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mercoledì 29 aprile 2015

 LA MIA PRIMA PAZIENTE, LA MIA ANNA O.

Neolaureato in Psicologia, mi recai dal medico del quartiere per offrire i miei servigi. Superato un comprensibile nervosismo, entrai nel suo studio, mi sedetti ed esposi le mie (fragili) competenze. Certo avevo entusiasmo ed energia da vendere, ma la mia borsa per intendersi era vuota. Erano tempi in cui sparavo in cento direzioni, sperando prima o poi di beccare qualcosa, solo che non sapevo fare niente.
Niente. Il corso di studi universitario era stato molto teorico e poco pratico. Conoscevo i disegni più comuni, il Rorschach, avevo frequentato un corso di Training Autogeno e lavorato come educatore per disabili. Tutto lì. Anche a sforzarsi, non era molto. A parte poi la mia esperienza personale come paziente, non avrei saputo come gestire un colloquio. Però in molti mi dicevano “l’importante è buttarsi, provare.” 
Ripensandoci la mia inesperienza doveva essere evidente, ma volevo comunque iniziare. Il medico, forse convinto dalla mia passione, o incuriosito, o perché essendo un buon uomo gli piaceva dare una mano ai “giovani”, mi segnalò una sua paziente, che secondo lui aveva bisogno di parlare con qualcuno Una signora sui 55 anni, di nome Tina, malata terminale di cancro e che soffriva terribilmente. Le amiche andavano a trovarla ma non sapevano più cosa dirle, e il marito e la figlia assistevano impotenti al suo spegnersi. Non si poteva aumentare la già massiccia dose di antidolorifici, e ogni giorno era sempre peggio. Quando le telefonai, si dimostrò contenta che andassi a trovarla, sapeva che l’avrei chiamata.
Mi ricordo ancora la sua camera, piena di farmaci e flebo. Tina era minuta, la vita non era stata gentile con lei. Nei nostri primi incontri facevamo lunghe chiacchierate sulla sua vita. Aveva lavorato come sarta, ma ormai era troppo debole e ammalata. Piangeva spesso. Io non sapevo cosa dirle in quei momenti. Avrebbe voluto vedere sua figlia sposarsi, e diventare nonna, ma sarebbe morta prima. Aveva anche trovato una donna per suo marito, per quando non ci sarebbe stata più. Ogni tanto le proponevo di disegnare qualcosa, ma non le piaceva. Faceva sempre alberi rinsecchiti, sull’orlo di un precipizio.
Un giorno ebbi una idea: perché non provare con lei il Training Autogeno? Male certo non le avrebbe fatto. Il TA è una forma blanda di ipnosi, in cui il terapeuta propone immagini distensive e induce un rilassamento nel soggetto. Ricordo ancora qualcuna di queste immagini (…l’acqua che scivola dai tetti…). Utile per l’ansia e malattie psicosomatiche. Proposi a Tina delle sedute di TA, e successe una cosa sorprendente. Tina si rilassava moltissimo, e quando si destava non provava più dolore, stava bene. Addirittura poi la notte dormiva come non succedeva da tempo, senza antidolorifici. Il marito e la figlia erano sempre più contenti quando arrivavo, con grandi sorrisi e inchini ci lasciavano da soli “a lavorare”.
A questo punto devo confessare però qualcosa di non bello: malgrado un risultato straordinario (per Tina e per me), avendo strane idee in testa sulla psicoterapia non consideravo Tina proprio una paziente. Le avevo rivelato poi onestamente che era la mia prima volta, e non volevo nemmeno essere pagato. Ero superbo? Superficiale? Mi difendevo dal dolore? E’ andata così. I nostri incontri per esempio non erano costanti, anche se ci incontravamo spesso.
Ricordo ancora un pomeriggio estivo in cui, durante il TA, Tina si addormentò come ormai accadeva sempre più spesso. Appena lei sprofondò nel sonno io mi guardai intorno. “E adesso?”. Ero molto imbarazzato, in casa oltre a noi due non c’era nessuno. Silenzio. Dovevo restare lì ma non sapevo cosa fare. Mi misi a sfogliare una rivista femminile (Grazia o Amica, non ricordo), aspettando che Tina si svegliasse.
Si svegliò serena e rilassata, con un sorriso. Per ringraziarmi, mi regalò una lunga striscia di seta gialla, molto fine. Se fosse stata meglio mi avrebbe cucito una camicia, quella seta era per me. Non fa niente, l’importante è il pensiero. La ringraziai e la presi, mi sembrava scortese non accettare. In verità però non sapevo cosa farmene, così la regalai alla fidanzata, e chissà adesso dove è finita. Cosa non darei adesso per avere quella stoffa gialla tra le mani. Accarezzandola mi sembrerebbe di tornare a quei tempi, quando tutto sembrava ancora possibile.
La storia purtroppo non ha un esito felice. Mi dovetti assentare per qualche mese dalla città e nel frattempo Tina peggiorò e morì. Rientrai appena in tempo per il suo funerale. Mentre il corteo sfilava sentivo dentro di me qualcosa che premeva. Era qualcosa di più che il sentimento che si prova in circostanze del genere, riguardava il mio lavoro. Forse, mi dicevo, aveva avuto bisogno di me, avrebbe avuto sicuramente bisogno di me, ma io non c’ero. Non c’ero.

