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mercoledì 29 aprile 2015

Chi volesse avere qualche informazione in più su di me, la mia attività e contattarmi, può consultare il mio sito web: www.psicologiachiara.it



UN NEONATO PENSA?

Il neonato non pensa, il neonato sogna. Perché il sogno ha una forza creatrice che raramente il pensiero ha. Il neonato sta creando un mondo intorno a sé, sta imparando a vivere. E la Natura lo aiuta.

Chiunque abbia avuto a che fare con un neonato si è accorto che dorme tantissimo, sin 20 ore al giorno. Come attività cerebrale nel corso dell’evoluzione è comparso per primo nel mondo il sognare. Molto, molto prima del pensiero. Lasciateli dormire.

Si può dormire per anni, ma non si può rimanere vigili per più di qualche giorno, abbiamo bisogno di sognare, sembra più importante sognare che pensare. Tutti gli animali sognano. L’uomo primitivo sognava molto, doveva inventare un mondo nuovo.

Ho sognato di essere un grande professionista. Scrivevo libri importantissimi, e le mie parole erano come le pennellate di un pittore, tutti stavano attenti. Ero brusco o compassionevole al momento giusto. Lauree, attestati, premi. Vedevo persone che scrivevano mentre io parlavo. “L’essere umano è l’unico animale capace di perdonare” mormoravo, e c’erano file di pazienti in attesa, e per i bambini ero come un mago, e tutti si innamoravano. L’amore era, come dice una canzone, la mia unica ricompensa. Ovunque andassi la gente mi riconosceva e sorrideva, e spuntava la primavera. Avete presente la primavera?

Poi mi sono svegliato nel mio corpo. Questa è la mia stanza, questo il mio letto. Sentivo l’aria calma della domenica pomeriggio. Era solo un sogno, con un lascito dolce, un’ombra incantevole. Che però sfumava ogni secondo sempre più lontana, inafferrabile. Non si può tornare indietro. Apro gli occhi e il mondo reale mi saluta. Ora sono sveglio, e posso godermi la vita.

 AL RISTORANTE ANCHE GLI PSICOLOGI CAZZEGGIANO
(intermezzo comico)

“Mi raccomando andate a vedere Le Invasioni Barbariche, è bellissimo!”
“Vero, confermo. Raramente in un film si affronta il tema della vita e della morte in maniera così leggera. Gli americani ne avrebbero tirato fuori un polpettone immangiabile.”
“Giusto. Un mio paziente ha pianto. E’ di quel regista che ha diretto anche Ascesa e Declino dell’Impero Americano?”
“Lui. E a proposito di quel film, c’era la battuta più bella sulla psicoanalisi che abbia mai sentito. Sapete che differenza c’è tra Jung e Freud? Uno parlava sempre di sesso e non scopava mai. L’altro non ne parlava e scopava sempre.”
“He he he.”
“Hi hi hi.”
“Balle! Balle! La verità è un’altra, è che Freud aveva una slandra così!”
“Cosa?”
“E’ storicamente affermato: quando Freud è stato riesumato nel ’57 sono rimasti tutti colpiti. Una roba bella da vedere!”
“Ma non era stato cremato?”
“..Del resto è storia nota: nella prima edizione dei Tre Saggi sulla Sessualità del 1905 Freud voleva estendere l’invidia del pene anche ai maschi. Jung però, che al contrario era ipodotato, lo scongiurò di non farlo. C’è una bellissima lettera a Ferenczi a proposito.”
“E Freud allora?”
“Ippodotato.”
“Oh Madonna, guarda cosa mi tocca sentire. Se ce l’aveva più lungo Freud o Jung…Le solite beghe di parrocchiette teoriche che litigano e si contendono pure i cadaveri.”
“Ti sbagli, non è questione cattolica o ebraica. Emerge una verità storica sempre più evidente: l’origine islamica della psicoanalisi. Gli studiosi ormai sono concordi. Altro che occidentali, discendiamo dagli arabi. Solo così si spiega perché le varie scuoline siano così litigiose e frantumate tra loro.”
“Hai ragione, a volte sembriamo un branco di selvaggi.”
“Ahò!”
“Scusalo Abdel, secondo me la verità è un'altra: l’unico motivo per cui una scuola è superiore ad un'altra è che prima o poi i vecchi maestri muoiono e le nuove idee possono entrare.”
“Naturalmente poi arriveranno le nuovissime leve.”
“E poi la storia ricomincia. Sino a quando si riesumano le salme.”

