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mercoledì 29 aprile 2015

IL PAZIENTE IN TELEVISIONE

Chi è stato il tuo paziente più famoso? Mmm… non era certo famoso quando l’ho incontrato la prima volta.
Ti va di parlarne? Va bene,  non ci faccio proprio una gran figura, ma forse può servire. Lo chiamerò …Maurizio, anzi Maurixio (non so perché ma mi suona bene).
Maurixio aveva 13 anni e una famiglia problematica alle spalle. Molto problematica. Soprattutto il padre, vero fuori di testa, di quelli pericolosi. Intanto Maurixio vagabondava per il paese invece di essere a scuola, commetteva piccoli furtarelli, insultava i poliziotti, si accompagnava a personaggi sempre meno raccomandabili, rubava nelle chiese. Insomma, per guai più seri era solo questione di tempo. La Polizia segnalò il caso al Servizio Sociale che, dopo vari tentativi, inserì il ragazzo come “ospite” (che belle parole si usano) in una Comunità dove lavoravo come Psicologo, una struttura
 non certo carceraria o contenitiva, lo dico subito per evitare malintesi, è un luogo affiliato all’ospedale e le sue finalità sono di recupero, prevenzione e cura del disagio minorile. O perlomeno ci proviamo J. Il posto è simpatico e immerso nel verde, ma si tratta pur sempre di uno di quegli edifici che una volta era chiamato Collegio.

La prima volta che Maurixio entrò nel mio studiolo a pianterreno rimasi impressionato: di anni ne dimostrava molti più di 13, era alto e con un’ombra di barba sulle guance, se mi avessero detto che incontravo un maggiorenne mi sarei stupito meno. La faccia era inquietante. Lombrosiana. (Siamo ancora a questo punto? Che una faccia ti evoca un giudizio morale?) Occhietti piccoli, labbra sottili, naso affilato, denti storti, espressione diffidente. Conoscerlo non dava l’impressione che evocano altri bambini o ragazzi sfortunati. No, quando è apparso sulla soglia dello studio mi ero messo subito in guardia, era entrata la tensione. Mi ricordava certi ragazzotti che ho intravisto nelle periferie, e per fortuna solo di giorno.
(Stai attento. Devo perquisirlo? Avrà armi con sé? Ma no, di cosa hai paura, ha solo 13 anni, tu ne hai trenta di più. Al massimo controlla le tue difese. Di cosa hai paura?)
Vista la brevità del nostro primo incontro, gli chiesi se aveva voglia di disegnare qualcosa, che ne so, un albero. L'aveva già fatto "migliaia" di altre volte, ma si sottopose di buon grado. Mentre sceglieva le matite, si vantava spavaldo dei suoi guai con la Polizia, iniziati quando giocava ai videogames per adulti e lo buttavano fuori dalla sala giochi. E continuati quando si metteva in mezzo alla strada per insultarli. Perché? Così, boh. E questa sua carta di identità Maurixio la colorava con altri dettagli, del tipo che tirava i sassi alle macchine, fumava, beveva etc. (Una mela beccata dagli uccellini, che matura male e anzitempo dove è stata colpita). Intanto con la coda dell’occhio guardavo cosa stava disegnando. Non era un albero.
Quando andò via guardai il disegno. Era un diavoletto che occupava gran parte del foglio, rosso con la bocca aperta e le manine alzate. Colorato bene. Sorridente o ghignante? Senza entrare nei dettagli, il messaggio finale era percepibile: che sia chiaro, io sono un diavoletto poco raccomandabile. Così voglio sembrare al mondo. Sono un bambino cresciuto, dovete accettarmi così, e allora posso anche essere simpatico. Voglio far paura. Ma sono pure un bambino, e ho paura.