Volevo essere Freud, ma mi ero comportato come un Breuer qualsiasi. Come avevo potuto abbandonarla così? Certo, gli impegni qui e i progetti là, tutto vero, sta di fatto che la mia assenza mi pesava. Durante la cerimonia funebre, compresi una verità che non sospettavo si potesse applicare anche a me, alle prime armi. Quando si instaura una qualsiasi relazione di aiuto, questo legame è di natura speciale, e io ne sono responsabile almeno quanto il paziente. Ti ringrazio Tina, ovunque tu sia. Ti penso spesso.

2 commenti:

  1. Gli eventi accadono improvvisamente.
    E irrompono inaspettati, brutali
    In un attimo mutano gli scenari di tante vite.
    E ti accorgi che almeno metà della persone che hanno appartenuto alla tua vita, non ci sono più.
    Chi se n'è andato per "raggiunti limiti di età".
    Chi è andato incontro ad una morte prematura e in questi casi sempre brutale.
    Chi se n'è andato per un'altra via e ti ha voltato le spalle.
    Più andiamo avanti,
    più nei nostri "album di fotografie" accarezzeremo coi polpastrelli
    le persone che non ci sono più.
    E cresce la consapevolezza che ii tempo che ci è concesso è breve
    che probabilmente abbiamo gettato alle ortiche tante occasione importanti
    che pensavamo di avere un tempo che si dilatasse all'infinito.
    Ma la fine, la morte arriva, irrompe, a volte fulmine a ciel sereno.
    E non ammette proroghe.

    Daniela©

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  2. E quanti morti
    sta portando questa vita
    È un torrente che scorre
    e ogni giorno ne riporge uno

    E a nulla vale struggersi
    perché alla morte non c'è appello
    A cinque anni giá si accanì
    Ma cosa conta il cuore di un bambino
    al cospetto della morte?
    E niente lenisce il dolore

    Io non posso più contarli
    Sono troppi
    L'ultimo sei tu,
    uomo che mi ha amata e ingannata
    Io di te porto tre figli
    Venezia Firenze un paio di scarpe
    i tuoi occhi verdi menzogneri

    E non ho più padre né madre
    Anche un morto che vive
    m'ha amata un breve attimo
    e mi ha uccisa presto e in fretta

    E sono come una zattera
    naufraga in questo mare
    che ha il richiamo irresistibile della morte
    Forse aspetto l'onda che mi inghiotta
    o quella che mi adagi sull'isola dell'oblio

    E ora saluto con occhi piovosi
    questa notte insulsa
    che mi renda morta per qualche istante

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