“Eh eh eh. Avete già deciso cosa prendere?”
IL PAZIENTE IN TELEVISIONE

Chi è stato il tuo paziente più famoso? Mmm… non era certo famoso quando l’ho incontrato la prima volta.
Ti va di parlarne? Va bene,  non ci faccio proprio una gran figura, ma forse può servire. Lo chiamerò …Maurizio, anzi Maurixio (non so perché ma mi suona bene).
Maurixio aveva 13 anni e una famiglia problematica alle spalle. Molto problematica. Soprattutto il padre, vero fuori di testa, di quelli pericolosi. Intanto Maurixio vagabondava per il paese invece di essere a scuola, commetteva piccoli furtarelli, insultava i poliziotti, si accompagnava a personaggi sempre meno raccomandabili, rubava nelle chiese. Insomma, per guai più seri era solo questione di tempo. La Polizia segnalò il caso al Servizio Sociale che, dopo vari tentativi, inserì il ragazzo come “ospite” (che belle parole si usano) in una Comunità dove lavoravo come Psicologo, una struttura
 non certo carceraria o contenitiva, lo dico subito per evitare malintesi, è un luogo affiliato all’ospedale e le sue finalità sono di recupero, prevenzione e cura del disagio minorile. O perlomeno ci proviamo J. Il posto è simpatico e immerso nel verde, ma si tratta pur sempre di uno di quegli edifici che una volta era chiamato Collegio.

La prima volta che Maurixio entrò nel mio studiolo a pianterreno rimasi impressionato: di anni ne dimostrava molti più di 13, era alto e con un’ombra di barba sulle guance, se mi avessero detto che incontravo un maggiorenne mi sarei stupito meno. La faccia era inquietante. Lombrosiana. (Siamo ancora a questo punto? Che una faccia ti evoca un giudizio morale?) Occhietti piccoli, labbra sottili, naso affilato, denti storti, espressione diffidente. Conoscerlo non dava l’impressione che evocano altri bambini o ragazzi sfortunati. No, quando è apparso sulla soglia dello studio mi ero messo subito in guardia, era entrata la tensione. Mi ricordava certi ragazzotti che ho intravisto nelle periferie, e per fortuna solo di giorno.
(Stai attento. Devo perquisirlo? Avrà armi con sé? Ma no, di cosa hai paura, ha solo 13 anni, tu ne hai trenta di più. Al massimo controlla le tue difese. Di cosa hai paura?)
Vista la brevità del nostro primo incontro, gli chiesi se aveva voglia di disegnare qualcosa, che ne so, un albero. L'aveva già fatto "migliaia" di altre volte, ma si sottopose di buon grado. Mentre sceglieva le matite, si vantava spavaldo dei suoi guai con la Polizia, iniziati quando giocava ai videogames per adulti e lo buttavano fuori dalla sala giochi. E continuati quando si metteva in mezzo alla strada per insultarli. Perché? Così, boh. E questa sua carta di identità Maurixio la colorava con altri dettagli, del tipo che tirava i sassi alle macchine, fumava, beveva etc. (Una mela beccata dagli uccellini, che matura male e anzitempo dove è stata colpita). Intanto con la coda dell’occhio guardavo cosa stava disegnando. Non era un albero.
Quando andò via guardai il disegno. Era un diavoletto che occupava gran parte del foglio, rosso con la bocca aperta e le manine alzate. Colorato bene. Sorridente o ghignante? Senza entrare nei dettagli, il messaggio finale era percepibile: che sia chiaro, io sono un diavoletto poco raccomandabile. Così voglio sembrare al mondo. Sono un bambino cresciuto, dovete accettarmi così, e allora posso anche essere simpatico. Voglio far paura. Ma sono pure un bambino, e ho paura.