Come spesso capita, la conoscenza successiva aveva lentamente abbassato le nostre difese. Un giorno vidi Maurixio con uno dei biscotti che tenevo sul tavolo. "Sono passato dal tuo studio e l'ho preso". Bene, interpretai la cosa come una richiesta (la famosa “domanda”, sempre implicita nei minori) e lo portai brevemente da me. Mi raccontò di uno schiaffo dato ad una educatrice e con troppo sforzo scrisse due parole. Sembrava quasi un analfabeta, faceva molta fatica non dico ad esprimere un concetto, ma anche a scrivere il suo nome .
C’era da capirlo. I genitori stavano divorziando e lui era andato a scuola molto molto poco. I suoi Servizi Sociali avevano delineato un quadro che definire fosco è un eufemismo: il padre, mentalmente disturbato, soffriva di una spaventosa gelosia a tal punto da tentare spesso il suicidio, ma il più delle volte litigava pesantemente con la moglie. Ogni tanto si rimettevano insieme, lei restava incinta e lui, convinto che non fosse figlio suo, la obbligava ad abortire (!?!). Una coppia patologica, una follia a due. Maurixio era nato all’inizio del matrimonio, quando le cose ancora sembravano potessero girare bene. Ma poi il tutto era degenerato.
Io quell’inverno continuai a vedere Maurixio in maniera molto occasionale, veniva solo se aveva voglia (praticamente mai). Dato che aveva lavorato come ceramista, una volta gli chiesi un parere sulle piastrelle dello studio. Dopo uno sguardo disse che erano molto costose ma posate male. Come le avrebbe messe lui? Prese alcuni biscotti e formò un piccolo pavimento piastrellato. Si inizia sempre dai bordi. Ideò alternative, mi mostrò disposizioni geometriche nuove. Si appassionò al problema. (Sorprendente. Ma quanto sei intelligente Maurixio? E non poco).
Data la piega confidenziale della conversazione presi il coraggio a due mani e gli chiesi che opinione avesse sull’abitare qui.
Maurixio mi guardò intensamente. Passò qualcosa tra noi due (cosa vuoi da me? posso fidarmi? e mi capirai se te lo dico?). L’attimo di silenzio, che prima o poi arriva sempre. Cruciale, delicato. Magico, per cui potrebbe anche non funzionare. Accade a tutte le età.
Giocherellando con i biscotti, guardando la scrivania, …secondo lui i motivi per cui si trovava qui erano tre: perché si è avvelenato, perché non voleva che i suoi divorziassero, e la terza cosa... perché aveva rubato dei soldi per pagare l'avvocato. Dopo il furto andò a casa sua e senza dire una parola gettò i soldi sul tavolo davanti ai genitori. (Quanta sofferenza, quanti comportamenti brutti). Ma non voleva parlarne adesso…
Masticò rumorosamente un biscotto. “Ti faccio vedere una cosa”. Riusciva a far schioccare le vene delle dita. Ostrega! “E guarda qua”, si tirò giù il maglione e mi fece vedere un buco sulla spalla. (Cicatrici sul petto. Si sta spogliando davanti a me). E le sue ferite, i segni delle cinghiate prese dai poliziotti. Improvvisamente mi guardò e si rese conto che era andato troppo avanti per le sue intenzioni, si rivestì, salutò e uscì in fretta.

Non lo rividi mai più in studio. Ogni tanto il ragazzo scappava dalla Comunità, vagabondava per conto suo o tornava in famiglia per qualche tempo. Oppure spariva per un paio di giorni. Cosa faceva? Dove andava? Non si sa.
Nessuno di noi in Comunità si straccia le vesti se un ragazzo fugge, è un comportamento sintomatico come tanti, e neanche il peggiore. Oddio, non fa certo piacere,  fosse anche solo per le ripercussioni: una volta una ragazza fuggita alla stazione del paese riuscì a rubare un treno (un treno! non si è ancora capito come abbia fatto). Ma alle fughe dei ragazzi, comunque rare, ci siamo abituati e spesso si risolvono da sole, e possono essere un punto di partenza (ah ah), o lo sfogo finale di una crisi. Una notte di luglio però la fuga di Maurixio ebbe conseguenze drammatiche.
Il padre se l’era andato a riprendere, dopo che il ragazzo era fuggito e gli aveva telefonato. Per farla breve poi il padre aveva denunciato tutti ed il ragazzo era stato dimesso dalla Comunità alla velocità della luce.

In molti operatori (non è bello ma bisogna dirlo) avevo notato ai tempi un certo sollievo: a volte Maurixio si era comportato proprio come un teppistello con gli altri ragazzini, un bullo, un cattivo maestro. E Dio sa che questi ragazzi non ne hanno proprio bisogno. I nostri sforzi “educativi” poi sarebbero stati assolutamente vanificati e svaporizzati da quel padre, impossibile da allontanare e contenere. “Tanto valeva per noi non tenere questo ragazzo” mi disse sconsolato un educatore. Un fallimento, insomma.

