occasione importanti
che pensavamo di avere un tempo che si dilatasse all'infinito.
Ma la fine, la morte arriva, irrompe, a volte fulmine a ciel sereno.
E non ammette proroghe.
Daniela©
E quanti morti
RispondiEliminasta portando questa vita
È un torrente che scorre
e ogni giorno ne riporge uno
E a nulla vale struggersi
perché alla morte non c'è appello
A cinque anni giá si accanì
Ma cosa conta il cuore di un bambino
al cospetto della morte?
E niente lenisce il dolore
Io non posso più contarli
Sono troppi
L'ultimo sei tu,
uomo che mi ha amata e ingannata
Io di te porto tre figli
Venezia Firenze un paio di scarpe
i tuoi occhi verdi menzogneri
E non ho più padre né madre
Anche un morto che vive
m'ha amata un breve attimo
e mi ha uccisa presto e in fretta
E sono come una zattera
naufraga in questo mare
che ha il richiamo irresistibile della morte
Forse aspetto l'onda che mi inghiotta
o quella che mi adagi sull'isola dell'oblio
E ora saluto con occhi piovosi
questa notte insulsa
che mi renda morta per qualche istante