Come spesso capita, la conoscenza successiva aveva lentamente abbassato le nostre difese. Un giorno vidi Maurixio con uno dei biscotti che tenevo sul tavolo. "Sono passato dal tuo studio e l'ho preso". Bene, interpretai la cosa come una richiesta (la famosa “domanda”, sempre implicita nei minori) e lo portai brevemente da me. Mi raccontò di uno schiaffo dato ad una educatrice e con troppo sforzo scrisse due parole. Sembrava quasi un analfabeta, faceva molta fatica non dico ad esprimere un concetto, ma anche a scrivere il suo nome .
C’era da capirlo. I genitori stavano divorziando e lui era andato a scuola molto molto poco. I suoi Servizi Sociali avevano delineato un quadro che definire fosco è un eufemismo: il padre, mentalmente disturbato, soffriva di una spaventosa gelosia a tal punto da tentare spesso il suicidio, ma il più delle volte litigava pesantemente con la moglie. Ogni tanto si rimettevano insieme, lei restava incinta e lui, convinto che non fosse figlio suo, la obbligava ad abortire (!?!). Una coppia patologica, una follia a due. Maurixio era nato all’inizio del matrimonio, quando le cose ancora sembravano potessero girare bene. Ma poi il tutto era degenerato.
Io quell’inverno continuai a vedere Maurixio in maniera molto occasionale, veniva solo se aveva voglia (praticamente mai). Dato che aveva lavorato come ceramista, una volta gli chiesi un parere sulle piastrelle dello studio. Dopo uno sguardo disse che erano molto costose ma posate male. Come le avrebbe messe lui? Prese alcuni biscotti e formò un piccolo pavimento piastrellato. Si inizia sempre dai bordi. Ideò alternative, mi mostrò disposizioni geometriche nuove. Si appassionò al problema. (Sorprendente. Ma quanto sei intelligente Maurixio? E non poco).
Data la piega confidenziale della conversazione presi il coraggio a due mani e gli chiesi che opinione avesse sull’abitare qui.
Maurixio mi guardò intensamente. Passò qualcosa tra noi due (cosa vuoi da me? posso fidarmi? e mi capirai se te lo dico?). L’attimo di silenzio, che prima o poi arriva sempre. Cruciale, delicato. Magico, per cui potrebbe anche non funzionare. Accade a tutte le età.
Giocherellando con i biscotti, guardando la scrivania, …secondo lui i motivi per cui si trovava qui erano tre: perché si è avvelenato, perché non voleva che i suoi divorziassero, e la terza cosa... perché aveva rubato dei soldi per pagare l'avvocato. Dopo il furto andò a casa sua e senza dire una parola gettò i soldi sul tavolo davanti ai genitori. (Quanta sofferenza, quanti comportamenti brutti). Ma non voleva parlarne adesso…
Masticò rumorosamente un biscotto. “Ti faccio vedere una cosa”. Riusciva a far schioccare le vene delle dita. Ostrega! “E guarda qua”, si tirò giù il maglione e mi fece vedere un buco sulla spalla. (Cicatrici sul petto. Si sta spogliando davanti a me). E le sue ferite, i segni delle cinghiate prese dai poliziotti. Improvvisamente mi guardò e si rese conto che era andato troppo avanti per le sue intenzioni, si rivestì, salutò e uscì in fretta.

Non lo rividi mai più in studio. Ogni tanto il ragazzo scappava dalla Comunità, vagabondava per conto suo o tornava in famiglia per qualche tempo. Oppure spariva per un paio di giorni. Cosa faceva? Dove andava? Non si sa.
Nessuno di noi in Comunità si straccia le vesti se un ragazzo fugge, è un comportamento sintomatico come tanti, e neanche il peggiore. Oddio, non fa certo piacere,  fosse anche solo per le ripercussioni: una volta una ragazza fuggita alla stazione del paese riuscì a rubare un treno (un treno! non si è ancora capito come abbia fatto). Ma alle fughe dei ragazzi, comunque rare, ci siamo abituati e spesso si risolvono da sole, e possono essere un punto di partenza (ah ah), o lo sfogo finale di una crisi. Una notte di luglio però la fuga di Maurixio ebbe conseguenze drammatiche.
Il padre se l’era andato a riprendere, dopo che il ragazzo era fuggito e gli aveva telefonato. Per farla breve poi il padre aveva denunciato tutti ed il ragazzo era stato dimesso dalla Comunità alla velocità della luce.