Peccato. Maurixio, mi dissi all’epoca, ha sentito il richiamo della foresta e non ha resistito. Mi chiesi se covava tale fuga da tempo o se era stata una decisione improvvisa. Ma altri problemi incombevano e ne presero rapidamente il posto –fu un periodo decisamente infuocato-. Maurixio venne dimenticato.

Fino a che…Sei anni dopo il Tg regionale aprì i notiziari con una notizia di cronaca nera: una ragazza era stata assassinata da un 19enne, che a mala pena era sfuggito al linciaggio della folla inferocita, che continuava ad assediare la Questura. “Il ragazzo, un certo Maurixio, già noto alle forze dell’ordine, è ora in carcere con l’accusa di omicidio volontario. Si prevede una pena severissima.”
A me sembrava di vivere in un film. Provavo una sensazione di irrealtà. Non avevo capito nulla. Avevo scritto qualcosa sul nostro incontro? Che impressioni mi aveva lasciato? Avevo pensato a lui in questi anni? Ma forse sto andando troppo avanti, magari non ho capito bene.
Il mezzobusto del Telegiornale continuava impietoso: “…dopo averla aspettata in un vicolo poco frequentato, il giovane le è saltato addosso di spalle…”
“Che vigliacco! Che vigliacco!”, commentava intanto mia moglie.
“…impugnando un coltello e intimando di avere un rapporto sessuale con lui. La ragazza, che tornava dal lavoro, ha tentato di divincolarsi, ma il ragazzo, di nome….
Santo Dio. Era lui, era lui.
…appena 19 anni e già sospettato di azioni simili, al suo rifiuto l’ha accoltellata alla gola ed è scappato. La ragazza è morta dissanguata e il suo assassino è stato subito…”
Mi rifiutavo con ostinazione di crederci. Forse ho sentito male. Si era trattato veramente di lui? E se mi fossi sbagliato? Non sarebbe la prima volta. Magari ho capito male il nome. Domani controllerò sui quotidiani. Cercando di non far trapelare il mio turbamento (quella sera avevamo ospiti) indossai la solita maschera sociale. (Come è comodo, come è indolore fare lo struzzo). Già il tutto veniva cacciato nel buio.
Il buio però lo fece saltare fuori. Quella notte ebbi un incubo e mi svegliai ghiacciato. Andai in cucina per un bicchiere d’acqua. Mi misi a giocherellare con le tesserine del domino di mio figlio, lasciate sul tavolo della cucina. Un modo piacevole per insegnare i numeri, o così speravamo. Le tesserine del domino… i biscotti… Tutto è collegato nella nostra mente. Come il domino, lasciando cadere una tesserina qui affiorava un pensiero là. Posando le piastrelle emergeva un disegno. Una cosa porta ad un’altra.

Non mi ero accorto del suo cuore buio. Pensavo fosse uno spazio vasto e vuoto, ancora da colmare, misterioso. Se all’epoca, quando si è spogliato, avessi seguito il serpente che si srotolava sarei arrivato in fondo. Non dovevo farlo uscire dallo studio. Sino al centro, avrei trovato la coda, l’origine del male, che agiva la pazzia. L’esempio mortale di un padre folle, il vero pericolo. E invece mi ero lasciato incantare dal suo sguardo e dagli occhietti piccoli, come farebbe un serpente con un uccello. Uno stupido uccellino. Ero io che ero maturato male. Il serpente mi aveva incantato.
(Non puoi salvare il mondo.
Ah, sei tu? Intanto quella ragazza è morta.
Sei sempre lo stesso, pronto a darti le colpe.
Ma allora di chi è la responsabilità? Stiamo diventando tutti Ponzio Pilato.
Come sei noiosamente salvifico. Ti è stato strappato dalle mani, che altro potevi fare?
Nulla… che altro potevo fare? Che altro posso fare?
Ad essere franchi c’è qualcosa che si può fare. E’ forse l’unica chissà se è utile…
Cosa? Dimmi.
Raccontare. Raccontare come è andata).

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