In molti operatori (non è bello ma bisogna dirlo) avevo notato ai tempi un certo sollievo: a volte Maurixio si era comportato proprio come un teppistello con gli altri ragazzini, un bullo, un cattivo maestro. E Dio sa che questi ragazzi non ne hanno proprio bisogno. I nostri sforzi “educativi” poi sarebbero stati assolutamente vanificati e svaporizzati da quel padre, impossibile da allontanare e contenere. “Tanto valeva per noi non tenere questo ragazzo” mi disse sconsolato un educatore. Un fallimento, insomma.

Peccato. Maurixio, mi dissi all’epoca, ha sentito il richiamo della foresta e non ha resistito. Mi chiesi se covava tale fuga da tempo o se era stata una decisione improvvisa. Ma altri problemi incombevano e ne presero rapidamente il posto –fu un periodo decisamente infuocato-. Maurixio venne dimenticato.

Fino a che…Sei anni dopo il Tg regionale aprì i notiziari con una notizia di cronaca nera: una ragazza era stata assassinata da un 19enne, che a mala pena era sfuggito al linciaggio della folla inferocita, che continuava ad assediare la Questura. “Il ragazzo, un certo Maurixio, già noto alle forze dell’ordine, è ora in carcere con l’accusa di omicidio volontario. Si prevede una pena severissima.”
A me sembrava di vivere in un film. Provavo una sensazione di irrealtà. Non avevo capito nulla. Avevo scritto qualcosa sul nostro incontro? Che impressioni mi aveva lasciato? Avevo pensato a lui in questi anni? Ma forse sto andando troppo avanti, magari non ho capito bene.
Il mezzobusto del Telegiornale continuava impietoso: “…dopo averla aspettata in un vicolo poco frequentato, il giovane le è saltato addosso di spalle…”
“Che vigliacco! Che vigliacco!”, commentava intanto mia moglie.
“…impugnando un coltello e intimando di avere un rapporto sessuale con lui. La ragazza, che tornava dal lavoro, ha tentato di divincolarsi, ma il ragazzo, di nome….
Santo Dio. Era lui, era lui.
…appena 19 anni e già sospettato di azioni simili, al suo rifiuto l’ha accoltellata alla gola ed è scappato. La ragazza è morta dissanguata e il suo assassino è stato subito…”
Mi rifiutavo con ostinazione di crederci. Forse ho sentito male. Si era trattato veramente di lui? E se mi fossi sbagliato? Non sarebbe la prima volta. Magari ho capito male il nome. Domani controllerò sui quotidiani. Cercando di non far trapelare il mio turbamento (quella sera avevamo ospiti) indossai la solita maschera sociale. (Come è comodo, come è indolore fare lo struzzo). Già il tutto veniva cacciato nel buio.
Il buio però lo fece saltare fuori. Quella notte ebbi un incubo e mi svegliai ghiacciato. Andai in cucina per un bicchiere d’acqua. Mi misi a giocherellare con le tesserine del domino di mio figlio, lasciate sul tavolo della cucina. Un modo piacevole per insegnare i numeri, o così speravamo. Le tesserine del domino… i biscotti… Tutto è collegato nella nostra mente. Come il domino, lasciando cadere una tesserina qui affiorava un pensiero là. Posando le piastrelle emergeva un disegno. Una cosa porta ad un’altra.

Non mi ero accorto del suo cuore buio. Pensavo fosse uno spazio vasto e vuoto, ancora da colmare, misterioso. Se all’epoca, quando si è spogliato, avessi seguito il serpente che si srotolava sarei arrivato in fondo. Non dovevo farlo uscire dallo studio. Sino al centro, avrei trovato la coda, l’origine del male, che agiva la pazzia. L’esempio mortale di un padre folle, il vero pericolo. E invece mi ero lasciato incantare dal suo sguardo e dagli occhietti piccoli, come farebbe un serpente con un uccello. Uno stupido uccellino. Ero io che ero maturato male. Il serpente mi aveva incantato.
(Non puoi salvare il mondo.
Ah, sei tu? Intanto quella ragazza è morta.
Sei sempre lo stesso, pronto a darti le colpe.
Ma allora di chi è la responsabilità? Stiamo diventando tutti Ponzio Pilato.
Come sei noiosamente salvifico. Ti è stato strappato dalle mani, che altro potevi fare?
Nulla… che altro potevo fare? Che altro posso fare?
Ad essere franchi c’è qualcosa che si può fare. E’ forse l’unica chissà se è utile…
Cosa? Dimmi.
Raccontare. Raccontare come è andata).
ESSERE UNA PERSONA CATTIVA

Dopo il post precedente, devo fare una precisazione, che riguarda un po' tutti.
Cosa vuol dire infatti "essere una persona cattiva"? Sono solo i criminali? Ma poi esistono veramente i cattivi, o sono solo frutto della società?
Lavorando da anni in un Tribunale mi sono accorto che purtroppo le "persone cattive" esistono. Non sono per fortuna tantissime ma ci sono.


E avevano tutte una caratteristica in comune: pensavano solo a se stesse, senza badare minimamente alle conseguenze o al mondo, percepito come qualcosa da sfruttare. Anche le persone purtroppo.
Al massimo nella loro cerchia comprendevano i familiari o il clan, ma non di più. Se beccati, dicevano di essere dispiaciuti per il dolore inflitto alle loro famiglie. Mai un pensiero per le vittime.
Insomma, la cattiveria è come un egoismo assoluto. Va bene e fa bene certo pensare a se stessi, anzi è doveroso (e possiamo discutere a lungo del limite), il guaio è quando si egoista in maniera totale. E diventa facile accettando questa premessa far qualcosa di "cattivo".


Detto in altre parole, ogni volta che vogliamo affermare noi stessi e siamo egoisti stiamo sfiorando la cattiveria. L'abilità -che come tutte le abilità si impara- è quella di esserlo senza per questo far soffrire inutilmente. 

Discorso che per la sua importanza è da riprendere. Per adesso mi limito a precisare questo: il bambino sembra un egoista, in realtà è egocentrico. Se fa qualcosa di cattivo non è consapevole che lo sta facendo (l'adulto sì), non sa che il mondo non vede come lui, deve imparare questo. Inutile punirlo, meglio educarlo con pazienza. E amore.

IL MALE ASSOLUTO
A novembre le mattine possono essere parecchio fredde, e in più ero in mezzo alla campagna lombarda, proprio davanti al carcere di Opera. Aspettavo dei magistrati per entrare, c'era una udienza particolare oggi. Bisognava trattare il caso di una persona nota come il capo indiscusso della Mafia siciliana. Ho dormito male stanotte, ma ho dormito.
Per la delicatezza del caso e in via eccezionale, era stato il Tribunale ad essere andato da lui e non il contrario. Puntuali sono arrivati tutti, magistrati togati, un esperto in criminologia, il procuratore, la cancelliera etc. Il direttore di Opera ci ha ringraziato di cuore, avrebbe dovuto impegnare tanti uomini solo per lui.
Subito ci siamo diretti verso la palestra femminile del carcere, dove era stata approntata una scrivania e delle sedie. L'incontro si sarebbe tenuto lì.
Il carcere di Opera è imponente, pieno di porte gigantesche e metalliche. Ci saranno 1200 detenuti e quasi il triplo di agenti. Mentre la macchina percorreva i lunghi viali interni si sentiva un silenzio non normale. I grandi prati erano curati e gli alberi potati, ma in giro non si vedeva assolutamente nessuno. Arrivati nella palestra femminile (in pratica una stanza con soffitti bassi e sbarre alla finestra) ci siamo seduti tutti, abbiamo parlottato e dopo pochi minuti, accompagnato dal suo elegantissimo avvocato fiorentino, è arrivato lui, il male assoluto.
Plurimi ergastoli e svariati omicidi alle spalle, di cui qualcuno eseguito personalmente tramite strangolamento (il brutale metodo preferito) (guardami mentre ti ammazzo), padrino della mafia corleonese, efferato, disumano. Sulla sua coscienza gravano anche bambini. Una fedina penale lunga 22 pagine fitte, che partiva dagli anni '50. Mandante delle stragi che insanguinarono la Sicilia, uccidendo tra l’altro i giudici Falcone e Borsellino.
Catturato nel 1993, da allora vive in completo isolamento, controllato 24 ore su 24 da telecamere, anche quando va in bagno. Non può ascoltare radio, leggere giornali, incontrare o parlare con chicchessia, tranne familiari o avvocati per due ore al mese dietro un vetro.
Come sareste voi se aveste vissuto gli ultimi 22 anni in questo modo? Senza nulla che conforta, senza un bacio, una carezza, vedendo solo mura intrise di disprezzo. E' il trattamento detto 41 bis, una delle poche leggi veramente restrittive in Italia (e a lui applicato con particolare rigore), forse perché emanata con emozione, a ceneri ancora fumanti per così dire.
La prima impressione è però deludente. Un omino dimesso, un pensionato come se ne incontrano tanti in giro, di certo ad incontrarlo per strada non mi volterei. Ma, appena il presidente di udienza gli ha dato parola e ha incominciato a parlare, il vecchietto come in un incubo si è trasformato nel capo dei capi. Determinato, prevaricatore, intelligente. Di quella intelligenza agricola e concreta, espressa in un siciliano stretto ma comprensibile. Le mani erano callose, spesse, da uomo cresciuto con la zappa tra le mani.
La lucidità era impressionante, il discorso un filo di ferro. Ho incontrato poche volte in vita mia una persona che emanasse una tale forza soggiogante. Più di vent'anni di isolamento durissimo non l’avevano spezzato. Ascoltandolo si capiva benissimo come avesse potuto reggere da latitante una organizzazione ramificata in tutto il mondo. Non gli sfuggiva nulla. Un capo, un contadino fatto di ghiaccio. Terribile che una persona così acuta sia aldilà di ogni redenzione, disprezzi così tanto il valore della vita umana.
Durante il suo discorso mi ha guardato per un attimo. Un lampo, ma la sensazione di essere considerato inutile come un insetto è stata nettissima. Non mi ha più guardato per tutto il resto dell'udienza. Il procedimento è andato avanti come al solito, tutti cercavano di esporre con compostezza ma senza aggiungere una parola di più; ed era meglio trattenersi per quanto possibile, dovevamo evitare gesti anche involontari (sono messaggi). Il suo avvocato ha comunque sfoggiato una roboante arringa, in cui ha coinvolto tutti, dal Sisde alla Massoneria etc. Alla fine di tutto sono venuti tre agenti a riprenderselo, e se ne è andato a passetti piccoli, dicendo "buongiorno".
L’ultima immagine che ho di lui, mentre parlava al suo avvocato, è una scena che non dimenticherò mai. Il suo difensore è uno stangone alto più di 1.80, mentre lui supera di poco gli 1.50, eppure da come gli parlava sembrava lui il più alto. Lo "comandava" e intanto l'avvocato si piegava in quattro. Non è possibile, mi dicevo, ci vedo male. Ho guardato meglio, ma il più alto pareva sempre lui. Se non l’avessi visto con i miei occhi non ci crederei.
Per la tensione appena tornato a casa mi sono buttato sul letto e ho dormito. Sono abituato ad incrociare debolezze ma questa esperienza, incontrare un carattere così forte, mi aveva stremato. Qualcosa di profondamente cattivo, che non capivo, non posso capire. Un mistero biblico, che si può solo guardare per poco. “Perché il loro sorriso viva per sempre” è scritto in un grande poster sotto i volti di Falcone e Borsellino, e bisogna rappresentare la parte migliore dello Stato, quella che esegue e rimedia. Non sempre è facile.
 LA MIA PRIMA PAZIENTE, LA MIA ANNA O.

Neolaureato in Psicologia, mi recai dal medico del quartiere per offrire i miei servigi. Superato un comprensibile nervosismo, entrai nel suo studio, mi sedetti ed esposi le mie (fragili) competenze. Certo avevo entusiasmo ed energia da vendere, ma la mia borsa per intendersi era vuota. Erano tempi in cui sparavo in cento direzioni, sperando prima o poi di beccare qualcosa, solo che non sapevo fare niente.
Niente. Il corso di studi universitario era stato molto teorico e poco pratico. Conoscevo i disegni più comuni, il Rorschach, avevo frequentato un corso di Training Autogeno e lavorato come educatore per disabili. Tutto lì. Anche a sforzarsi, non era molto. A parte poi la mia esperienza personale come paziente, non avrei saputo come gestire un colloquio. Però in molti mi dicevano “l’importante è buttarsi, provare.” 
Ripensandoci la mia inesperienza doveva essere evidente, ma volevo comunque iniziare. Il medico, forse convinto dalla mia passione, o incuriosito, o perché essendo un buon uomo gli piaceva dare una mano ai “giovani”, mi segnalò una sua paziente, che secondo lui aveva bisogno di parlare con qualcuno Una signora sui 55 anni, di nome Tina, malata terminale di cancro e che soffriva terribilmente. Le amiche andavano a trovarla ma non sapevano più cosa dirle, e il marito e la figlia assistevano impotenti al suo spegnersi. Non si poteva aumentare la già massiccia dose di antidolorifici, e ogni giorno era sempre peggio. Quando le telefonai, si dimostrò contenta che andassi a trovarla, sapeva che l’avrei chiamata.
Mi ricordo ancora la sua camera, piena di farmaci e flebo. Tina era minuta, la vita non era stata gentile con lei. Nei nostri primi incontri facevamo lunghe chiacchierate sulla sua vita. Aveva lavorato come sarta, ma ormai era troppo debole e ammalata. Piangeva spesso. Io non sapevo cosa dirle in quei momenti. Avrebbe voluto vedere sua figlia sposarsi, e diventare nonna, ma sarebbe morta prima. Aveva anche trovato una donna per suo marito, per quando non ci sarebbe stata più. Ogni tanto le proponevo di disegnare qualcosa, ma non le piaceva. Faceva sempre alberi rinsecchiti, sull’orlo di un precipizio.
Un giorno ebbi una idea: perché non provare con lei il Training Autogeno? Male certo non le avrebbe fatto. Il TA è una forma blanda di ipnosi, in cui il terapeuta propone immagini distensive e induce un rilassamento nel soggetto. Ricordo ancora qualcuna di queste immagini (…l’acqua che scivola dai tetti…). Utile per l’ansia e malattie psicosomatiche. Proposi a Tina delle sedute di TA, e successe una cosa sorprendente. Tina si rilassava moltissimo, e quando si destava non provava più dolore, stava bene. Addirittura poi la notte dormiva come non succedeva da tempo, senza antidolorifici. Il marito e la figlia erano sempre più contenti quando arrivavo, con grandi sorrisi e inchini ci lasciavano da soli “a lavorare”.
A questo punto devo confessare però qualcosa di non bello: malgrado un risultato straordinario (per Tina e per me), avendo strane idee in testa sulla psicoterapia non consideravo Tina proprio una paziente. Le avevo rivelato poi onestamente che era la mia prima volta, e non volevo nemmeno essere pagato. Ero superbo? Superficiale? Mi difendevo dal dolore? E’ andata così. I nostri incontri per esempio non erano costanti, anche se ci incontravamo spesso.
Ricordo ancora un pomeriggio estivo in cui, durante il TA, Tina si addormentò come ormai accadeva sempre più spesso. Appena lei sprofondò nel sonno io mi guardai intorno. “E adesso?”. Ero molto imbarazzato, in casa oltre a noi due non c’era nessuno. Silenzio. Dovevo restare lì ma non sapevo cosa fare. Mi misi a sfogliare una rivista femminile (Grazia o Amica, non ricordo), aspettando che Tina si svegliasse.
Si svegliò serena e rilassata, con un sorriso. Per ringraziarmi, mi regalò una lunga striscia di seta gialla, molto fine. Se fosse stata meglio mi avrebbe cucito una camicia, quella seta era per me. Non fa niente, l’importante è il pensiero. La ringraziai e la presi, mi sembrava scortese non accettare. In verità però non sapevo cosa farmene, così la regalai alla fidanzata, e chissà adesso dove è finita. Cosa non darei adesso per avere quella stoffa gialla tra le mani. Accarezzandola mi sembrerebbe di tornare a quei tempi, quando tutto sembrava ancora possibile.
La storia purtroppo non ha un esito felice. Mi dovetti assentare per qualche mese dalla città e nel frattempo Tina peggiorò e morì. Rientrai appena in tempo per il suo funerale. Mentre il corteo sfilava sentivo dentro di me qualcosa che premeva. Era qualcosa di più che il sentimento che si prova in circostanze del genere, riguardava il mio lavoro. Forse, mi dicevo, aveva avuto bisogno di me, avrebbe avuto sicuramente bisogno di me, ma io non c’ero. Non c’ero.

Volevo essere Freud, ma mi ero comportato come un Breuer qualsiasi. Come avevo potuto abbandonarla così? Certo, gli impegni qui e i progetti là, tutto vero, sta di fatto che la mia assenza mi pesava. Durante la cerimonia funebre, compresi una verità che non sospettavo si potesse applicare anche a me, alle prime armi. Quando si instaura una qualsiasi relazione di aiuto, questo legame è di natura speciale, e io ne sono responsabile almeno quanto il paziente. Ti ringrazio Tina, ovunque tu sia. Ti penso spesso.

giovedì 23 aprile 2015

SIATE MALEDETTI (una invettiva chiara)
Vecchi invidiosi, che ci dicevano di non fare l'amore ma di studiare. 
Ci avvertivano di non divertirci troppo, di non fare rumore. Lo studio era duro lavoro, mica divertimento.
Vecchi invidiosi della gioventù, contenti quando i giovani erano repressi. Vampiri che succhiavano il sangue della giovinezza usando l'educazione, oh lo faccio per il tuo bene. 
Oh, lo fai per il mio bene di punirmi? Ma perché non mi lasci in pace, vecchio invidioso, pensa alla vita che ti resta. 
E ora sto guardando la tua tomba, per essere sicuro che tu sei morto.

lunedì 20 aprile 2015


IL GIARDINO DELLA MENTE

C'era una volta un giardino su una collina
Era verde e fioriva davanti al mare con il sole e la pioggia
splendevano tanti colori sul terreno
Il giardino dava forma ed equilibrio alla vita
Ma poi arrivò un vento forte, fortissimo
Cadde la neve e ho temuto per il mio giardino
Così ho costruito un muro dopo l’altro e un tetto robusto
Reso forte dai sassi contro le frecce di un destino crudele
In questo modo il freddo assassino non riusciva ad entrare
E quando è arrivato il sole con la pioggia leggera di primavera
Non riuscivano ad entrare nel giardino dietro quelle mura
Sarebbe morto in assoluta sicurezza, morto...
Ma ho visto, ho capito, ho buttato giù i muri
E il giardino vive ancora

(David Crosby, 1967)



Questa bella canzone di David Crosby riflette a mio parere un problema che abbiamo in tanti, quello di dosare sicurezza e curiosità, apertura verso il mondo e anche tranquillità. Troppa sicurezza è mortifera, ma troppo esporsi può bruciare.
Mi ricorda molto il dilemma che ha un padre, quando insegna a suo figlio ad andare in bicicletta: gli tiene la bici, e se lo lascia andare troppo presto suo figlio cadrà, se lo tiene troppo non imparerà mai. 
Quando lasciarlo andare? Bisogna certo avere cautela e valutare bene ma ad un certo punto non c'è nulla da fare. Bisogna avere il coraggio di lasciar andare la bicicletta. A volte basta solo un po' di coraggio.